GUERRE E PACI

La IX edizione di Biennale Democrazia, tenutasi dal 26 al 30 marzo a Torino, si è focalizzata sul tema della guerra, o meglio delle guerre e delle paci: una lettura attenta sui conflitti che attraversano le nostre comunità, in uno scenario mondiale che cambia con grade velocità, e alla violenza che prende la forma bellica e disumana delle devastazioni, dei bombardamenti e della minaccia di scontri interni alle società di tutto il mondo. Compreso il cosiddetto Occidente di cui facciamo parte.

In questa tensione globale, cresce l’idea degli organizzatori di “discutere di democrazia come tecnica di convivenza pacifica tra individui, nazioni, specie”. Con una premessa e un assunto non scontato, dato il clima del momento, viene esplicitato quanto “il conflitto sia connaturato al carattere plurale delle nostre società”. La democrazia e le sue istituzioni dunque “devono recuperare la loro funzione di risoluzione pacifica delle controversie”.

In estrema sintesi, gli esseri umani non sono buoni e la pace è il “risultato di equilibri precari spinti dalla necessità di trovare accordi che salvaguardino la sopravvivenza dei singoli, degli Stati, del pianeta”.

Nel mondo della complessità e della transizione i due temi del Festival, la guerra e la pace, vanno declinati al plurale: la violenza e il conflitto hanno cause, specificità, forme e dimensioni diverse fra di loro, e lo stesso vale per le strategie e le forme di composizione del conflitto tra paesi e dentro le nostre società. Il tema “guerre e paci” viene declinato in quattro aree: il conflitto interno alle società, la geopolitica e i rapporti di forza tra stati e continenti, i conflitti locali e globali, la pace sostenibile oltre l’utopia e l’evocazione.

La Biennale

Sullo sfondo dei quattro giorni della Biennale resta il tema della sintesi, in questo caso delle “paci possibili” che possono emergere anche e soprattutto da equilibri precari, dagli errori e dalle imperfezioni, che sono il vero motore dell’evoluzione o dell’innovazione.

Altro tema di fondo è quello della fragilità di fronte allo sviluppo e al progresso del genere umano, un concetto, come quello dello stato, che negli ultimi anni era uscito dal discorso pubblico ma che oggi sta tornando di moda. In tempi di guerre e di incertezze, lo stato non è più percepito come il participio passato del verbo essere e di fronte all’aumento delle povertà e delle disuguaglianze l’idea del progresso non sembra più cosi ingenua ed utopica come nel recente passato.

Per il Presidente della Biennale Democrazia, il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, guerra, violenza e conflitto sono “temi ineludibili del nostro presente”, poiché “non può esservi convivenza democratica senza pace”.

In un clima di crescente polarizzazione delle posizioni e delle opinioni, è fondamentale ribadire il senso profondo di Biennale Democrazia: ritrovarsi assieme per discutere, dialogando per mettere a confronto posizioni anche molto distanti, prendersi il tempo per la comprensione reciproca come primo necessario passo per trovare soluzioni pacifiche, mai così agognate.

Nei dibattiti a cui abbiamo avuto partecipato in effetti il pubblico non è stato uno spettatore passivo ma partecipe, capace di stimolare e intervenire e di spesso di ridare centralità alla necessità di costruire soluzioni e proposte oltre alle analisi.

Errori imperfezioni e creatività

Diceva Keynes che dietro ad ogni fallimento c’è sempre una cattiva idea, che deriva a sua volta da una analisi parziale o peggio sbagliata. Diciamo che oggi le analisi ci sono e sembrano decisamente convincenti. Per quanto riguarda la proposta forse conviene avere ancora un po’ di pazienza…

L’innovazione in qualunque campo è una questione culturale e di visione prima che un fatto economico e tecnologico.

