Martedì 18 aprile 1978: alle 9.25 del mattino una telefonata al quotidiano “Il Messaggero” di Roma avverte che in Piazza Giuseppe Gioacchino Belli, dietro la statua del poeta, sono nascosti due messaggi delle Brigate rosse. Un redattore del giornale trova una sola busta arancione: contiene la fotografia di un dattiloscritto, con l’intestazione “Brigate rosse comunicato n. 7”, in cui si annuncia che Moro, nelle mani delle B.R. dal 16 marzo, è stato giustiziato “mediante suicidio” ed il corpo gettato nel lago della Duchessa, a Cartore di Rieti.
E’ l’inizio di molti misteri che quasi trent’anni di indagini non sono riusciti nemmeno parzialmente a chiarire. Subito dopo il comunicato, la zona viene setacciata con ingentissimi mezzi: esercito, polizia, carabinieri, con l’aiuto di elicotteri esplorano il lago, tra l’altro ghiacciato, ma non trovano nulla.
Il comunicato n. 7 è autentico o, come afferma l’avv. Guisa, dopo un colloquio con Renato Curcio, rinchiuso a San Vittore, è “una provocazione del Viminale” (Corr. Sera, 19 aprile 1978)?
Secondo la polizia scientifica, il messaggio era autentico (Comm. parlam. inch. Moro, voi. 30, pag. 737 -738). Ad avviso del Capo della “Digos” Domenico Spitella, il documento era invece falso (Comm. parlam. inch. Moro, voi. 5, pag. 457). Il Ministro deg_li inte rni (all’epoca Francesco Cossiga) riferì in Parlamento che la macchina da scrivere usata era la stessa dei precedenti comunicati: era stata usata la fotocopiatura per rendere più difficilmente identificabili i caratteri e suscitare così dubbi sulla autenticità del documento. In una successiva intervista a “Il Corriere della sera” (14 novembre 2007) Cossiga non sembrò più convinto della autenticità del documento ed asserì che esso tendeva a salvare Moro.
Il 20 aprile, con una nuova telefonata a “Il Messaggero”, le B.R. fecero ritrovare a Roma un comunicato contrassegnato con il n. 7 accompagnato da una foto di Moro che aveva in mano “La Repubblica” del 19 aprile, prova questa che il prigioniero era vivo: la paternità del precedente comunicato n. 7 era attribuita al Presidente del Consiglio Andreotti ed “ai suoi complici”.
Su “O.P.” del 25 aprile 1978 Mino Pecorelli, solitamente bene informato, scrisse che i due messaggi siglati con il n.7 erano entrambi delle B.R..
In una intervista a Sergio Flamigni, il sen. Claudio Vitalone, fedelissimo di Andreotti, rivelò alcuni anni dopo di aver suggerito la diffusione di comunicati falsi delle B.R., mettendoli così in allarme circa l’esistenza di gruppi che cercavano di sfruttate le loro operazioni (v. Flamigni, La tela del ragno, pag. 219). Una conferma indiretta a questa affermazione è in quanto affermò il 27 gennaio 1981 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul “Caso Moro” il giudice Luciano lnfelisi circa una proposta, restata anonima, di far scrivere falsi volantini delle B.R. ai servizi segreti per determinarne reazioni.
Da testimonianze agli atti del processo presso la Corte di Assisi di Perugia per l’omicidio Pecorelli risulta che nel 1981-’82 vi fu fabbricazione e diffusione da parte di speciali strutture del Ministero dell’Interno di falsi commenti delle B.R., senza peraltro alcun riferimento specifico al Comunicato n. 7. Sul punto specifico il cap. Fabbri, direttore del centro S.I.S.D.E. per la fabbricazione dei comunicati falsi escluse (v. De Lutiis, Il golpe di Via Fani, pag. 190) che a falsificare il comunicato n. 7 potesse essere stato il S.I.S.D.E . pur ritenendo che esso “fosse opera di qualche organizzazione”.
