GREENWASHING:“POLITICA DEL CRICCHETTO” E TRANSIZIONE ALLA SOSTENIBILITA’

Greenwashing è neologismo inglese che generalmente viene tradotto come inganno comunicativo e tecnica informativa falsa di ecologismo e politiche ambientali, utile anche per posizionarsi sul mercato acquisendo segmenti di clienti consumatori sensibili all’ambiente, all’ecologia ed al clima.

Ricordo che questo termine viene fatto risalire agli anni “60 quando l’industria alberghiera affisse i primi avvisi nelle camere d’albergo per chiedere agli ospiti di riutilizzare gli asciugamani per la salvaguardia dell’ambiente mentre invece il fine era il taglio dei costi.

L’uso costante di questa parola (crasi di “green”- verde come colore dell’ecologismo e   “washing”  dal verbo to wash, lavare)ha assunto un valore generalizzato che indica l’inganno comunicativo delle imprese riguardo alla sostenibilità ed alla responsabilità sociale delle imprese. E’ una sorta di “metonimia”.

Ora si sono strutturati anche vari tipi di washing: dal socialwashing millantando risultati sociali in modo esornativo e per eccesso al pinkwashing quando si sviluppano politiche aziendali “general generiche” per la diminuzione della disparità  fra generi e del “gender gap” non suffragate da dati reali(per esempio parità di stipendio), dal rainbowashing quando una impresa  dichiara di essere commitment alla comunità Lgbtqia+ senza sviluppare servizi a loro favore al wokewashing ed al blue washing quando si dichiara, per esempio di essere coerenti con i principi del Global Compact delle Nazioni Unite senza azioni concrete. E poi ancora il Blackwashing (si veda R.Sobrero -Verde anzi Verdissimo-Egea Mi-2022).

Da queste definizioni e considerazioni si nota che il tema critico, comunque, è la comunicazione ingannevole e il set di azioni aziendali che mistificano la realtà del prodotto/servizio percepito. Si potrebbe dire che il “vulnus” non è l’oggetto della comunicazione salvo che addirittura non si usino, per esempio, prodotti nocivi all’uomo ed agli animali, non si faccia violenza  ecc(tutti questi sono reati “in re ipsa”,non di comunicazione).

La transizione alla sostenibilità ambientale (Climate Transition Plan), al sociale alla  governance/partecipazione agìta, è ormai fatto acquisito ,ma nel contempo è cautelativo e indicatore di un modello che dilazionerà gli SDGs e l’Agenda 2030.

La transizione è un processo e, paradossalmente, il greenwashing potrebbe essere un fatto positivo (quasi necessario) per il sistema perché le imprese devono riportarsi sulla “retta via” se sono state accusate di perpetrare inganni e dicono il falso sulla loro performance ambientale, sociale e di goverrnance.

Ma il tutto attiene alla comunicazione ingannevole e sviante, non tanto all’attenzione alla sostenibilità che è oggetto di superfetazione.

Il rischio è che in assenza di un rating uniforme  di sostenibilità per le imprese che si ottiene tramite misurazione e valutazione d’impatto ambientale, sociale, di governace con indici ed indicatori quantitativi e con l’accusa indiscriminata(senza misurazione e valutazione) di greenwashing le imprese  scelgano il greenhushing cioè riducono la comunicazione  sulla sostenibilità per evitare sanzioni.

Si entrerebbe in una sorta di “guerra fredda” fra consumatori ed imprese e ci sarebbero boicottaggi reciproci.

La frase “il consumatore ha sempre ragione” non è del tutto vera e spesso ci sono state smentite sul mercato.

È stato fatto un report in cui si afferma che un quarto delle aziende analizzate non aveva alcuna intenzione di parlare delle proprie azioni di sostenibilità e questo sta avvenendo, in alcuni casi ,e come tendenza non generalizzata anche nel 2024 .

Sono state prese in esame 1400 aziende che hanno un manager della sostenibilità in 12 paesi  ed in  14 settori; la maggior parte delle aziende intervistate ( in 10 dei 14 settori ) hanno ridotto intenzionalmente le proprie comunicazioni sul clima e d’altro canto  la moratoria di investimenti ESG  si sta delineando concretamente o comunque un tendenza a evitare la comunicazione su ESG ed  addirittura a non fare investimenti sulle energie alternative (in altri articoli ho già trattato questo tema) è un fatto che avvalora questa tesi.

JP Morgan e State Street Global sono uscite per esempio dal Climate Action 100 + che è una piattaforma americana per ridurre l’impatto carbonico.

Senza fare del sensazionalismo 81% delle aziende ritiene che comunicare gli obiettivi di net zero è spesso percepito come un bias e pregiudizio sul profitto.

Ma  questo è anche un tema che ricorre negli investimenti ESG che sono considerati troppo complicati. 

La sostenibilità è qualcosa che ha una misurazione ed una valutazione d’impatto e ,se applicata, alle imprese sospettate di greenwashing offrono un riferimento oggettivo e sviluppano la “politica del cricchetto” cioè un “tool” di management che non permette di tornare indietro, ma è utile per andare avanti.

 Questa attività di misurazione e valutazione dovrebbe essere fatta da una organizzazione non profit che per la sua “terzietà-terza”  e per il suo non coinvolgimento in uno sviamento di giudizio e non collegata al profitto ed ai dividendi ,offrirebbe garanzie di massima credibilità.

Ad  oggi alcuni  riconoscimenti di sostenibilità di molte imprese, anche particolarmente note, si richiamano a  organizzazioni profit  a cui pagano il servizio in logica mercantile.

Tutto questo non significa  entrare in una dimensione di sospetto, perché altrimenti qualsiasi tipo di attività di tipo per esempio profit potrebbe essere considerata tale(fermo restando il pericolo del “fallimento del Mercato” e spesso l’”asimmetria informativa fra impresa e consumatore”),ma certamente bisogna avere un livello di trasparenza di rating e di giudizio  costante e scientificamente accreditabile.

Comunque siamo in un contesto normativo in evoluzione  in collegamento con la legge contro il Green Washing del Parlamento Ue del 17 gennaio 2024. E chiaro che il tutto deve essere oggetto di misurazione e valutazione di impatto ex ante ed  ex post.


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