I grandi salti della storia spesso sono fatti di errori e di imperfezioni, fattori di trasformazione potenti e disruptive tipici della creatività umana. Su questo tema la biennale dedica una mostra “Making Mistakes. La forza trasformativa degli errori”, un progetto dell’associazione Plug, 40 poster provenienti da tutto il mondo sulla creatività e sull’imperfezione, una caratteristica tipicamente umana che ci fa essere diversi dalle macchine, che esistono solo perché le abbiamo “inventate” noi.

Siamo stati alla Biennale Democrazia a Torino, un grande evento fatto di talk, di grandi ospiti internazionali, di mostre e di performance artistiche. Abbiamo deciso di seguire i dibattiti in cui si è parlato di come la tecnologia, ed in particolare l’intelligenza artificiale, ha cambiato i rapporti di forza tra la potenza del mondo e il modo di pensare la sicurezza e i conflitti tra gli Stati.

Qui ne abbiamo scelti due, che secondo noi arricchiscono un dibattito sulla doppia natura dell’innovazione e sulle sue conseguenza politiche che nel nostro paese stenta a decollare nella sua complessità.

DAL NEOLIBERISMO AL TECNO-FEUDALESIMO

Mai come negli ultimi dieci anni il potere economico e tecnologico si è concentrato nelle mani di pochissimi, e mai come negli ultimi anni sono aumentate le disuguaglianze tra i pochi ricchi, sempre meno e sempre più ricchi, e i molti poveri, sempre più poveri e numerosi. L’aumento della disuguaglianza erode la democrazia e svuota i processi democratici basati sulla “partecipazione” in senso lato. Ed alimenta conflitti vecchie e nuovi che esistono da sempre nelle nostre società.

La tecnologia e il digitale che hanno cambiato il nostro modo di vivere e di pensare hanno anche modificato il modo di stare assieme e di comunicare, creando nuove asimmetrie e disuguaglianza, scenari e contesti nuovi cui si associano nuovi racconti e immaginari nuovi. Le nuove tecnologie sono connesse alle nuove forme di conflitto con cui oggi la politica deve fare i conti nell’era dei dati, in un contesto in cui le stesse democrazie sono per forza diverse da quelle che abbiamo conosciuto nel secolo scorso.

Il progresso

Il “Divorzio tra progresso economico e progresso sociale”, di cui parlava Norberto Bobbio nel secolo scorso, oggi sarebbe traducibile nella separazione netta tra progresso tecnologico e progresso sociale. Ad essere impressionanti semmai sono la velocità con cui procediamo verso questo scenario e l’accelerazione impressa in questi ultimi anni

Siamo in una fase nuova, simile per certi aspetti a quella precapitalistica e che va oltre. Secondo Cédric Durand, professore di economia politica all’Università di Ginevra e membro del Centre d’économie Paris Nord, siamo al Tecno-Feudalesimo, un contesto mondiale caratterizzato dallo strapotere delle Big Tech, un potere fuori controllo e senza precedenti nella storia, in cui lo stato conta sempre meno.

Con le IA oltre alla ricchezza le grandi corporate del dato hanno acquisito un potere politico che rischia di sovrastare quello degli stati.

In altri termini mentre cominciavamo a capire e preoccuparci che le big tech stessero diventando troppo ricche, nel frattempo sono diventate anche troppo potenti e hanno accumulato posizioni di vantaggio sulla politica che oggi è difficile colmare. Il tecno-feudalesimo è una nuova forma di colonialismo basato sulla concentrazione delle capacità e dell’infrastruttura digitale e spinta da due dinamiche, complesse e interdipendenti tra loro: la tendenza alla computerizzazione di tutto e la pervasività dei modelli piattaforma applicati a tutte le imprese, a prescindere da cosa producano o vendano.

