Davvero il mondo arabo accetta la formazione di uno stato palestinese, conseguenza ovvia della realizzazione dell’unica soluzione ufficialmente invocata come possibile, quella dei due popoli e due stati, che peraltro fu la prima ed unica approvata dalle Nazioni Unite con la Risoluzione n° 181?
La Risoluzione votata il 29 novembre 1947 ebbe come testo quello elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine) del quale- per evitare parzialità- non facevano parte USA, Gran Bretagna,URSS, CINA e Francia.
Il Piano UNSCOP fu richiesto per risolvere il conflitto tra le due comunità, quella ebraica e quella palestinese, deflagrato durante il mandato britannico sui territori causato dalla implosione dell’impero ottomano, sconfitto assieme all’impero tedesco e quello austriaco nella Prima guerra mondiale. Il deterioramento delle relazioni arabo-ebree si erano esasperate durante la Seconda guerra mondiale a causa dell’alleanza araba con i nazisti, la creazione di una Legione araba dedita, prima che al sostegno bellico contro le forze armate anglo-statunitensi, alla caccia all’ebreo imposta da Hitler e praticata anche dall’Italia a partire dal 1938, con le Leggi sulla Razza.
La risoluzione 181 disponeva la partizione del territorio palestinese fra due istituendi Stati, uno ebraico, l’altro arabo, con Gerusalemme sottoposta ad un controllo internazionale.
Una cartina mostra il risultato della partizione territoriale. Si potranno meglio notare affinità e dissonanze con la attuale situazione tra lo Stato di Israele e i territori controllati dall’Autonomia palestinese a Gaza e in Cisgiordania.
I Paesi arabi rifiutarono da subito il Piano e la risoluzione. Gli ebrei si opposero da parte loro alla mancata presa in considerazione dei territori già occupati da comunità che avevano popolato con fattorie ed attività produttive e rifiutarono di allontanarsi da quei centri; dimostrarono di poterli difendere dagli attacchi sia britannici che arabi con due forze clandestine ed efficaci , l’Haganah e l’Irgun, dinanzi alle quali l’Esercito di Liberazione Arabo si mostrò inefficace.
Il 9 aprile del 1948 l’Irgun compì un atto di terrorismo nel villaggio agricolo di Deir Yassin, prontamente condannato da Ben Gurion e dalla Jewish Agency, che disconobbero l’Irgun come rappresentante a qualsiasi titolo degli interessi ebraici. L’Esercito di Liberazione Arabo il 12 aprile, a tre giorni dall’attentato di Deir Assim, rispose con un altro attentato , questa volta a Gerusalemme.
A sua volta l’Haganà iniziò combattimenti a Gerusalemme, sulla falsariga della “conquista” di Haifa, sconfiggendo l’esercito di liberazione araba, ma soccombendo contro ben tre compagnie inglesi che ebbero la meglio. I Britannici entrarono nella parte orientale di Gerusalemme, la dichiararono zona militare disponendo che entrambe le parti non avessero diritto all’accesso. Tutto questo ad appena un mese dalla fine del mandato coloniale, quando sia gli ebrei che i palestinesi lottavano per guadagnare ogni metro possibile prima della proclamazione ufficiale dei due stati.
Alla vigilia della scadenza del mandato britannico in Palestina, il 14 maggio 1948, il presidente del Consiglio nazionale ebraico Ben Gurion proclamò la fondazione dello Stato di Israele, in accordo con il presidente statunitense Truman, che non ascoltò l’opposizione del segretario di Stato Marshall, e con il tacito ( nel senso di non pubblico) consenso dell’Unione Sovietica.
Mosca preferiva la nascita di uno stato nuovo per di più animato da aspirazioni socialistiche, delle quali i kibbutz erano testimonianza visibile alla caotica presenza di tanti stati residualmente coloniali e filocoloniani. La storia successiva, i variegati processi di decolonizzazione, la valorizzazione e lo sfruttamento delle risorse energetiche, i mutati equilibri strategici hanno dimostrato che l’URSS non aveva ben studiato l’argomento.