Steve Pieczenik, uno psichiatra statunitense inviato in Italia su richiesta del Governo italiano per collaborare alle i dagini in quanto esperto di lotta al terrorismo, in un libro pubblicato a Parigi nel 2006 con il titolo “Abbiamo ucciso Moro” ha rivendicato la paternità dell’idea del falso messaggio, nel quadro di una strategia diretta a guadagnare tempo, bloccare trattative della famiglia Moro per la liberazione del loro congiunto e saggiare le reazioni della opinione pubblica alla notizia della morte dell’ex Presidente del Consiglio, ritenuta inevitabile per evitare la rivelazione di notizie se grete. Sta di fatto che lo psichiatra abbandonò Roma due giorni prima del ritrovamento del comunicato falso delle B.R. lasciando spazio a tutte le ipotesi.
Comunque siano andate veramente le cose, resta aperta la questione di chi fu a redigere il comunicato n. 7: anche a questo proposito, a quasi mezzo secolo di distanza dai fatti, è possibile solo formulare ipotesi.
Negli anni ’70 a Roma c’era un po’ di confusione: come nel famoso vitello arrosto di Trimalcione nell’antica Roma, ripieno delle carni più diverse con alternanza ed insieme fusione di aromi, nella Capitale esisteva un mondo chiuso, fatto di agenti segreti, di mafia, di malavitosi (la “banda della Magliana”), di brigatisti rossi e neri, di confidenti, di collaboratori saltuari, di uomini politici di calibro diverso tutti insieme, più o meno appassionatamente.
Per “fabbricare” il falso comunicato era necessario un buon falsario che desse affidamenti di segretezza e di comprovata spregiudicatezza quanto a colorazione politica: uno a Roma c’era ed era Antonio Chichiarelli, detto Tony, un uomo alto, massiccio, generoso con gli amici, con un forte successo nel mondo femminile.
Era nato nel 1948 a Magliano dei Marsi (L’Aquila), aveva avuto condanne per rapina, oltraggio e traffico di stupefacenti, era cocainomane, aveva tentato la strada del commercio con una piccola azienda di forniture di materiale per ufficio (il particolare si rivelerà molto importante) poi fallita. Viveva in una splendida villa all’Eur, in Viale Sudafrica, possedeva molte auto di pregio e disponeva di molto denaro tratto dalla falsificazione di quadri di pittori famosi (Salvatore Fiume, De Chirico, Dalì, Morandi, Guttuso): imitava alla perfezione Fantozzi e sembra che una volta abbia falsificato anche un quadro di Andrea Mantegna.
L’attività di falsario ne celava altre, a distanza di molti anni non ancora del tutto chiare. Era certamente in rapporto con Danilo Abbruciati, uno dei capi della “Banda della Magliana”, una organizzazione criminale dagli incerti contorni che si ritiene (ma non vi sono prove definitive in proposito) fosse a sua volta in rapporto con i servizi segreti: esistono invece prove di rapporti tra uomini dei servizi segreti civili ed i capi della organizzazione criminale emersi (La Stampa, 15 marzo 1995) in margine alle indagini sul delitto Pecorelli.
Chichiarelli ebbe anche contatti con le B.R. ? Le certezze processuali raggiunte riguardano la sua amicizia con Massimo Sparti, facente parte dei N.A.R. ed in rapporto con la “Banda della Magliana”. Nella sentenza del giudice istruttore del Tribunale di Roma Francesco Monastero che prosciolse cinque imputati della uccisione di Mino Pecorelli (15 novembre 1991) si riferisce la testimonianza di Osvaldo Lai, commercialista di Chichiarelli, che affermò che il suo cliente era in rapporti con alcuni appartenenti alla banda, come Laudovino De Santis, Ernesto Diotallevi e di aver appreso da Chichiarelli stesso che era ·lui l’autore del falso comunicato n. 7 delle Brigate Rosse. Nello stesso senso fu la testimonianza della moglie di Chichiarelli, Chiara Zossolo: anche lei aveva avuto la stessa confidenza.
