Quando si parla di Africa, diciotto non è un numero, ma indica una prospettiva.
Allude infatti all’età media del continente: 18 anni. Il luogo più giovane del pianeta. E qual è invece il più vecchio? Il nostro, l’Europa. La nostra età media è di 44 anni. Seguono il Nord America con 35 anni, l’Oceania con 33 e infine America del Sud e Asia con 31. Se ne ricava che non solo l’Africa è giovane, ma che tutte le altre parti del mondo sono più vecchie di lei di almeno 13 anni.
Il divario diventa ancora più impressionante se si osservano i singoli Paesi. I cinque più anziani sono, nell’ordine, il Principato di Monaco, con un’età media di 55,4 anni, il Giappone, l’isoletta di Saint Pierre e Miquelon (territorio francese d’oltremare), la Germania e l’Italia. L’età media italiana è di 46,5 anni. Tantissimi per una società che aspira a crescere. Se passiamo al lato opposto della classifica, i cinque Stati più giovani sono tutti africani: il Niger ha un’età media di 14,8 anni, Angola e Uganda superano di poco i 15, Ciad e Mali di poco i 16. E vale la pena di notare che anche i venti che li seguono nell’“elenco della giovinezza”, reperibile sul CIA World Factbook, si trovano tutti in Africa.
Perché ho scritto che una media di 18 anni non è un numero ma una prospettiva? Per due ragioni principali: la qualità dell’evoluzione nella demografia africana e le nuove giovani leadership che si stanno affermando.
Il secolo dell’Africa
Per partire dal profilo demografico, è utile precisare subito che la crescita della popolazione africana non è dovuta a un incremento delle nascite, come spesso affermano i giudizi stereotipati, ma alla riduzione decisa della mortalità infantile e all’allungamento delle aspettative di vita.
Stando alle statistiche delle Nazioni Unite, nel corso degli ultimi trent’anni il grado di fertilità è diminuito della metà e oggi la media di figli per ogni donna, che era di quasi sette un decennio fa, è di quattro. La mortalità infantile, che raggiungeva il triste record di 311 neonati su mille nel 1955, è oggi è di 70 su mille. Quanto alla speranza di vita, era di 50 anni nel quinquennio 1980-85, è diventata di 60 anni nel 2010-15 e si prevede raggiungerà i 70 anni entro il 2050. In ragione di queste tendenze, il gruppo che cresce maggiormente nella piramide demografica africana è quello degli adulti in età attiva tra i 25 e i 65 anni, che rappresenteranno il 40% della popolazione nel 2025 e quasi la metà entro il 2050.
Come affermano le stesse Nazioni Unite, «tale evoluzione condurrà a una progressiva diminuzione dell’indice di dipendenza e costituirà una finestra di opportunità per molti Paesi, accrescendovi le possibilità di risparmio nei costi e di investimenti mirati allo sviluppo economico e sociale».
Tale window of opportunity è l’esatto contrario di quanto sta accadendo da noi, dove di opportunità legate alla demografia non ce ne sono più. Per essere concreti, consideriamo l’“indice di dipendenza”, citato appunto dalle Nazioni Uniti, che costituisce il parametro demografico più importante per l’economia: rappresenta infatti la percentuale di popolazione inattiva (bambini e anziani) rispetto alla popolazione attiva. I problemi sorgono quando il dependency ratio è troppo alto, cioè quando i cittadini il cui sostentamento dipende da altri divengono troppo numerosi. Ebbene, in Italia la popolazione, stando ai dati ISTAT, è scesa nel 2022 sotto la soglia dei 59 milioni (a 58,8 milioni) e sarà di 54 milioni nel 2060. Le nascite sono state solo 393 mila (nuovo record negativo), cioè meno della metà dei decessi. Il che significa, in breve, che il nostro Paese ha perso la capacità di rinnovamento della sua popolazione, non rimpiazzando a sufficienza chi muore con chi nasce. L’indice di dipendenza è di conseguenza molto alto: si aggira intorno al 57,3%, con una tendenza all’aumento dato che continua a crescere in parallelo l’indice di vecchiaia, arrivato a una quota di 188 anziani ogni 100 giovani, con un incremento del 56% rispetto a vent’anni fa.
Le conseguenze di questo “inverno demografico” sono facilmente intuibili e incidono sull’economia, la previdenza sociale, il sistema sanitario, la capacità di lavoro, il potenziale di innovazione.
Per tirare le somme del quadro complessivo, possiamo affermare senza incertezze che quello che stiamo vivendo sarà il «secolo dell’Africa», come qualcuno ha scritto, perché la sua demografia sta cambiando il volto del mondo. E continuerà a farlo.
Rendere questa realtà indiscutibile un’occasione di sviluppo piuttosto che una minaccia dipenderà in percentuale paritetica dai Governi africani e da noi. La differenza è che chi governa l’Africa ne è sempre più consapevole. Noi no. O, per essere ottimisti, non ancora.
«Con umiltà, lavoro duro e disciplina». I nuovi leaders africani
In Africa sta emergendo una generazione di leaders nuovi sotto ogni punto di vista: preparazione, estrazione sociale, internazionalità, determinazione. «Jeune Afrique», uno dei media più seri e aggiornati sul continente, qualche anno fa, in collaborazione con il centro di ricerche Choiseul, ne ha individuati cento, selezionati in ogni campo (l’industria, il commercio, i servizi, le istituzioni) sulla base del loro percorso, della loro competenza e del loro potenziale.