La proclamazione dello Stato di Israele dopo il rifiuto della Risoluzione 181 da parte dei Paesi arabi dimostrò la lungimiranza del gruppo dirigente ebraico e che il deterioramento delle relazioni fra ebrei e arabi traeva origine da motivazioni più complesse di quelle della divisione di un territorio. E fu guerra. Una guerra tra eserciti arabi e coloni ebrei. La guerra del 1948.
Sulla carta la sconfitta di Israele, come era stata ufficialmente chiamata la terra che per gli scampati dai forni, dai campi di concentramento, dagli orrori della Shoah aveva i confini del sogno, i colori della speranza, era , sulla carta, certa. Che poteva fare la piccola Israele contro gli eserciti dell’Egitto, della Giordania, della Siria, del Libano, dell’Iraq e della Legione araba? La lega combattente araba aveva il dominio dell’aviazione e dei mezzi corazzati, che mancavano del tutto agli israeliani, difettava un poco nel numero delle armi convenzionali, ma era convinta di poter facilmente scacciare gli israeliani dalle terre deliberate dall’ONU per l’esiguità del numero di combattenti : appena 21000 inquadrati nell’Haganà.
All’atto pratico furono gli egiziani e i giordani, che senza coordinamento con gli altri eserciti, andarono all’assalto giungendo alle porte di Tel Aviv con due brigate e attaccarono la parte di Gerusalemme abitata dagli israeliani e difesa da un tenente colonnello, Moshe Dayan, che aveva combattuto con gli inglesi ed i francesi in Siria contro le truppe tedesche e la Legione araba. Momentaneamente gli israeliani furono sconfitti.
Gli Stati Uniti chiesero che l’ONU decretasse una tregua di quattro settimane. Un tempo che fu sufficiente a far giungere combattenti dall’Europa e particolarmente dalla Cecoslovacchia assieme, sempre da Praga, con un ponte aereo, giunsero dagli Stati Uniti mezzi corazzati, armi leggere, e persino una piccola flotta di aerei da combattimento, caccia Messerschmitt, tre bombardieri Flying Fortress. La Gran Bretagna decapitò la parte più combattiva e organizzata della coalizione antisraeliana, la Legione araba, richiamando a Londra , in quanto mandataria coloniale, il suo capo, il generale Glubb Pascià e i suoi connazionali, gli ufficiali di stato maggiore, due comandanti di brigata, tre comandanti di reggimento di fanteria, gli ufficiali di artiglieria; i britannici lasciarono le artiglierie in Giordania, dove non c’era nessuno che sapesse usarle.
La tregua durò dal 7 giugno al 9 luglio. Dal 10 luglio gli israeliani ripresero i combattimenti, che si fermarono per una nuova tregua il 19 luglio. In soli dieci giorni, godendo del sostegno di USA e URSS, Israele non soltanto aveva respinto l’offensiva, ma era giunta alle porte di Amman e di Damasco, preso il controllo di Nazareth e della intera Galilea, l’Haganà dilagò nel deserto di Negev. Nonostante l’armistizio rimase aperto uno stato conflittuale con l’Egitto che, pur portandosi valorosamente sul campo di battaglia, perdeva quotidianamente posizioni, sino a quando gli Stati Uniti imposero la cessazione del conflitto ed un accordo armistiziale. La causa del brusco intervento americano fu di fatto imposta dall’abbattimento in volo di cinque Spitfire britannici che offrivano, in qualità di alleati dell’Egitto, un avaro sostegno alle forze armate di Re Faruk. Washington non poteva e non voleva umiliare il suo migliore alleato.
L’armistizio, pur non pregiudicando futuri trattati di pace, lasciò ad Israele tutto il Negev e quella che fu definita la Striscia di Gaza.Gli israeliani persero 6500 uomini, l’1% della popolazione, ma avevano conquistato 1300 Km quadrati sui quali erano edificate quattordici città e trecentotredici villaggi. Tutti gli stati della coalizione araba, uno alla volta, firmarono un armistizio col quale cedevano parte di territorio. Tutti gli Stati arabi dichiararono, e mantennero da allora in poi, un impegno da essi stesso preteso : non avrebbero mai ospitato sul loro territorio i profughi palestinesi che erano stati il casus belli derivante dalla inaccettata risoluzione dell’ONU.