L’incertezza radicale

Siamo in una fase di transizione in cui si stanno riposizionando tutti gli attori che contano. Siamo abituati a pensare che il capitalismo qualunque sia non possa esistere senza lo stato. Lo Stato non viene meno, piuttosto viene gestito con logiche tipiche del profitto privato, ma le crisi del XXI secolo generano uno stato di incertezza radicale che aumenta il conflitto e lotta tra i nuovi potenti. Il feudalesimo nel contesto attuale sembra essere una risposta efficace all’incertezza.

Ci sono due immagini recenti che catturano con grande efficacia lo spirito del tempo. La prima è la foto di Trump, con Musk e il suo ultimo figlio nello Studio Ovale della Casa Bianca. La seconda ritrae i capi delle Big Tech che assistono in prima fila all’incoronazione di Trump.

I Magnifici 7, Alphabet (Google), Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Tesla e Nvidia, l’ultimo arrivato, hanno una capitalizzazione complessiva pari a 18 mila miliardi di dollari, più di Germania e Giappone e quasi quanto l’Europa. Fanno più brevetti e investono in ricerca quanto l’UE, e di fatto riconfigurano le gerarchie economiche e politiche in due poli: gli USA e la Cina, speculare agli Stati Uniti con le sue Big Tech e le sue piattaforme, leggi Ali Baba, TikTok, Deep Seek, Baidu, Tencent, Shien e Xiaomi.

In mezzo tra la Cina e gli USA c’è l’Europa, che oggi è un vaso di coccio.

La computerizzazione del mondo

80 anni fa il mondo vide per la prima volta l’ENIAC (Electronic Numerical Integrator and Computer), una macchina imponente che occupava una stanza intera, pesava più di 27 tonnellate e conteneva circa 18.000 tubi a vuoto. Correva l’anno 1945.

Il Talk sui Big Data le AI e le guerre con Juan Carlos de Martin e Dario Guarascio parte dall’immediato dopoguerra. Nel 45, dall’Eniac che poteva eseguire calcoli complessi a velocità mai viste prima, ha inizio l’epoca in cui i computer diventano di uso comune e sempre più piccoli. Inoltre la maggior parte degli oggetti di uso comune vengono dotati di sistemi informatici, dal frigorifero alle automobili, e producono una enorme quantità di dati. Questo processo di “computerizzazione” del mondo si è concentrata nelle mani di pochi gruppi che hanno la tecnologia e le competenze necessarie a gestire e trarre valore dai dati. Le big tech, le FAMGA, hanno oggi uno straordinario potere economico e politico, inedito nella storia economica e sociale. In altri termini le “vecchie” contraddizioni restano ma assumono una forma e una natura nuova, quella tecnologica.

I conflitti che nascono da quelle contraddizioni restano collegati al potere economico, ma oggi nella variante tecnologica sono ancor più strumentali al perpetrarsi e consolidarsi di questi rapporti che in passato.

Le magnifiche 7

Come hanno fatto le Magnifiche 7 americane e le loro simili cinesi a diventare in così poco tempo così potenti?

La risposta probabilmente sta nel sistema della piattaforma e nel suo modello di business, che si basa sul patto “faustiano” tra la piattaforma e l’utente che cede il suo dato personale in cambio dei servizi gratis che la piattaforma eroga, ben sapendo che l’esposizione alle piattaforme consente una valorizzazione dei dati a vantaggio della sua piattaforma.

I beni e i servizi delle piattaforme hanno inoltre una natura reticolare tale per cui è difficile per l’utente “abbandonarne” l’uso. Si pensi a Whatsapp, a Netflix o Amazon, che controllano e fidelizzano gli utenti, obbligando di fatto le aziende a fare i conti con le profilazioni.

Le big tech e lo stato

L’imprintig militare della big tech è un dato di cui si parla troppo poco.

Ed è il terzo aspetto della questione: il rapporto tra piattaforma e stato e tra piattaforma e sicurezza naturale. Internet nasce con un legame di mutua dipendenza con lo stato. Il tech è favorito da interventi pubblici e per sua naturale è scalabile, premia chi arriva prima e favorisce processi di concentrazione.

