Paolo Grassi alla Presidenza del Consiglio d’Amministrazione Rai
(Vice direttore della rivista Economia della Cultura, già dirigente Rai)
Di Paolo Grassi prossimo presidente della Rai mi parlò verso la fine del 1976 Elio Quercioli, responsabile della sezione Stampa e propaganda della Direzione del Pci, con la quale collaboravo da alcuni anni. Era stato raggiunto un accordo fra i partiti, mi disse, per un nuovo consiglio di amministrazione a forte qualificazione professionale dei suoi componenti, con Grassi presidente e Giuseppe Glisenti direttore generale. Per la Rai riformata un gruppo dirigente di esperienza e di prestigio culturale e manageriale indiscusso. Capivo dalle sue parole che c’entrava Milano in quella scelta, il partito di Milano, il suo radicamento e il suo sistema di alleanze anche culturali. Una novità non da poco, visto che il Pci era all’opposizione anche in Rai.
Per me funzionario ai programmi e, come fu presto chiaro, per i miei compagni e amici che si erano battuti in azienda per la riforma, si trattava di una novità positiva: potevano essere migliori le condizioni e più ampie le possibilità di una gestione della Rai finalizzata agli obbiettivi d’impresa del servizio pubblico: da anni la ragion d’essere e il fine a cui mirava l’Associazione dei programmisti radiotelevisivi Rai, guidata da Giovanni Leto, alla quale, appena assunto nel 1968, mi ero iscritto. Una situazione con cui avrebbero dovuto fare i conti le spinte esterne e interne a far pesare le esigenze e la logica dei partiti nelle scelte e decisioni aziendali.
Sul versante istituzionale e dei partiti, soprattutto di sinistra, quella per noi era la sfida e la scommessa della riforma.
Ma quello non era il tempo degli schieramenti aperti e delle contrapposizioni lineari: dentro e attorno al servizio pubblico, discutendo e decidendo di obbiettivi, di strutture e di incarichi aziendali ci si poteva trovare in consonanza e perfino in alleanza con qualcuno degli “altri” e in conflitto radicale con l’orizzonte mentale e le logiche di qualcuno dei “nostri”.
E il confronto, si potrebbe dire il corpo a corpo, era molecolare, quotidiano e molto poco vocal: una condizione ben nota a tutti nella Rai, che portò rapidamente, nel giro di pochi mesi, alle dimissioni di Glisenti da direttore generale, motivate, non solo in via ufficiosa, con l’impossibilità di gestire la Rai senza avere sul collo il fiato esigente dei partiti.
Va detto, anche, che quello era il tempo in cui il terrorismo giocava le sue carte anche nella partita della Rai con l’attentato a Emilio Rossi, direttore del Tg1, nel giugno 1977, e stava per lanciare la sua sfida “finale” alla democrazia italiana, con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro nella primavera del 1978.
Era ed è difficile immaginare che la comunanza di motivazioni dichiarata al momento della nomina dal presidente e dal direttore generale fosse già svanita, e non ci fu il tempo di chiedersi che cosa sarebbe successo se, in una sequenza di avvenimenti e di scelte così drammatica e convulsa, si fosse dimesso anche il presidente.
Paolo Grassi si assunse la responsabilità di restare e di garantire stabilità all’azienda: indusse il consiglio a nominare fra i suoi membri il nuovo direttore generale, affermando di fatto l’autonomia del Consiglio e chiudendo così ogni spiraglio a interventi dei partiti nella soluzione della crisi interna. Il nuovo direttore generale era anche lui milanese.
Elio Quercioli non commentò, almeno con me, le dimissioni di Giuseppe Glisenti e l’indebolimento che ne veniva al disegno politico implicito nella nomina di quel consiglio Rai e di quel dg. Colsi, invece, qualche ironia sulle “pretese” di Glisenti da parte di altri dirigenti del partito.
L’atteggiamento del PCI nei confronti della Rai nel 1977
Due cose mi colpirono in quella fase nell’atteggiamento del Pci, una generale e una specifica alla Rai:
- nel gennaio 1977, l’andamento e l’esito del convegno degli intellettuali all’Eliseo che, organizzato dalla sezione Cultura della Direzione del Pci (responsabile ne era Aldo Tortorella), per discutere i problemi e definire gli obbiettivi di una politica relativa ai vari comparti della cultura, della ricerca e delle industrie culturali (Rai compresa), aveva visto il segretario del Pci mettere da parte i materiali preparatori, prendere le distanze dall’esperienza politica in corso (“il metodo di lavoro dei comunisti non è quello del centro-sinistra”), ignorare la dimensione di lavoro e di prospettive di sviluppo delle imprese e dei vari settori evidenziata da quei materiali, per riproporre l’usuale approccio generico (“quale può essere l’intervento della cultura nell’elaborazione di un progetto di rinnovamento della società italiana”), per lanciare sulla scena politica e nel confronto intellettuale e sociale il tema della “austerità”;
- nei mesi successivi, la mancata discussione all’interno, anche a livello dirigente centrale, del profilo politico della situazione che aveva indotto alle dimissioni il più alto dirigente della Rai, nominato anche con il consenso del Pci.