La guerra del 1948 è, prima della guerra di Suez (1956) dei sei giorni(1967) e di quella del Kippur( 1972), una delle quattro gambe su cui poggia la sedia visibile del lungo conflitto, nel quale il popolo palestinese è spesso chiamato a soffrire il ruolo della vittima da parte di attori principali arabi, islamici sunniti e sciiti in un gioco di dominio, potenza dai contorni tragici.
Davvero, nell’Occidente, Destra e Sinistra sono state colte di sorpresa da una endemia diffusa e mortale, pronta ad evolversi in tragica, inarrestabile pandemia: l’antisemitismo, erroneamente considerato debellato?
Guido Rampoldi, una vita dedicata brillantemente al giornalismo come corrispondente dall’estero, autore di un libro che lessi attentamente nel 2004, l’L’innocenza del male, col quale intese dimostrare che la pratica della politica contemporanea ha oramai legittimato l’uso consuetudinario dello sterminio, solo pochi giorni fa, il 30 novembre, sul quotidiano Domani, ha lungamente dibattuto il tema della abilità illiberale di chi accusa di antisemitismo gli oppositori del governo Netanyahu, o di chi pur criticando l’aggressività dei coloni nelle terre cisgiordane, che sono parte integrante e legittima dei territori che dovrebbero essere governati dall’Autonomia palestinese, non sanno definirli gang organizzata per lo spopolamento, degna di processo della Corte penale internazionale, perché una sorta di schema binario si sofferma ( meglio forse sarebbe stato usare il condizionale “si soffermerebbe”) su “chi” commette atrocità piuttosto che su “cosa” viene perpetrato. Da qui, nel lungo articolo (una intera pagina) due parole sul “pogrom di Hamas” ed il resto su l” urbicidio” dell’esercito israeliano colpevole cosciente di crimini di guerra compiutamente descritti nella loro efferatezza.
Chi ha avuto la bontà di leggerci nel corso di queste settimane già sa che, con l’accordo della Direzione di questa news letter, abbiamo da subito espresso più che la speranza il ragionamento secondo il quale la sconfitta militare, politica ed etica di Netanyahu rende necessario per l’equilibrio planetario nuove elezioni nello stato amico di Israele; l’uscita quanto prima dell’esercito israeliano da Gaza; il blocco di nuove colonizzazioni in Cisgiordania e lo smantellamento concordato di colonie; la fine delle violenze che i palestinesi subiscono da parte di coloni che non hanno niente a che vedere con la grande storia dei Kibbutz- secondo l’opinione che appare maggioritaria del civilissimo popolo israeliano.
Abbiamo auspicato che i responsabili dell’Autonomia palestinese in Cisgiordania, assieme agli emirati Arabi, possibilmente l’Egitto e l’UE si facciano carico della ricostruzione materiale e civile di Gaza per giungere finalmente all’unica soluzione possibile , quella dei due popoli e due stati, che il lungo inverno arabo ha impedito, colluso negli ultimi tre lustri da Netanyahu, il quale ha anche goduto del sostegno dell’ex presidente USA Donald Trump.
Ovviamente non vi può trovare equa soluzione, e a Washington il concetto è molto chiaro, con la presenza americana ed israeliana a Gaza.
La questione “speciale” dello status di Gerusalemme non potrà essere davvero risolta senza un accordo tra le Chiese cristiane e i rappresentanti dei rabbini ebrei. Un accordo non facile perché sia la guerra in Ucraina che quella scatenata da Hamas hanno drammaticamente lacerato i rapporti tra tutti i protagonisti e , dopo decenni, è triste dover osservare che molti ambienti diplomatici pensano e riferiscono che le Chiese cristiane( quelle ortodosse, quella cattolica ma anche qualcuna tra le tante Chiese protestanti) cattolica hanno perso autorevolezza diplomatica, ecumenica e interreligiosa.