Lo sviluppo del neoliberismo è il contesto ideale dentro cui si sviluppa il passaggio all’utilizzo commerciale di internet e nel quale i player diventano di fatto monopolisti. Nasce anche una nuova ideologia del web libero che presenta la rete come uno strumento nuovo, libero dalla politica e dai suoi condizionamenti, orizzontale e democratico, una ideologia che oggi paradossalmente si trasforma in una nuova alleanza tra tech e politica, in cui entrambe sono dipendenti e subalterne le une dalle altre.

11 settembre 2001

Quando in diretta mondiale il secondo dei due arei dirottati dai terroristi di Al Quaeda si schianta sulle torri gemelli tra l’angoscia e l’incredulità del mondo occidentale gli occidentali e gli americani si scoprono improvvisamente vulnerabili. E mentre le torri collassano in diretta sotto gli occhi di tutto il mondo, il governo degli Stati Uniti reagisce con durezza. L’apparato militare degli USA scopre che quelle che saranno di lì a breve le big tech hanno sviluppato capacità e dati utilizzabili per la sorveglianza e la sicurezza interna ed esterna del paese. E ne utilizzano le capacita e le competenze.

Le Big Tech hanno consapevolezza che la partita si gioca sulla proprietà delle infrastrutture e sulle competenze. Investono sui cavi sottomarini e assieme in tecnologie, brevetti e risorse umane, conoscenze che sono sempre più difficili da riprodurre e copiare, che sono “vitali” per le imprese e le grandi corporate che da anni stanno digitalizzando i loro processi di produzione e di vendita, e che da quel famoso 11 settembre sono ormai decisive per chi fa la guerra.

Arrivano le intelligenze artificiali

La vera novità di oggi è che 25 anni dopo su queste tecnologie si sono innestate le nuove intelligenze artificiali, che richiedono ancora più tecnologia, conoscenze e investimenti di quanti ne richiedesse il cloud o internet. Creando una distanza ulteriore tra Big Tech, veloci nel guidare la corsa all’innovazione, e l’apparato pubblico, fatalmente costretto ad inseguire. Oggi le conoscenze e le infrastrutture che servono per usare le AI sono tutte nelle mani di privati, statunitensi e cinesi, ma il rapporto tra stato e big tech è di mutua dipendenza, non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche qualitativo. Da un lato il privato agisce sempre di più su ambiti che una volta erano di uso esclusivo dello stato tanto che oggi le big tech sono anche gli occhi, le orecchie e la lunga mano dello stato, non solo negli USA. Google ad esempio gestisce buona parte della comunicazione delle Pubblica Amministrazione in Italia e in Europa, creando di fatto una nuova versione del colonialismo, in questo caso digitale. O come dicono altri studiosi di tecno-feudalesimo. Il caso di Starlink è una delle tante evidenze di questo processo in corso da anni. Allo stesso tempo le Big tech dipendono dalla politica e dalle pubbliche amministrazioni.

A Gaza l’esercito israeliano si avvale della tecnologia e del supporto di una big tech. Secondo il “The Guardian” una delle Big Tech è un fornitore dell’esercito e dell’intelligence israeliana, la quale usa sistemi di IA per sorvegliare i palestinesi, (articolo pubblicato la settimana scorsa).

Inoltre per le Big tech la partecipazione ai conflitti consente non solo di garantirsi forniture, sia in tempo di guerra sia in tempo di pace, ma anche di testare prototipi e prodotti di AI in un contesto straordinario per verificare efficacia e efficienza di nuovi prodotti.

Il vaso di coccio

L’egemonia dunque passa oggi dal dominio tecnologico, ed il contesto è sempre più polarizzato. Le piatteforme sono ovunque. In questo contesto comandano gli USA perché sono avanti nella tecnologia, ma la Cina corre, nel tentativo di colmare il divario. In mezzo resta l’Europa, il vaso di coccio in questo nuovo scenario in continua evoluzione, una grande noce stretta nella tenaglia dei due colossi economici, militari e tecnologici che si contendono l’egemonia digitale e tecnologica nel mondo.