In sostanza, o si “volava alto” o non se ne parlava, almeno nelle sedi ufficiali (e anche, in privato, qualche dirigente del partito a cui chiesi un parere), in una situazione che vedeva i comunisti presenti e in ruoli di influenza nelle strutture e negli organi di governo della maggiore impresa culturale del paese.
Oltre alle opportunità politiche e di potere, erano evidentissime – non credo solo a me – le tensioni e le difficoltà del Pci dentro e attorno alla Rai.
Per un verso, a livello istituzionale, il Pci aveva votato nel 1975 contro la legge di riforma, che sanciva la derivazione parlamentare e regionale del massimo organo di governo del servizio pubblico in un quadro di libertà e di garanzie costituzionali, e dopo le elezioni del 1976 vedeva riconosciuto, in base a quella legge, il suo aumentato peso politico, con una presenza nel consiglio Rai seconda solo a quella della Dc: il famoso numero telefonico 643111.
Per un altro verso, all’interno della Rai, accanto alla Dc in posizione maggioritaria, erano le forze intermedie, Psi e Psdi, ad avere maggior ruolo e influenza, in Consiglio, con presidente e vice-presidente, e nelle reti, nelle testate, nelle direzioni centrali di supporto e nelle sedi regionali.
Negli assetti e nella gestione della Rai vigeva un paradigma, quello del centro-sinistra, che bloccava la pura e semplice proiezione nell’azienda del peso aritmetico dei partiti presenti in Parlamento e, quindi, in consiglio.
I comunisti, soprattutto all’interno della Rai, non potevano dire che bisognava rendere razionale la situazione facendo saltare quel paradigma. Facevano ostacolo le ragioni culturali e sociali della riforma, che la legge, si diceva, aveva accolto solo in parte, e la proclamata volontà di differenziarsi dai partiti di governo e, anzi, la proclamata opposizione al centro-sinistra anche e proprio per i metodi di governo dominanti (il “metodo di lavoro diverso” di cui parlava Enrico Berlinguer). Un vicolo cieco nel qui e ora della prassi (e delle pratiche) della politica, che la “questione morale” sarebbe venuta a illuminare, nel 1981, in una intervista dello stesso Berlinguer a la Repubblica.
Restava aperta, e per qualche tempo ci sono state le condizioni per praticarla, l’altra strada: dell’alleanza a sinistra nel nuovo contesto del servizio pubblico riformato con l’obbiettivo di consolidare gli spazi di libertà di espressione, di qualificazione e diversificazione dell’offerta, assicurando nuove opportunità di creatività e sviluppo a produttori, autori e registi interni ed esterni di tutte le tendenze.
Obbiettivi tutti condivisi dalle diverse componenti del Consiglio di Amministrazione della Rai, come dimostrarono le discussioni e le decisioni assunte fra il 1977 e il 1980 sulla “programmazione di qualità” nella radio e nella televisione e sull’impegno produttivo, anche cinematografico, della Rai (responsabile ne era Paolo Valmarana, e in Consiglio i giuristi Nicolò Lipari ed Enzo Cheli ne fecero valere la legittimità, oltre che le ragioni d’impresa da tutti condivise).
L’orizzonte culturale, industriale e politico del Consiglio presieduto da Paolo Grassi
Sono quelli gli anni del Tg1 di Emilio Rossi ed Emmanuele Milano e di Raiuno di Mimmo Scarano, del Tg2 di Andrea Barbato e di Raidue di Massimo Fichera, del Gr1 di Sergio Zavoli e del Gr2 di Gustavo Selva, dei grandi varietà televisivi nella responsabilità del programmista-principe Giovanni Salvi, dei programmi radiofonici di Lidia Motta con la storica Sala F e della Radiotre di Enzo Forcella, fino alle due Palme d’oro consecutive a Cannes (1977 e 1978) con i film di Ermanno Olmi e dei fratelli Taviani prodotti dalla Rai.
Una vera e propria strategia editoriale che, con la Terza Rete televisiva a impianto regionale, apriva a una prassi operativa dell’unità nazionale strutturata dalle tecnologie e declinata da nuovi flussi della comunicazione “di massa”, più vicini alla realtà sociale e culturale del paese e con inedite opportunità di creatività e di espressione in tutto il Paese, grazie alle strutture di programmazione create in tutte le regioni, autonome dalle redazioni giornalistiche.
Questo era l’orizzonte mentale, culturale, industriale e politico del Consiglio presieduto da Paolo Grassi: un orizzonte e una pratica di gestione che hanno prevalso in quegli anni nella Rai, con il sostegno dei responsabili politici di tutti i partiti – per quel che mi riguarda, Elio Quercioli – pur in presenza di forti spinte contrarie al loro interno.