Aggiunse che la testina con la quale era stato battuto a macchina il comunicato era una di quelle restate dopo il fallimento dell’azienda di forniture per uffici. Luciano Dal Bello, confidente dei carabinieri e del S.I.S.D.E., il 21 novembre 1984 si dichiarò sicuro che fu Chichiarelli ad organizzare tutta la messinscena del lago della Duchessa e che “Tony era sempre molto documentato su tutto quello che era relativo alle B.R.” (De Lutiis, cit., pag. 115). La testimonianza fu confermata dal maresciallo dei carabinieri Solinas, che peraltro dichiarò di non aver riferito la notizia ai suoi superiori in quanto Chichiarelli gli era stato indicato come un “pazzo di destra” : si era perciò limitato a mettere in contatto Dal Bello con due ufficiali del S.I.S.D .E., i capitani dei carabinieri Massimo Erasmo e Giuseppe Scipioni, che confermarono di aver ricevuto la notizia ma di non averla ritenuta importante.
Emergerà anche dagli atti relativi alla rapina alla Brink Securmak che Chichiarelli era stato confidente del S.I.S.D.E. con una memoria a firma Tony Chiarelli in cui raccontava del progettato rapimento, insieme a Dal Bello, di un cittadino libico, Mohammed Treki, forse appartenente ai “servizi” libici ed interessato a forniture militari (Flamigni, op. cit., pag. 346). Per completare il quadro è da aggiungere che Chichiarelli si era vantato con alcuni amici di aver commesso numerosi omicidi e che sua moglie parlò di un amico, ricevuto in casa nel 1978, che propose ai due coniugi un traffico d’armi con il Medio Oriente.
L’unica conclusione cui può giungersi a questo punto è che Chichiarelli aveva una vasta rete di conoscenze che andavano da alcuni uomini dei “servizi” alla criminalità organizzata: se, come e perché abbia avuto un legame con le B.R. è restato a tutt’oggi un mistero, così come gli commissionò la predisposizione del falso comunicato delle B.R., anche se tutto lascia presumere che si sia trattato di persona o ente che ben lo conosceva.
La sera del 20 marzo 1979 fu ucciso il giornalista Mino Pecorelli, direttore dell’”OP” che in diversi articoli pubblicati dalla sua rivista aveva dimostrato di sapere molte cose sul “caso Moro”.
1114 aprile 1979 due cittadini statunitensi rinvennero in un taxi (o almeno così affermarono) un borsello che qualche ora dopo consegnarono ai carabinieri. Il borsello conteneva una testina rotante IBM corpo 12 (lo stesso tipo usato per i comunicati B.R. sul sequestro Moro), due cubi flash (lo stesso tipo per fotografare Moro prigioniero), un pacchç tt o di fazzolettini di carta marca Paloma (del tipo di quelli usati per tamponare le ferite di Moro rinvenuti nel bagagliaio della “Renault” con il suo cadavere), una cartina autostradale della zona del lago della Duchessa, un frammento di un biglietto del traghetto Messina -Villa San Giovanni, una pistola Beretta calibro 9 con matricola abrasa, undici pallottole calibro 7.65 ed una di calibro maggiore (Moro fu ucciso da 11 ferite, 9 provocate da proiettili calibro 7.65 e due da proiettili di calibro maggiore), una falsa patente di guida intestata a Grassetti Luciano, un mazzo di nove chiavi (per singolare coincidenza nove erano stati i mandati di cattura emessi per la strage di Via Fani), una bustina contenente tre pillole bianche (allusione ai medicinali usati da Moro durante la prigionia?), un pacchetto di sigarette Muratti semivuoto e una bustina di fiammiferi Minerva.
Il particolare più inquietante era che nel borsello erano contenute quattro schede concernenti un progetto di uccisione di Mino Pecorelli, un’azione contro il Giudice istruttore Achille Galluccio, un progetto di rapimento dell’avv. Giuseppe Prisco, Presidente dell’Ordine degli avvocati, e l’annientamento della scorta di Pietro lngrao, a quel tempo Presidente della Camera dei deputati. Nel borsello era anche contenuta una bozza di discussione politica delle B.R., un volantino delle B.R., dieci fogli strappati dall’elenco telefonico di Roma con i numeri telefonici dei ministeri accanto ai quali erano alcune scritte in codice, lo stesso usato nel comunicato n. 1 e a suo tempo decriptato, un foglio dattiloscritto con le parole “Abele è disposto”, una cartina geografica del Lazio con il lago di Vico, Amatrice ed il lago della Duchessa.
