Valeria Biraghi
Secondo un antico aneddoto consolidato nel tempo, il nome “wincisgrassi”, primo piatto emblema della cucina marchigiana, è legato al generale Alfred von Windisch-Graetz: il comandante austriaco alla guida del corpo dei Dragoni di Boemia, nel 1849, con un assedio vittorioso, aveva restituito allo Stato Pontificio la città di Ancona che, accesa dagli ideali di autonomia e libertà risorgimentali diffusi in tutta la penisola, aveva aderito alla “Repubblica Romana” fondata nello stesso anno da Armellini, Mazzini e Saffi. Il ribaltamento politico aveva costretto Papa Pio IX alla fuga nell’isola di Gaeta.
Forse la ricetta di queste particolari lasagne arricchite dagli ingredienti della campagna marchigiana, più saporite e profumate rispetto alle versioni diffuse nel resto d’Italia, era preesistente alla vicenda storica, ma è dato per certo che assunse il nome di “vincisgrassi” o “wincesgrassi” da quando una cuoca li offrì al generale austriaco e ai suoi soldati per festeggiare non tanto la vittoria quanto la fine dell’assedio!
Una versione di questo piatto “lasagna in princisgrass” è riportata ne “Il cuoco maceratese” di Antonio Nebbia nella prima edizione del 1776. Questa ricetta però prevedeva l’uso del prosciutto e dei tartufi, assenti nei wincisgrassi diffusi ancor oggi nelle Marche, caratterizzati dalla besciamella e soprattutto dalle rigaglie di pollo.
Nel proporre la ricetta dei wincisgrassi voglio rifarmi ai miei ricordi di bambina che mi riportano all’immediato dopoguerra, a Falconara Marittima, una cittadina a pochi chilometri dal capoluogo marchigiano, quando non esistevano la pasta per lasagne e la besciamella già belle e pronte all’uso!
Di fronte ai fornelli mia madre, con il suo solito grembiule a quadrettini bianchi e rossi rimestava un ragù di carne mista, ma arricchito di tutte le frattaglie di pollo, che pippiava per ore spandendo il suo speciale e inconfondibile profumo di fegatini, di chiodo di garofano, di maggiorana… Nel frattempo preparava la besciamella: in una casseruola lasciava sciogliere un etto di burro con cinque cucchiai colmi di farina fino ad ottenere una crema dorata e morbida; poi poco per volta aggiungeva un litro di latte continuando a rimestare perché non si formassero grumi. L’ultimo tocco, essenziale, dopo una giusta presa di sale, era costituito da una bella spolverata di noce moscata che spandeva nella cucina il suo profumo penetrante.
Intanto mia nonna, su una grande spianatoia di legno, con un lungo mattarello tirava un cerchio perfetto di pasta (un uovo intero e mezzo guscio di acqua per ogni etto di farina 00, circa 300 grammi, sale q.b.). Dopo aver tagliato una dozzina di riquadri, li immergeva per un paio di minuti in acqua bollente; quindi li stendeva su grandi teli di lino bianco. L’impresa finale, a quattro mani con mia madre, era la posa di un po’ di ragù sul fondo di una grande teglia, quindi di strati di pasta arricchiti di sugo, besciamella, parmigiano, fino a concludere con fiocchetti di burro che avrebbero reso colorita e croccante la superficie di questa irresistibile goloseria.
D’inverno si infornava la teglia nel forno della cucina economica a legna, d’estate si portava a quello pubblico “di Valentina”, nel cuore di Falconara. La domenica nelle strade del paese si spandeva il profumo dei wincisgrassi, protagonisti immancabili di ogni giorno di festa, che si fondeva magicamente con quello del mare e con quello dolceamaro degli oleandri e dei pini.
Ricordo una domenica, forse tra le ultime di un mondo in estinzione, trascorsa con la mia famiglia da una vecchia conoscente di mia nonna, “Maria di Corinaldo”, una contadina che viveva in un paesino della campagna intorno ad Ancona.
Di quel pranzo sull’aia risento il profumo intenso del sugo coi fegatini di pollo emanato dai wincisgrassi fumanti, insieme a quello della porchetta che girava sullo spiedo farcita di aglio e infilzata da rametti di rosmarino, dei peperoni e delle salcicce che arrostivano sulla graticola sopra fuscelli d’ulivo infuocati e crepitanti. Questo insieme di odori irresistibili si mescolava con quello quasi ipnotico del fieno essiccato al sole. Intanto, intorno a una nidiata di pulcini gialli pigolanti, oche, galline, galli e “dindi” chiocciavano e razzolavano indisturbati per l’aia, muovendosi a scatti con quella loro cresta rossa e con quei loro occhietti fissi e divergenti.
Livio, il giovane nipote di Maria di Corinaldo, seduto in disparte su uno sgabello, scorrendo le dita sui tasti e i bottoni di una fisarmonica e aprendo e chiudendo con le braccia il mantice pieghettato, allietava i commensali con il zum-pa-pa tipico di questo ottocentesco e popolare strumento musicale nato proprio nella vicina Castelfidardo.
Ascoltavo questi suoni che facevano da sottofondo al vociare dei commensali resi allegri, ciarlieri e canterini da fiumi di vino rosso del Conero versato da grandi brocche di coccio nei bicchieri sparsi sulla tavolata ormai disordinata. Mamma commentava ridendo: «Ecco la tavola dei cocchieri!»
Intanto il rosso dei papaveri spiccava fra grandi distese gialle di girasoli e di bionde spighe di grano ormai maturo, sotto una coltre di calore torrido che sembrava fermare il tempo.