Come era facilmente prevedibile è stata interrotta da parte di Hamas la delicata tregua che la diplomazia statunitense, del Qatar e dell’Egitto erano riusciti sino al 1° novembre riusciti a stabilire tra lo stato di Israele e le bande terroriste palestinesi: la questione antisemitismo e antisionismo è destinata a continuare, anche se il disprezzato Occidente, erede della cultura ellenico-latina e giudaico-cristiana, opera con attiva perseveranza per arrivare ad una nuova tregua o, quanto meno, far accettare al governo israeliano l’ipotesi di usare sistemi di combattimenti sicuramente più ferali per il suo esercito e meno cruenti per la popolazione civile.
Già, la popolazione civile palestinese che è l’autentico scudo, assieme agli ostaggi, di una potenza di fuoco alimentata, incoraggiata, sostenuta militarmente dall’Iran, dalla Siria, dalla Turchia, dalla Russia; secondo le dichiarazioni delle autorità iraniane, siriane, di Erdogan e di Putin e ben visibile per i non innocui missili lanciati dagli hezbollah dal Libano e dalle milizie Yemenite appoggiate da Teheran.
A proposito di informazione “binaria”: ad alcun esperto di giornalismo della guerra asimmetrica combattuta nei cortili delle case, dai balconi delle scuole, nei corridoi degli ospedali, nelle strade tra la popolazione civile, è venuto alla mente il tragico paragone tra le povere vittime di Gaza e quelle dello Yemen.
La tanto osannata ONU antisraeliana ha sussurrato che soltanto alla fine dello scorso anno nello Yemen (33 milioni di abitanti) si contavano 377000 morti, 23 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria, milioni (a quanto pare non sono riusciti neanche a determinare il numero esatto) di malnutriti e quasi un milione di vittime di epidemie estranee al Covid 19.
Medecins sans frontieres nel caso dello Yemen non è molto ascoltata.
L’altra tesi “non binaria” che viene espressa da tanti commentatori liberal per confutare le accuse di antisemitismo, riguarda i sondaggi elaborati tramite campioni scelti tra studenti universitari per i quali, in generale, è predominante l’opinione (“falsa e cretina” secondo Rampoldi) che “il governo israeliano si comporta con i palestinesi come i nazisti si comportarono con gli ebrei”. Ecco un esempio illuminante di supposto non antisemitismo.
L’affermazione “falsa e cretina” del 56% degli studenti secondo il sondaggio l’Istituto Cattaneo è inesatta perché gli studenti sarebbero stati indotti in errore non avendo trovato nel questionario le domande adatte “per condannare i bombardamenti di Gaza” oppure perché gli studenti volevano semplicemente “ribaltare il politically correct per il quale Israele può “impunemente” bombardare giacché Churchill rase al suolo Dresda per sconfiggere il nazismo” (Rampoldi, Domani, 30 nov. 2023).
Chi descrive una realtà che appare diversa è secondo una propaganda che non mi sembra poco diffusa è parte di gruppi di persone giudicabili “in fondo non senza qualche ragione, inadeguati, bolsi, vili”.
Eppure, quest’antisemitismo o interpretazione del pensiero liberal e politicamente corretto non è cosa nuova.
Il professor David Meghnagi, con ottime ragioni, ne fu così convinto da attivare ,sin dal 2008, nell’ambito della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università pubblica Roma 3, un master internazionale in didattica della Shoah, nel quale affrontare, assieme alla esperienza dei sopravvissuti, l’elaborazione del lutto e la sua memoria nella letteratura e nell’arte, nella filosofia e nel pensiero religioso, ed anche studiare l’identità europea ed ebraica dopo Auschwitz, l’uso politico della memoria, il rapporto tra gli ebrei e. la Chiesa – cristiana sì, ma particolarmente cattolica- , il vecchio ed il nuovo antisemitismo ed antisionismo.
In verità c’è poco da sorprendersi per l’attuale intreccio antiebraico di radici altrimenti ben distinti in Europa, la destra estrema e la sinistra non soltanto radicale; l’irruzione nella politica degli ultimi decenni di un movimento politico definito genericamente populista, che ha dimostrato una notevole vitalità, pur nell’incapacità- là dove ha governato- di mostrarsi efficace e risolutivo dei nuovi impegni imposti dall’evolversi del mondo a conclusione della Guerra fredda. La destra estrema ha da sempre tenuto in gran conto la stretta collaborazione antiebraica tra il nazismo ed il mondo arabo, e molto si è scritto sulla associazione a delinquere stretta direttamente tra Hitler e il Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini, all’epoca (1934-1945) la più alta autorità sunnita, creatore della Legione Araba, alleata ai nazisti nella caccia all’ebreo e per la guerra contro i britannici.