La polizia scientifica accertò subito che I testina non era stata usata per il precedente comunicato n. 7 sul sequestro Moro. Il fatto più eclatante erano le schede relative a Pecorelli e Gallucci: contenevano particolari sconosciuti fino a quel momento sulle loro abitudini ed i loro rapporti personali.
Tutti quei documenti e quegli oggetti erano stati veramente smarriti o erano stati fatti ritrovare per inviare attraverso essi precisi messaggi? Si prospettò l’ipotesi che erano stati utilizzati per collegare l’uccisione di Pecorelli al caso Moro ma si trattava solo di una ipotesi: chi poteva avere interesse ad indicare negli uomini delle B.R. gli assassini del giornalista?
Il Giudice istruttore del Tribunale di Roma Francesco Monastero nella sentenza istruttoria già citata affermò che fu “non già casuale dimenticanza a bordo di un taxi e casuale ritrovamento di materiale “confezionato” durante la preparazione di particolari eventi criminosi e di schedatura ma cinica e lucida strumentalizzazione postuma di un omicidio (quello appunto di Pecorelli) per lanciare messaggi cifrati che solo gli ignoti reali destinatari “colgono e decriptano”.
La pubblicità di quanto contenuto nel borsello dové essere una questione alla quale colui (secondo alcune testimonianze Chichiarelli) che lo aveva “smarrito” teneva molto: tre giorni dopo il rinvenimento con una telefonata anonima al giornale “Vita sera” furono fatti ritrovare di nuovo i documenti contenuti nel borsello, ad eccezione delle pagine dell’elenco telefonico, della cartina geografica e delle bozze di discussione. Il giornale non pubblicò nulla: il 20 maggio con una telefonata a “Il Messaggero” venne fatto trovare un nuovo comunicato delle B.R., il n . 10, dove veniva esaltato l’assassinio di Moro seguito da un messaggio cifrato. Alcuni giornali pubblicarono la parte in chiaro. Quella in codice venne pubblicata tre mesi
dopo da “Il settimanale”: era un ordine di esecuzione di uomini politici, di magistrati e del questore di Roma. Il generale Santovito, all’epoca capo del S.1.5.M.I., interrogato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, sostenne l’autenticità del documento, firmato “Cellula romana sud Brigate rosse”, una sigla fino a quel momento sconosciuta.
Non era finita: il 12 novembre 1980 viene ucciso a Milano Renato Briano, direttore del personale della Ercole Marelli: nel pomeriggio una telefonata al giornale “Paese sera” fatta a nome delle Brigate rosse rivendicò l’assassinio ed invitò l’interlocutore a recarsi a Via Flavia, a Roma, dove in un cestino si trovava una busta. Ancora una volta nella busta c’era la scheda di Mino Pecorelli: l’unica novità era che in basso compariva, aggiunto a mano, il nome di Sereno Freato, persona molto vicina a Moro. Secondo l’anonimo telefonista Freato era d’accordo con le B.R.: era lui ad aver voluto l’assalto alla sede della D.C. in Piazza Nicosia a Roma, rivendicato dalle B.R. e che costò la vita a due agenti di P.S.
Il giornale diede notizia del ritrovamento ma non fece il nome di Freato. Cinque giorni dopo altra telefonata a “Il Messaggero”: ancora una volta venne fatta ritrovare la scheda di Pecorelli con due proiettili calibro
7.62. Secondo il giudice Monastero “L’ignoto ma lucido manovratore … vuol trasmettere un messaggio chiaro: il movente dell’omicidio Pecorelli va ricercato nel contesto del delitto Moro e, con più precisione, nell’ambito dei falsi comunicati B.R.”.
