IL CAVALIER SERPENTE

di Stefano Torossi

MICROBIOGRAFIE IRRISPETTOSE

DOMENICO CIMAROSA 1749 – 1801

“Egli diventò veramente quel prototipo di musicista italiano errante, da contrapporre al sedentario compositore tedesco…una specie di modello di moto perpetuo…sempre per strade e per cammini, oggi qua, domani là”.

All’epoca infatti l’autore di un’opera dirigeva l’orchestra sedendo al cembalo per le prime due o tre rappresentazioni, poi partiva al seguito della compagnia in giro per le corti del circondario. E così via a ogni debutto.

Domenico nasce ad Aversa in una famiglia poverissima, figlio di Anna, lavandaia e di Gennaro, muratore. A un certo punto, in una di quelle migrazioni di poveri all’inseguimento del pezzo di pane, vanno tutti a Napoli perché il padre ha trovato lavoro nella fabbrica della nuova reggia di Capodimonte.

Ma la faccenda ha uno sviluppo drammatico perché papà cade dall‘impalcatura e muore precipitando (e non è una battuta) se stesso e la famigliola in una miseria talmente profonda che mamma Cimarosa è costretta ad affidare il piccolo Domenico ai frati del Pendino, presso i quali almeno non muore di fame e soprattutto si impadronisce dei primi elementi di educazione musicale con un tale profitto, che gli stessi frati, stupefatti, riescono a infilarlo nel conservatorio della Madonna di Loreto come orfano sprovveduto di ogni mezzo materiale, ma ricco di doni spirituali.

In un attimo diventa un superbo virtuoso di violino, organo e clavicembalo, nonché un eccellente cantante e un operista di sicura ispirazione.

Raggiunge presto un tale livello da essere esentato dal filtro del ciambellano che ha il compito di “minutare” le opere messe in scena alla corte di Napoli, cioè di controllare che non siano troppo lunghe per non rischiare di annoiare il re, che invece, Domenico lo vuole ascoltare tutto, dall’inizio alla fine.

E arriva anche per lui, come per tanti altri colleghi dell’epoca il momento di affrontare quell’esperienza forse non sempre portatrice di fama, ma di quattrini sì: la stagione in Russia alla corte di Caterina II.

Così se ne parte senza fretta, determinato a sfruttare ogni miglio di quella lenta traversata cosparsa di tabacchiere (intendendo i doni, appunto molto spesso tabacchiere d’oro, con cui i nobili stanziali sull’itinerario compensano gli artisti di passo) che alla fine di qualche mese lo avrebbe portato a Pietroburgo. Tre o quattro anni e poi, con in tasca una bella sommetta, se ne riparte per tornare a casa.

Passa da Varsavia e si ferma a Vienna dove per il nuovo imperatore Leopoldo II compone e mette in scena quello che diventerà il suo capolavoro: “Il matrimonio segreto”.

Che provoca un tale entusiasmo che l’Imperatore stesso, la sera della prima, pretende che sia bissato per intero, e versa sull’unghia al fortunato compositore ben 1.350 fiorini.

Quando “Il Matrimonio segreto” arriva a Napoli insieme al suo autore, nel 1791, viene replicato più di cento volte senza interruzione. Sono numeri da rockstar del ‘700.

Purtroppo, da persona poco pratica a barcamenarsi nei subbugli politici, incappa nell’arrivo dei napoleonici a Napoli e nell’istituzione della Repubblica Partenopea alla quale dà un maldestro appoggio componendo un inno antimonarchico, di cui dovrà ben presto pentirsi, eseguito ai piedi dell’Albero della Libertà dagli studenti dei conservatori napoletani.

Poi inciampa nella restaurazione, durante la quale pare che gli devastino la casa buttandogli il clavicembalo dalla finestra e in più si avventura a comporre un altro inno, questa volta in favore della monarchia, intitolato “Bella Italia”. Ma fa ancora di peggio: scrive la “Cantata per Ferdinando – espressamente composta dal sig. D. Cimarosa in occasione del bramato ritorno di Ferdinando nostro amabilissimo sovrano”.

E qui commette un errore di etichetta che rovinerà i suoi ultimi giorni: questa musica la dedica al re senza prima avergliene chiesto il permesso, in più fregiandosi abusivamente del titolo di “Maestro di Cappella all’attuale servizio di Sua Maestà”.

Sua Maestà si offende a morte dichiarando che: “davvero non sa comprendere come quel tal Cimarosa, dopo aver servito la Repubblica e battuto la musica sotto quell’infame albero della libertà, abbia osato scrivere un simile componimento, ove con sorpresa ha la Maestà Sua veduto posta in scena la sua Real Persona senza averne dato il permesso”.

Insomma, alla fine il poveretto finisce in galera per quattro mesi e appena liberato viene vivamente consigliato di cambiare area; così se ne scappa a Venezia, dove ha ancora degli amici e soprattutto ha in piedi una commissione da parte della Fenice per l’opera, “La Artemisia”, che però non farà in tempo a vedere messa in scena.

Infatti, poco dopo l’arrivo a Venezia muore in modo inaspettato e questo, insieme ad alcuni sintomi sospetti, fa partire voci su un suo presunto avvelenamento ordinato da lontano dalla sua arcinemica, la regina Maria Carolina di Napoli.

Opportunamente, a tamponare le voci arriva negli stessi giorni un certificato ufficiale redatto dal medico di Pio VII, Giovanni Piccioli, che lo dichiara “…passato agli eterni riposi in conseguenza di un tumore che avea nel basso ventre, il quale dallo stato scirroso è passato allo stato canceroso.”

Esequie solenni, sfarzo di torce, musica e immenso concorso di popolo. E buona notte ai suonatori.


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