Un po’ meno si parla delle simpatie di Guglielmo II per il mondo arabo, concretizzatesi nel dono alla moschea di Damasco del sarcofago per la tomba di Saladino e propugnatore, già nel 1903, di una ferrovia che congiungesse Berlino a Bagdad, concorrenziale al noto Orient Express, un treno passeggeri a lunga percorrenza della Compagnie Internationale des Wagons-Lits che a partire dal 1883, collegava Paris Gare de l’Est a Costantinopoli (l’odierna Instanbul).
L’imperatore tedesco voleva collegare la capitale alla Turchia ottomana, traversando i Balcani non solo per incrementare i commerci ma anche per rendere ancor più visibile la supremazia della Germania sull’Austria-Ungheria già dimostrata decenni prima dalla espansione prussiana realizzata dal cancelliere Bismark. Hitler, oltre l’odio razziale nazista poteva contare sia nell’ex impero ottomano che nella stessa Germania di simpatie diffuse per l’islamismo.
Simpatie che ancora nel secondo dopoguerra erano ben vive in influenti ambienti musulmani islamici. L’esempio di tanta amicizia che viene più facilmente alla memoria è quello fornito da Sayyd Qutb, un ideologo egiziano che, membro dei Fratelli Musulmani, rivestendo un incarico amministrativo nel ministero dell’Istruzione, fu inviato negli Stati Uniti dove, spaventato culturalmente dal modernismo occidentale, si radicalizzò. Tornato in patria aderì nel 1952 alla Rivoluzione dei Liberi ufficiali contro la monarchia, condivise la persecuzione dei Fratelli musulmani e fu imprigionato per molti anni. In carcere scrisse un assai conosciuto commento al Corano e soprattutto la sua opera principale “Pietre miliari”, con la quale riformulò il concetto di jahiliyya.
Jahiliyya è il vocabolo che indica per i musulmani il periodo che precedette la missione profetica di Maometto nel VII secolo. Tratta di un periodo fondamentale: quello che mostra e designa, assieme e con un solo termine, il tempo della ignoranza della verità salvifica che il Profeta ebbe incarico da Allah di svelare, tramite il Corano, agli uomini.
Sayyd Qutb è da molti considerato più un teologo che uno scrittore, perché con la sua traduzione del Corano e con “Pietre miliari” avrebbe posto le basi del moderno fondamentalismo islamico, indicando la rigida inflessibilità delle azioni alle quali i movimenti che si reputano puri ed autenticamente musulmani debbono conformare le loro azioni per vivere e diffondere il Messaggio islamico. Il moderno fondamentalismo ha coniato un termine, “giahilita”, per indicare la pratica nelle parole e nei fatti dell’estremismo radicale egiziano. D’altronde tra colpi di stato e attentati assassini in nome della religione, come dimenticare che lo stesso Sayyd Qutb scarcerato nel 1964 fu nuovamente arrestato nel 1965 con l’accusa di complottare ai danni di Nasser e giustiziato nel 196?
L’odio antisemita dei Fratelli musulmani è conosciuto perché chiaramente espresso, così come l’antisemitismo viscerale di chi, all’interno degli stessi radicalismi religiosi e della stessa area storico-geografica, quella che fu ottomana, non perde occasione per aiutare e difendere le mani terroriste di Hamas contro Israele. Si distingue in tanto odio antiebraico ed antioccidentale il già citato triplogiochista turco Recep Tayyip Erdoğan, che addirittura prima dell’inizio delle operazioni militari a Gaza accusava Israele di essere <<uno “stato terrorista” che commette crimini di guerra e viola il diritto internazionale a Gaza>>. Erdogan è l’esempio della manipolazione binaria della realtà. Parlando due giorni prima della prevista visita in Germania per incontrare il cancelliere Olaf Scholz, ha affermato che la campagna militare di Israele contro il gruppo militante palestinese Hamas ha visto alcuni degli “attacchi più insidiosi della storia umana” con il sostegno “illimitato” dell’Occidente, ed ha chiesto che i leader israeliani siano processati per crimini di guerra presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia.