Si arriva così alla fine del 1980: Tony Chichiarelli è ancora un personaggio conosciuto solo nel mondo della criminalità romana ma di lui è ancora sconosciuto (almeno ufficialmente) il ruolo nella eversione.
Dopo il 1980 tutto sembra rientrare nell’ombra. Chichiarelli si separa dalla moglie, va a vivere con una giovane ragazza, Cristina Coralli, in un seminterrato di Via Ferdinando Martini, alla periferia di Roma, nel 1983 ha da lei un figlio, conserva la passione per le automobili di pregio (l’ultima è una Mercedes 430 bianca).
24 marzo 1984 avviene la “rapina del secolo”, almeno per quanto riguarda l’Italia: frutterà ai suoi autori ben 35 miliardi di lire (secondo altri 45}, dieci in moneta e venticinque in titoli che saranno subito negoziati. E’ una rapina “pulita”, senza spargimenti di sangue, perfetta nella ideazione e nella esecuzione, tanto da suscitare molti dubbi sui veri autori del piano.
La mattina di quel giorno a Roma era prevista una grande manifestazione sindacale. La sera prima quattro uomini che si presentano come agenti della “Digos” fermano nel garage di casa Franco Parsi, un ex carabiniere dipendente della Brink’s Security, una società di custodia valori. I quattro entrano in casa sua e, armi in mano, lo sequestrano in salotto fino al mattino successivo. Alle 5.30 lo fanno salire in una automobile che, seguita da una Opel Record 2300, simile alle auto usate solitamente dalla Brink’s e da un pulmino Fiat, si reca alla sede della società. All’ingresso Parsi si fa riconoscere, l’addetto alza la sbarra d’ingresso, le due auto entrano, superano i due cancelli a protezione dell’area del caveau, irrompono negli uffici.
Uno di loro è Chichiarelli: lega con spago e catene tre dipendenti e li fotografa con una polaroid sotto un drappo delle B.R. mentre altri due uomini riempiono ottantacinque sacchi di denaro e titoli e li scaricano sul pulmino che nel frattempo hanno fatto entrare manovrando le sbarre di chiusura dell’ingresso. Una volta finito il carico, fuggono tutti non senza prima lasciare sul pavimento una bomba a mano da esercitazione Energa, sette chiavi, sette proiettili calibro 7.62 e sette spezzoni di catena metallica.
Anche questa volta si tratta di messaggi da interpretare: sette è il numero del comunicato B.R. sul lago della Duchessa, la bomba è una bomba fumogena dello stesso tipo di quella usata nell’uccisione (con un fucile a canne mozze) del colonnello dei Carabinieri Antonio Varisco. Dell’omicidio, secondo il pentito Antonio Savasta, erano responsabili le B.R.: nulla sui motivi dell’assassinio, quando ormai l’ufficiale aveva lasciato il servizio .
Ad attirare immediatamente l’attenzione degli investigatori è la complessità del piano della rapina: è troppo perfetto per malfattori comuni. Quando sarà ritrovato il bottino deiia rapina, risuiteranno mancanti dieci miliardi: saranno andati a chi l’ha progettata e diretta? La domanda non avrà una risposta.
Il bottino viene diviso nella villa di Chichiarelli all’Eur: mentre si contano i soldi, Chichiarelli legge alcune carte trovate nel caveau che poi brucia in parte . Il vero obbiettivo della rapina erano quei documenti? La Brink’s esclude la custodia da parte sua di documenti, ma può non sapere che essi siano stati inseriti da qualcuno nel caveau con il denaro.
Dal Bello, confidente del 5.1.S.D.E., riferì al giudice che “alcune volte Tony, cosa per lui assolutamente particolare, si recava … all’aeroporto di Fiumicino ove in tutta riservatezza si incontrava con qualcuno” . Osvaldo Lai, commercialista di Chichiarelli, aggiunse che a quanto gli diceva il suo cliente, “era colui che in sostanza lo pilotava anche con riferimento alla sua vita precedente e dal quale lo stesso Tony diceva di prendere ordini” (De Lutiis, op. cit., pag. 120 e sent. cit.).