Nel settore politico, dove i vecchi leaders for life sono scomparsi o stanno cedendo il passo, una cifra è significativa per indicare la portata del cambiamento: dei 49 capi di Stato al potere nel 2015 nell’Africa sub-sahariana, solo 22 sono ancora al loro posto. Tra i 27 nuovi, uno soltanto, Emmerson Mnangagwa nello Zimbabwe, è assurto ai vertici del Paese con un colpo di stato. Gli altri hanno vinto le elezioni. Nessuno proviene, come accadeva in passato, da una carriera militare. Alcuni sono addirittura degli outsiders della politica. E tutti si sono impegnati formalmente a introdurre nei loro Paesi riforme orientate ad accrescere la democrazia, la trasparenza e l’equità perché sanno che sono condizioni non negoziabili di dialogo internazionale e sviluppo economico e sociale.
Nessuno di loro è una donna, è vero, ma questo non significa che le donne africane non abbiano ruoli politici di rilievo. Stupirà molti sapere, per esempio che lo Stato del mondo che vanta il maggior numero di donne elette è il Ruanda, dove le rappresentanti femminili del popolo costituiscono il 61,3% del Parlamento. Due donne sono inoltre presidenti della Repubblica, in Etiopia e Tanzania. E una donna nigeriana, già ministra delle Finanze nel suo Paese, presiede dallo scorso anno l’Organizzazione Mondiale per il Commercio o WTO. Sono cifre e ruoli che incrinano molti preconcetti.
Ho avuto la fortuna, nel corso dei miei anni africani, di conoscere da vicino alcuni dei nuovi leaders del continente. Appartengono tutti alla stessa generazione, intorno ai 45 anni, e condividono le medesime caratteristiche: sono tolleranti e audaci, fieri della propria terra ma proiettati nel mondo, credono nell’importanza dello studio e del merito, possiedono una formazione internazionale accurata, un’educazione perfetta e sono poliglotti. Infine e soprattutto, prima di definirsi ivoriani, senegalesi, etiopi o kenioti, si considerano africani. Sanno che i loro confini sono stati disegnati artificialmente dalle potenze coloniali che per secoli si sono spartite la loro terra. Sanno che le frontiere contano poco e anzi possono diventare un ostacolo. Sanno soprattutto che, per farsi ascoltare nel mondo e ottimizzare l’immenso potenziale di risorse e di gioventù di cui dispongono, devono adottare un approccio risolutamente pan-africano. Noi in Europa non abbiamo ancora compreso la forza dell’unione. Loro sì.
Sono queste le persone con cui dovremmo relazionarci appena saremo pronti a farlo. Come? Con rispetto e competenza. Consapevoli dei risultati che stanno raggiungendo in un continente che indubbiamente ha ancora problemi immensi da risolvere, ma sta anche percorrendo la strada del progresso con determinazione.
Per citare solo qualche esempio, gli investimenti in pubblica istruzione crescono e la media degli anni di scuola dell’obbligo è passata di recente da quattro a sei. La volontà di collaborazione tra i Paesi africani è forte e concreta e ha dato luogo nel 2019 all’area di libero scambio più vasta del mondo grazie all’accordo AFCFTA (African Continental Free Trade Area), firmato da 44 dei 54 Paesi (con le firme degli altri dieci già depositate e in attesa di ratifica). Ancora: è in corso una decisa espansione dell’imprenditoria locale che sta rendendo il continente un «crocevia di creatività», un banco di prova dell’innovazione globale. Lo scrive la «Harvard Business Review», aggiungendo che «se è possibile creare un prodotto, servizio o modello d’impresa abbastanza solido ed economico da avere successo in Africa, è probabile che sarà competitivo in molte aree del mondo».
Sono queste considerazioni che dovrebbero alimentare il nostro rispetto e la nostra competenza. Oltre alla coscienza della complementarità tra l’Africa e noi, soprattutto noi italiani che abbiamo la fortuna di vivere nella penisola al cuore del Mediterraneo, ponte ideale verso il grande continente di cui possiamo vedere a occhio nudo le sponde. Da un lato c’è la nostra secolare cultura industriale, economica e artistica, che rischia di disperdersi perché non abbiamo più nessuno cui trasmetterla. Dall’altro la loro gioventù, che ha bisogno di lavorare ed è avida di apprendere. Non sarebbe poi così difficile progettare quella che gli inglesi chiamano una win-win relationship. Uno scambio paritetico in cui vincono tutti.
Ha ragione la nostra attuale presidente del Consiglio quando evoca un «piano Mattei per l’Africa». Dovrebbe tuttavia renderlo fattivo e cambiare la preposizione, mettendo “con” invece di “per”: «piano Mattei con l’Africa». Tre lettere soltanto per indicare uno sguardo nuovo.
No, l’Africa non è fatta solo di migranti minacciosi e braccianti a cottimo che ci servono d’estate per raccogliere i nostri pomodori. È ben altro, è ben di più.
SEGNALIAMO