Secondo Erdogan, che gode del sostegno della maggioranza dei turchi che lo hanno rieletto Presidente, gli orrori perpetrati da Hamas contro migliaia di civili, le decapitazioni di neonati, gli stupri di massa, la violenza contro donne e uomini d’ogni età, l’assassinio di 1200 civili, non sono nefande attività terroriste perché, come ha sostenuto davanti al cancelliere tedesco Scholz “ secondo la Turchia Hamas non è una organizzazione terroristica ma un partito politico che ha vinto le passate elezioni”. Occorre riconoscere al Presidente Meloni un gran sangue freddo per continuare a mantenere il dialogo con Erdogan, ringraziandolo addirittura per i suoi sforzi tesi a non allargare l’area del conflitto, proprio nel giorno in cui il presidente turco si è fatto consegnare dai libici quattro killer di Hamas arrestati e detenuti da sette anni nelle carceri di Tripoli. Secondo quanto riferito da fonti locali alla Associated Press gli ex detenuti sono stati trasportati nelle prime ore del 2 dicembre con un aereo privato turco a Istanbul, in Turchia, per poi proseguire sino al Qatar, dove ha sede l’ufficio politico di Hamas.
Ankara “ha svolto un importante ruolo di mediazione per il rilascio degli otto membri di Hamas”, hanno aggiunto le stesse fonti, spiegando che “la questione e’ stata discussa dopo l’inizio della guerra” tra Israele e il gruppo islamista nella Striscia di Gaza.
L’antisemitismo non è soltanto un terribile aspetto distintivo della destra e di parte non irrilevante del mondo arabo e di nicchie che non sono ancora state scardinate in alcune religioni.
Anche la sinistra politica ha avuto rapporti complessi e negativi col giudaismo.
Raccomando volentieri la lettura di un bel volume della professoressa Alessandra Tarquini, che insegna Storia presso la Sapienza a Roma, edito dal Mulino di Bologna nel 2019, La sinistra italiana e gli ebrei, che offre una attenta ricerca sul tema spaziando anche sulla sinistra europea e mondiale.
La storia del socialismo italiano è una storia complessa per la sua composizione originaria di diverse matrici culturali, ideologiche, sociali che hanno spaziato dall’anarchismo al riformismo, dal gradualismo al massimalismo, dal libero socialismo al marxismo sino al leninismo.Fu forse , quella socialista, la più importante organizzazione di massa della fine ottocento e dei primi decenni del novecento. La professoressa Tarquini ha studiato chi sono stati gli ebrei socialisti e come erano considerati gli ebrei dai socialisti. Un dibattito, spesso non alla luce del sole, sul dilemma: gli ebrei sono degli oppressi e quindi partecipanti a pieno titolo alla conquista della nuova civiltà illuminata dal Sole dell’Avvenire, oppure gli ebrei ostacolano la realizzazione del socialismo?
Certo è che nella Italia liberale erano floride e numerose le logge massoniche dove , se non altro a dispetto di un non nascosto antisemitismo cattolico-cristiano : legato a favole storiche : Gesù non era ebreo ma palestinese, non parlava l’ebreo ma l’aramaico, era morto a causa degli ebrei perciò deicidi- a tal proposito pubblico una cartina di Israele nel primo secolo d.C. cioè riguardante l’epoca della nascita, vita e morte di Gesù, nato da genitori ebrei in Giudea, vissuto a Nazareth in Galilea, predicatore nelle terre ebraiche passando per la Samaria che era una terra popolata da siriani che nelle varie vicende storiche del regno di Israele là si erano insediate nei secoli, e ricordo che l’aramaico era la lingua ebraica “parlata” formatasi nei secoli dell’esilio babilonese e tramandasi nei tempi posteriori. La comunità ebraica italiana era molto presente nelle attività “liberali” ( avvocati, medici, docenti, notai) ed era anche partecipante di circoli massonici, dove convivevano risorgimentalisti e conservatori. Molti massoni risorgimentalisti partecipavano al movimento socialista.