Chi fosse quell’uomo non si sa: certo è che si è parlato anche di una prigionia di Moro nelle strutture aeroportuali di Fiumicino.
Le indagini sulla rapina non approdano a risultati utili. Il 26 marzo 1984 con una telefonata a “Il Messaggero” un uomo che si qualifica portavoce delle B.R. invita a cercare un cestino in piazza G. G. Belli. Nel cestino c’è una busta e tre proiettili calibro 7.62 e nella busta due frammenti di foto del drappo con il simbolo B.R., un ritaglio del comunicato n. 10 di sei anni prima, una rivendicazione dell”‘esproprio proletario” alla Brink’s e gli originali delle schede relative a Pecorelli (nel quale è stato aggiunto a mano “Sereno Freato! !!! … Al Comitato direttivo centrale), Gallucci e lngrao fatte già ritrovare il 20 maggio 1979.
Il materiale ha un significato preciso: chi ha telefonato per indicare dove è stato lasciato è colui che a partire dal comunicato n. 7 ha via via fatto trovare i precedenti “pacchi”, compreso il famoso borsello nel taxi, come testimoniano gli originali delle tre schede. Il comunicato n. 10 invita a riflettere sul fatto che, come accerteranno poi i periti, esso è stato battuto con la stessa testina IBM che è servita per il comunicato n. 7 e, secondo gli stessi periti, per quello n. 1: avevano ragione i periti della polizia e gli esperti che avevano ritenuto autentico il comunicato n. 7?
Il perché dell”‘invio” del materiale del 26 marzo 1984 resta ancora oscuro: si suppone che sia stata opera del Chichiarelli, che si riteneva “trascurato” da chi lo aveva guidato in precedenza, ma è solo una supposizione.
A sostegno di essa c’è il fatto che la notte del 27 settembre 1984 mentre alle tre di notte Chichiarelli sta rincasando con la sua compagna e con il figlio di dieci mesi, un individuo basso e tarchiato spara ben undici colpi contro l’uomo e la sua compagna. Chichiarelli muore, la donna è ferita e perderà un occhio, il bambino è salvo.
I giornali del giorno dopo parlano di un regolamento di conti nella malavita romana, forse tra spacciatori di droga per una partita non pagata. Nessuno associa Chichiarelli alle B.R. o alla rapina alla Brink’s: non c’è nessun elemento per farlo.
L’ipotesi sulla causa dell’omicidio è fondata solo sulle informazioni in possesso della polizia e sui precedenti penali di Ch ichiarelli : vengono iniziate le indagini ma non portano ad alcun risultato. La polizia perquisisce la casa di Chichiarelli all’Eur: c’è una cassaforte pesantissima che richiede una giornata per essere aperta. Il denaro frutto della rapina è stato già distribuito tra coloro che hanno partecipato al colpo (quattro – cinque miliardi ciascuno ai tre coautori della rapina e un miliardo ciascuno ai due complici all’interno della Brink’s). La somma trattenuta da Chichiarelli (otto miliardi in contanti, il resto in titoli) verrà recuperata solo in parte, nascosta in una soffitta e nei copertoni di un’automobile: risulteranno mancanti circa dieci miliardi.
La scena muta rapidamente quando, assistito da un avvocato, si presenta agli inquirenti un falegname di venticinque anni, Gaetano Miceli, pregiudicato per furto d’auto. Dice di non voler fare la fine di Chichiarelli e chiede il premio di due miliardi e mezzo promesso dai Lloyds di Londra, presso cui la Brink’s era assicurata per chi darà le informazioni necessarie per recuperare il bottino della rapina: su di essa sa tutto, in quanto ha fornito le auto necessarie. Miceli fornisce le indicazioni necessarie per la identificazione dei complici che verranno tutti processati e condannati.
