Questa settimana ho preso spunto per il mio articolo da un film degli anni passati quelli che, spesso, durante il periodo estivo ci vengono riproposti dalle varie televisioni. Come a scuola che agli alunni distratti si rifilano le ripetizioni delle lezioni svolte durante l’anno “Repetita iuvant” dicevano i latini e forse è vero infatti, nel mio caso, ho rivisto con più attenzione e maturità un film degli anni settanta con la regia di Bernardo Bertolucci su testo di Alberto Moravia. Un film affascinante con attori di tutto rispetto quali: Louis Trintignant e una giovanissima Stefania Sandrelli. La trama ci racconta di un viaggio di nozze a Parigi di una coppia che inizia il “suo viaggio della vita” senza nemmeno rendersi conto della drammatica e allo stesso tempo straordinaria avventura che vive in una spazio-tempo sospeso tra realtà e immaginazione frutto di estenuanti elucubrazioni fisiche ma soprattutto cerebrali.
Come tutti i film di Bertolucci anche questo risulta trasgressivo sia per il contenuto sia per la sottile ed accattivante sensualità che, attraverso le immagini ed il tono vocale dei personaggi si sottintende. Ma si sa, l’uomo tende alla trasgressione perché insita nella sua natura, lo fa mangiando la mela proibita e, ogni volta che ha la necessità di rivedere sé stesso e la sua naturale crescita in termini di libertà assoluta.
Il film, che nel frattempo è diventato un “cult”, è ambientato nel periodo fascista durante il quale tutti erano fascisti o quasi un po’ per convinzione e un po’ per paura di essere contrastati dal regime che, certamente, non usava maniere dolci per convincere gli scettici che non condividevano le stesse idee. Il personaggio principale interpretava il ruolo di una spia fascista che diventerà, poi, complice di un agguato infame ai danni di un intellettuale di sinistra episodio questo che segnerà tutta la sua esistenza. Serpeggiava tra le righe del film qualcosa che, per i tempi non del tutto maturi, poteva suscitare qualche perplessità, infatti alcune scene, in modo particolare, in quelle riferite alle interpreti si avvertiva un accenno alla omosessualità femminile che, mista alla già evidenziata sessualità, creava sensazioni forti ma mai volgari.
Quadri meravigliosi che richiamavano alla mente le icone passate e mai dimenticate che lasciavano lo spettatore in uno status di quietudine ed assuefazione al bello. Quando un regista come Bertolucci ed uno scrittore come Moravia, due menti fertili, persone dotate di particolare sensibilità, si incontrano il prodotto che ne scaturisce non può che essere un’opera d’arte. Al di là della trama-motivo del film e quindi del romanzo da cui è tratto, l’attenzione viene catturata dal personaggio principale, ne consegue un’analisi psicologica che descrive un uomo che, non avendo il coraggio di affrontare la vita e il giudizio del mondo, si cela dietro comportamenti del tutto falsi e vigliacchi. La pressante esigenza di essere accettato dalla società lo induce a tradire sé stesso sforando anche i limiti di una certa moralità dei tempi per dare sfogo ai suoi impulsi sessuali che consuma con la sua amante che poi tradirà.
E lo fa con avidità e compulsività di nascosto a sé stesso come se qualcuno lo spiasse dal buco della serratura. Continuamente condizionato dalle sue ossessioni, rimane gelido di fronte al delitto cui assisterà; la sua totale assenza di valori anche riguardo alla sua appartenenza politica rivelerà, alla fine, la sua debolezza di uomo consegnandolo alla storia come un misero e deplorevole traditore.
Da rivedere.
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