La questione ebraica e la sinistra risente anche dei tempi differenti che scandirono la fine del 900 ed il secondo dopoguerra. Stranamente, a differenza di quanto è accaduto in altre parti del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti, dalla fine della Seconda guerra mondiale la questione israeliana è stata o un soggetto specialistico di studi internazionalisti o è stata connessa, al limite della identificazione, al conflitto tra Israele ed i paesi arabi.
Negli anni ’90 dell’Ottocento la sinistra era il Partito Socialista, e quindi alle vicende di questo partito ci riferiamo almeno fine alla scissione comunista del 1921 a Livorno. Quella sinistra aveva ereditato , fra l’altro, la lezione rivoluzionaria della Assemblea costituente francese del 1791 e con questa la proclamata uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla Legge, che eliminava le distinzione non soltanto del censo, ma anche quelle della fede religiosa e delle razze: Non poco sopratutto sapendo noi oggi come i nostri antenati che ben prima della Costituente rivoluzionaria l’Illuminismo si era autorevolmente espresso, ad esempio con Abbé Grégoire e con Voltaire ponendo l’accento sul pericolo che si correva nei confronti del popolo ebreo e della sua emancipazione valutando che tre quarti dei novi milioni di giudei vivevano in Europa, considerandosi un popolo che non riconosceva in quanto tale alcuno Stato e perciò legato a concezioni patriarcali di gestione del potere. Anche Carlo Marx , dopo alcuni importanti esegeti, nel 1844 si pose criticamente dinnanzi alla domanda se gli ebrei rappresentassero un popolo o una classe oppure addirittura una nazione e come si collocassero difficilmente nel progetto di emancipazione della classe operaia.Insomma nacque a metà dell’Ottocento il quadro teorico dell’antisemitismo moderno prima nella sinistra che nella destra. Nel congresso parigino della Seconda Internazionale socialista nel 1889 ( due anni prima la fondazione del Partito Socialista) gli autorevoli esponenti dei partiti e movimenti europei fecero loro, in un documento, le opinioni che Marx aveva espresso nel suo saggio “Sulla questione ebraica”. In sostanza l’antisemitismo marxista era legato alla concezione dello Stato. L’economista e filosofo non aveva simpatia per la costituzione repubblicana francese perché poco interessato al diritto dei singoli cittadini e difensore della emancipazione politica come espressione fattuale della emancipazione umana, gli ebrei come singoli o come popolo gli erano indifferenti; era invece ostile al giudaismo quando questo rappresentava il sistema capitalistico oppure quando, come altri avevano precedentemente messo in rilievo, il mondo ebraico non rispondendo a criteri di assimilazione sociale entrava a suo parere in contraddizione con il necessario abbandono del rapporto tra religione e politica per trasformare lo Stato liberale. Tutto il contrario di quanto scriveva il suo amico Moses Hess secondo cui ( cito dal libro della professoressa Tarquini) “ il giudaismo incarnava lo spirito di solidarietà umana, una religione nazionale imperniata sui valori della giustizia sociale che non distinguono tra etica privata e interesse collettivo, fra la coscienza del singolo e la legge per tutti”. È bene ricordare che già nel 1862 Hess nel suo Roma e Gerusalemme sosteneva la necessità di creare uno Stato ebraico in Palestina.
Sebbene i socialisti italiani non dimostrarono un particolare interesse al dibattito sulla questione ebraica l’Internazionale Socialista la considerò molto importante, al punto che nel Congresso di Bruxelles del 1891, nonostante il rappresentante dei sindacalisti socialisti ebrei negli Stati Uniti avesse appassionatamente illustrato la tragedia dei program che martoriavano il popolo ebreo nell’impero zarista fin Romania costringendolo alla emigrazione possibilmente in America del Nord non solo non ottenne un atto di solidarietà ma i delegati approvarono una mozione nella quale dichiaravano che i socialistici dichiaravano estranei ed equidistanti sia dal filosemitismo che dall’antisemitismo e che non sarebbero entrati in una faida interna alla borghesia. Persino il celebrato Kautsky nel suo Das Judentum sostenne che seppure l’antisemitismo fosse un archeologico oggetto del passato destinato a scomparire, le masse ebree dovevano essere aiutate sì, ma a superare la loro minorità, riconoscendo che lo stretto legame con il denaro li estraniasse dalla condizione umana esemplificando uno stato di dipendenza che perpetuava il medioevo feudale nel seno stesso del progresso dialettico dell’umanità. Tema questo ripreso nel congresso socialdemocratico tedesco del 1893. La socialdemocrazia tedesca era il partito più influente dell’Internazionale e sulla questione ebraica si espresse con chiarezza : assimilazionista e , contro le teorie di Theodor Herzl, accusato di minare l’unità del movimento operaio, antisionismo. Insomma, gli ebrei erano una anomalia.