Malumori e insofferenze in seno al PCI e rilancio dell’iniziativa socialista
Nel Pci, in particolare, queste venivano dalla acuta insofferenza per quanto di ostile si poteva registrare in alcuni aspetti del pluralismo del servizio pubblico (per tutti: gli editoriali mattutini di Gustavo Selva procuravano – si sapeva – sobbalzi e anche ferite da taglio a un dirigente che a quell’ora si faceva la barba) e dalla ricorrente sottolineatura dello scarso peso elettorale del Psi così “sovra rappresentato” nei ruoli dirigenti della Rai, con la rivendicazione di un “adeguato riconoscimento del peso” del Pci. Insofferenze placabili solo con ruoli di direzione ottenibili con la creazione di nuove strutture (una strada bloccata dalla previsione legislativa della struttura interna) o con la riduzione di quelli attribuiti ai designati dagli altri partiti, socialisti in primo luogo per certuni.
Umori, stati d’animo, mormorii, insofferenze più o meno acute e diffuse che, se non riuscivano a tradursi in politiche e scelte diverse nel Consiglio Rai e nel partito, contribuivano a logorare e a indebolire un assetto di rapporti e uno stato delle relazioni all’interno e attorno alla Rai che il rilancio dell’iniziativa socialista operato da Bettino Craxi – in competizione, ovviamente, ma spesso anche in forte polemica con il Pci – finì per mettere in crisi.
Devo dire che fu subito chiaro nella Rai e attorno alla Rai che quel “rilancio dell’iniziativa politica” del Psi dopo il Congresso di Torino (1978) assumeva caratteri così decisamente partitici, da contribuire a fare terra bruciata anche nel Pci attorno a posizioni e orientamenti centrati sulle necessità e sugli obbiettivi culturali, produttivi e industriali del servizio pubblico e del suo ruolo nella società italiana.
Esattamente le posizioni e gli orientamenti che avevano fatto dell’alleanza a sinistra l’asse della politica del Pci per “l’attuazione della riforma della Rai”, dell’impegno dei consiglieri di amministrazione da esso designati, e dell’informazione e dei commenti proposti quotidianamente dall’Unità, in quegli anni diretta da Alfredo Reichlin.
Mi accorgevo che il ruolo di Elio Quercioli veniva ridimensionato dalla presenza alle riunioni e dalla voce in capitolo di dirigenti “vicini” a Enrico Berlinguer, una situazione che si protrasse fino alla sua sostituzione nella responsabilità della sezione Stampa e propaganda. Una dinamica interna al Pci che fra il 1978 e il 1979 privò Paolo Grassi di un interlocutore importante ed espose i consiglieri di amministrazione a sollecitazioni via via più minute e diverse.
Paolo Grassi non era “uomo di televisione”. La sua presenza al vertice della Rai aveva un chiaro significato: non si parlava allora di qualità, ma quello era. Ed era per noi segno del rispetto che la classe politica aveva per il servizio pubblico e per le risorse e il lavoro in esso e da esso organizzate, anche se la sua esperienza e il grande prestigio di amministratore dei massimi teatri italiani – le sue carte in regola – non mettevano più di tanto in rispetto la sostanziale autosufficienza e anche l’arroganza, si può dire, dei manager della radio e della televisione, capaci, e unici allora in Italia, di raggiungere con i loro programmi il grande pubblico popolare.
Il mio ricordo personale di Paolo Grassi
Ho incontrato poche volte il presidente nel corso del mio lavoro: nella segreteria del consiglio di amministrazione lavoravo nell’ufficio dei rapporti fra la Rai e le Regioni – Consigli e Giunte – con Presidenti come Piero Bassetti, Guido Fanti, Lelio Lagorio, Piersanti Mattarella molto attivi con i loro delegati nella fase di impostazione e costruzione dell’impianto istituzionale della Terza Rete televisiva. Capitava che egli venisse e restasse ad ascoltare e a guardare, raccolto in sé stesso e quasi a distanza.
Lo vidi bene, invece, una sera a teatro. Avevamo deciso all’ultimo momento di andare a vedere Mi voleva Strehler al Flaiano, a Santo Stefano del Cacco. Entrati nella sala già buia, notai, a sipario alzato, che non eravamo più di sei persone sparse qua e là. In scena c’era Maurizio Micheli che si confermò anche quella sera il giovane attore di razza che avevamo imparato ad apprezzare.
Finito lo spettacolo, pensai di andare a salutarlo e ci inoltrammo per un budello incerto e male illuminato fin davanti alla porta ancora chiusa del camerino dove in quel lucore, con indosso soprabito e cappello, entrambe le mani sul pomo del bastone, c’era, seduto, il Presidente. Proprio lui.
Lo salutai, gli presentai Muzi e, mentre scambiavamo qualche frase sullo spettacolo e l’attore, sentii in me il fascino dell’uomo, del suo stare lì in attesa con l’amore per il teatro e la sua gente che per puro caso quella sera avrebbe avuto altri testimoni: una quieta grandezza in una scena che più sbiadita non si poteva e che ogni tanto mi torna nella mente.
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