All’Europa serve riarmarsi o piuttosto una politica industriale sui big data e un campione nazionale capace di competere con le Big Tech americane e cinesi? O entrambe le cose? E in questa prospettiva l’Italia che cosa può fare?

È abbastanza curioso oggi dice Dario Guarascio dal palco della biennale osservare oggi Merz che chiede all’Europa di togliere il tetto del debito non per salvare il welfare, ma per avviare il riarmo, cosa che potrebbe aiutare a far ripartire l’industria tedesca.Per l’Europa che si scopre vulnerabile e fragile si tratta di definire una nuova strategia e un nuovo posizionamento, aggiornando ed alimentando un immaginario diverso e sostanzialmente alternativo a quello americano, tutelando lo specifico europeo, la democrazia, i diritti e il welfare. Su questo immaginario serve poi darsi una politica di sviluppo che dia visione e prospettiva, superando le scelte del passato che oggi si stanno rivelando sbagliate e di corto respiro. In tutti i paesi europei, Italia compresa.

La visione del futuro

“Politici e manager senza visione del futuro hanno trasformato l’Italia in una colonia industriale. Per recuperare terreno occorre una politica economica orientata verso uno sviluppo ad alta intensità di lavoro e di conoscenza.”

Luciano Gallino in “La scomparsa dell’Italia industriale”, un libro del 2014, un’era fa, sostiene che il declino in Italia è nato dal mancato supporto all’informatica e alla chimica in favore di una industria dell’auto in crisi irreversibile da anni. Emblematica la vicenda Olivetti, poi quella di Telecom, proprio negli anni in cui iniziava la storia delle BIG TECH.

La stessa cosa è avvenuta in Europa: abbiamo sostenuto le auto tedesche esportate in Cina, salvo oggi scoprire l’importanza del mercato interno e che oltre alle auto avremo dovuto lavorare sulle tecnologie emergenti.

Oggi è chiaro che uno dei pilastri della difesa dello stato è la comunicazione e che la sicurezza passa dal controllo delle infrastrutture e delle competenze in materia di Ai e digitale, un settore che in Europa non c’è.

PS: Perché non si può non avere una politica industriale

Tornando a Gallino ed al nostro Paese che non cresce più ormai da trent’anni…

“Il nostro paese ha perso o fortemente ridotto la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stato fra i primi al mondo. È il caso dell’informatica e della chimica. L’Italia industriale è uscita quasi completamente da mercati in continua crescita quali l’elettronica di consumo. Né è pervenuta a far raggiungere un’adeguata massa critica a industrie dove ancora possiede un grande capitale di tecnologia e di risorse umane, come l’aeronautica civile. Dove essa esisteva, l’ha frantumata: è avvenuto con l’elettromeccanica ad alta tecnologia. Resta in piedi un ultimo settore della grande industria, l’automobile, la cui crisi procede peraltro verso esiti al momento imprevedibili. I costi economici e sociali di tali vicende sono stati immensi. Come lo è il rischio di diventare una colonia industriale di altri paesi. Non è stata un’impresa da poco, aver lasciato scomparire interi settori produttivi nei quali si eccelleva; né aver mancato le opportunità per riuscirvi in quelli dove esistevano le risorse tecnologiche e umane per farlo. Sembra lecito chiedersi come ci si è riusciti, per provare a delineare alcune risposte. Con l’auspicio di veder ricomparire una politica industriale, volta a favorire l’occupazione ad alta intensità di conoscenza e uno sviluppo più autonomo ed equilibrato di tutto il paese”.

Luciano Gallino, “Il declino dell’Italia industriale”, Einaudi 2014.