EUGENIA PAGANO
Ero al caffè Torino seduta ad un tavolo insieme ad Angela, un medico in pensione e sorseggiando un tè caldo parliamo di argomenti vari nonché della mia ricerca di storie particolari da raccontare, e a tale proposito le chiedo se il figlio medico di ritorno dall’Afghanistan fosse disponibile a rilasciare un intervista.
Angela, discreta e saggia, mi risponde che gliene avrebbe parlato la sera stessa. Ci salutiamo e all’uscita del locale ognuna va verso la propria auto.
All’ora di cena mi arriva un messaggio della dottoressa col numero di telefono del figlio che io subito chiamo.
Mi risponde una voce forte e chiara e dopo le presentazioni spiego brevemente della mia collaborazione con il vostro giornale on line e dell’intenzione di pubblicare la sua storia e poco dopo fissiamo giorno ora e luogo per incontrarci.
E’ martedì pomeriggio e raggiungo amica e figlio in un locale dove sedie e pareti colorate fanno da cornice a questa narrazione.
Mi chiamo Carlo e sono un medico ospedaliero di cinquant’anni e probabilmente la scelta della mia professione è stata facilitata dall’ambiente nel quale sono cresciuto: una mamma medico “h. 24”, racconti di pazienti, ricette, riviste… e così noi figli a volte sfogliavamo i periodici a disposizione in sala d’attesa, ed e proprio tra questi che trovo Emergency.
Da allora mi interesso all’organizzazione di Gino Strada nata in Italia da circa trenta anni per offrire cure medico-chirurgiche alle vittime della guerra, delle mine antiuomo e per promuovere una cultura di pace.
Il mio percorso è quasi ovvio: studio medicina e mi specializzo in anestesia ed esercito la professione presso l’ospedale Molinette, purtroppo non condividendo metodi ed approcci del responsabile di cardiologia, in seguito indagato, mi trasferisco in provincia, dove ancora oggi lavoro.
Nel frattempo divento padre e anche se ho famiglia continuo a prestare attenzione ai progetti di Emergency e ai requisiti richiesti: tra questi la conoscenza della lingua inglese, materia nella quale non brillavo neanche a scuola, e che per ironia della sorte studiare
Finalmente vedo realizzare il desiderio, maturato nel tempo, di partire in missione. Inoltro la candidatura on line unitamente al curriculum e ad una lettera motivazionale. In breve tempo arriva la risposta ed il percorso di selezione continua con la partecipazione a colloqui in lingua, nel mio caso, inglese e si conclude con esito positivo. Partenza prevista primavera 2023, destinazione Kabul durata sei mesi. Mi metto in aspettativa non retribuita ed insieme ad una collega partiamo per l’ Afghanistan.
Il viaggio è come la notte prima degli esami. la voglia di arrivare e l’emozione per quello che ci aspetta. In aeroporto ad attenderci c’è una specie di comitato di benvenuto, all’interno del quale è prevista la figura dell’ interprete, che risulterà assolutamente necessaria nelle conversazioni coi pazienti per meglio definire il quadro clinico.
Inizia così questa straordinaria collaborazione dove essere medico ha una valenza altra ed alta rispetto alla normale routine e la conoscenza di culture diverse ti insegna a non giudicare.
La casa del personale è in muratura con una ottantina di posti letto a pochi passi dall’ospedale ed è in questi spazi che trascorriamo il tempo insieme al personale internazionale che prevede sempre la presenza femminile per meglio interagire con le donne del luogo.
La struttura ospedaliera sorge dove c’era una scuola ed è dotata di sale operatorie, di terapia intensiva e hanno accesso le vittime dirette e indirette della guerra che hanno bisogno di soccorso sanitario gratuito che diversamente a pagamento non potrebbero curarsi. L’assistenza è garantita a tutti per mantenere una posizione di neutralità evitando di schierarsi con una qualsivoglia forza politica.
Kabul è una città di antiche origini e la popolazione è formata da un connubio di tradizioni tribali e sulle quali poggia l’attuale governo dove la donna è sempre più esclusa dalla società e dove l’informazione è censurata. Nel rispetto della diversità culturale ci adoperiamo e così le pazienti vengono curate dal personale femminile.
Per festeggiare il nuovo team, Shakiba, un’ infermiera afghana, cucina alcuni piatti tipici da gustare seduti nel prato sotto un albero e anche nella condivisione del pranzo le donne si siedono separate da noi e nei giorni seguenti non sono mancati da parte dei colleghi maschi commenti allusivi del tipo “chissà perché l’ha fatto, che interesse aveva…” E anche questo comportamento rispecchia la realtà.
Tuttavia nulla toglie alla bravura della donna che ci affianca quotidianamente.
Una giovane donna arriva un giorno al pronto soccorso sparata dal padre perché aveva visto il fidanzato due giorni prima del matrimonio, l’arma usata era un fucile da caccia i cui pallini procurano danni estesi che richiedono una trentina di interventi e nonostante la gravità del caso la barriera culturale impedisce un dialogo autentico. Di quella diciottenne non abbiamo più notizie.
Un altro caso è quello di una bambina accoltellata con le forbici dal fratellino e quello che accomuna queste storie c’è il non raccontato come la disgrazia di Eva, una bimba che precipita dal quarto piano ed arriva in gravi condizioni tali da essere intubata.
Accanto a questi traumi civili abbiamo le vittime delle mine anti-uomo come Amir, ragazzo che presenta lesioni da scheggia in seguito ad una esplosione. Apprendiamo in seguito che vive in una casa senza corrente elettrica lontana chilometri dal centro.
Spesso le condizioni di vita sono difficili e la povertà impedisce di curarsi presso le strutture private meglio attrezzate rispetto a quelle pubbliche che ho avuto modo di visitare ed in questa situazione Emergency, attraverso la rete ospedaliera fornisce un valido aiuto alla popolazione Afghana e non solo.
Lasciare i colleghi è stato doloroso come ogni distacco, non ero ancora partito e mi chiedevano già di tornare, ma non ho risposte se non la gratitudine di aver formato una squadra capace di fronteggiare ogni situazione in accordo e armonia.
Questo è il bagaglio col quale torno a casa e dall’ aereo con lo sguardo triste vedo Kabul in lontananza… e leggo l’ultimo libro di Gino Strada intitolato “Una persona alla volta”
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Commenti
Una risposta a “IL CIELO SOPRA TORINO STORIA DI CARLO”
Che belle storie Eugenia!