Il fatto più rilevante è tuttavia non la rapina o la somma sottratta, ma la documentazione fatta pervenire successivamente a “Il Messaggero”: perché fornire una documentazione che riconduce alle B.R. non solo la rapina ma anche, attraverso gli originali delle tre schede, tra cui quella di Pecorelli, all’uccisione del giornalista?
Sulla sua scheda è stata aggiunta la frase “Operazione conclusa positivamente”, volendo chiaramente far intendere che chi ha compilato le schede ha anche ucciso il giornalista: resta il mistero di chi le abbia compilate.
Naturalmente la concatenazione rapina – B.R. – sequestro Moro (comunicati n. 7 e n. 10) – partecipazione di Chichiarelli alla rapina scatenarono indagini della magistratura e dei “servizi” su Chichiarelli, alla ricerca di quante più informazioni possibili su di lui, quasi a voler recuperare il tempo perduto: se non fosse intervenuta la testimonianza di Miceli la figura Chichiarelli sarebbe restata completamente nell’ombra.
Oltre alle “frequentazioni” di cui si è detto in precedenza emersero testimonianze secondo cui il comunicato n. 7 era stato opera di Chichiarelli (deposizione del 22 febbraio 1985 della moglie al g. i. Monastero: la donna asserì che il fatto gli era stato confidato dal marito; deposizione del 30 marzo 1984 di Gaetano Miceli al g. i. Macchia, che indagava sulla rapina, che asserì essere stato lo stesso Chichiarelli a confidargli di aver compilato il comunicato n. 7, su incarico “della organizzazione alla quale apparteneva” indicando il lago di Duchessa in quanto in zona da lui conosciuta; deposizione del maresciallo Antonio Solinas al sostituto procuratore Domenico Sica (22 novembre 1984) con l’affermazione del maresciallo che Luciano Dal Bello lo informò che ad organizzare la messinscena del lago della Duchessa fu Chichiarelli).
Manca però qualunque documento in proposito così come mancano elementi certi circa i rapporti di Chichiarelli con le B.R., diretti o attraverso la “banda della Magliana” e/o con altre organizzazioni (certamente qualcuno fornì a Chichiarelli le schede lngrao, Pecorelli, Gallucci e Prisco, le prime tre anche in originale). Manca anche qualunque indicazione sulle cause dell’uccisione di Chichiarelli: sapeva troppe cose? Aveva letto documenti trovati alla Brink’s e li usava come armi di ricatto? Era venuto a conoscenza di qualche piano segreto o di pericolose contiguità? Esisteva veramente una organizzazione brigatista o comunque una frazione terrorista con alleati nella criminalità comune a cui Chichiarelli era legato? A meno di nuovi documenti in proposito, sono quesiti che sembrano destinati tutti a restare senza risposta.
Un romanziere potrebbe trarre dalla vicenda la trama per una spy-story: un falsario svolge un lavoro per un committente che gli promette una forte ricompensa, poi mai corrisposta. L’uomo decide di farsi giust izia da se e compie una rapina che gli garantirà il compenso pattuito: è uno sgarro che pagherà con la vita.
Un romanzo, solo un romanzo, ma quali sono esattamente i confini tra immaginazione e realtà?
Quanti ricordano che Steve Pieczenik ha collaborato con Tam Clancy alla scrittura di spy-story di grande successo?
Bibliografia
Corrado Augias, Telefono giallo, Milano, Mondadori, 1991
Giovanni Bianconi, Ragazzi di malavita, Milano, Baldini Castaldi, 2004 Nicola Biondo – Massimo Veneziani, Il falsario di Stato , Roma, 2008 Giuseppe De Lutiis, Il golpe di Via Fani, Milano, Sperling & Kupfer, 2007
Giovanni Fasanella – Giovanni Pe llegrino , La guerra civile, Milano, Rizzali, 2005 Sergio Flamigni, La tela del ragno, Milano, Kaos Edizioni, 1993
Francesco Pecorelli – Roberto Sommella, I veleni di O.P., Milano, Kaos Edizioni, 1994 Giuseppe Zupo – Vincenzo Marini Recchia, Operazione Moro, Milano, Franco Angeli, 1994
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