Da questi lidi partì piano piano il dibattito sulla questione ebraica nel PSI fondato a Genova nel 1892, che ebbe la fortuna di annoverare dirigenti come Filippo turati, Enrico Ferri, Claudio Treves, Guglielmo Ferreo, scienziati come Cesare Lombroso , giuristi come Antonio Labriola che seppero distinguersi dai socialisti francesi e dai socialdemocratici tedeschi. Riporta la professoressa Tarquini una lettera di Labriola a Friedrich Engels nel quale denunciava “il volgare antisemitismo” che faceva adepti tra i socialisti e che a suo avviso coincideva con la “reazione pura e semplice”. La sua pozione trovò il sostegno dei dirigenti prima citati, ma il germe antisemita si sviluppava tra i massimalisti, Non si può qui descrivere il cambio di posizione dell’avanti sul caso Dreyfus , nei primi anni accusatorio e solo dopo l’intervento di Zola innocentista, oppure la lunga discussione sul tema nel processo di ricostruzione del PSI in esilio bel 1930 a Parigi, la posizione dei comunisti, tra le quali quella ambigua di Gramsci, che tuttavia , morto nel 1937, non poté assistere allo scempio delle leggi razziali del 1938. Il dopoguerra fu più semplice perché la identificazione della Shoà col nazifascismo rese più semplice, almeno inizialmente la scelta di campo tra antisemiti e non. Al giorno d’oggi la sinistra è ancora divisa. Basta confrontare il già citato Ripaldi e la superba intervista concessa a Repubblica da Giuliano Amato il 30 novembre o, fra gli altri che non cito solo per ragioni di spazio, i quotidiani interventi di Giuliano Ferrara.
Il legame stretto tra antisemitismo e fondamentalisti mi sembra abbastanza illustrato.E tutto il mondo ha potuto direttamente ascoltare che i fondamentalisti islamici, sciiti e sunniti, compresi i turchi, hanno svolto con fermezza una coerente politica antisraeliana, mentre i vituperati occidentali ( “biechi e vili”) hanno aumentato gli sforzi per allargare gli spazi di tregua, alleggerire il carico pesante della guerra asimmetrica che colpisce la popolazione civile. Lo scorso giovedì 30 novembre il segretario di Stato americano Antony Blinken ha esortato i leader israeliani a rispettare il diritto internazionale mentre Israele conduce la sua guerra contro Hamas a Gaza pur confermando, anzi, facendo valere il sostegno statunitense per garantire il diritto di Israele all’autodifesa, ma ha anche ribadito che è imperativo che Israele protegga i civili se inizierà importanti operazioni militari nel sud di Gaza.
Centinaia di migliaia di palestinesi hanno cercato rifugio nel sud di Gaza dopo essere fuggiti dalle loro case nella parte settentrionale del territorio. L’amministrazione americana intende dimostrare che così come non era retorica l’adesione alla risposta di Israele agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, altrettanto non retorica è la preoccupazione per il destino della popolazione civile. Così, nel suo terzo viaggio in Medio Oriente dall’inizio della guerra, il 30 novembre, il segretario di Statoha ribadito che gli Stati Uniti restano impegnati a sostenere il diritto di Israele all’autodifesa, ma ha anche detto che è imperativo che Israele protegga i civili se avvia importanti operazioni militari nel sud di Gaza.
Il bilancio delle vittime e l’entità della distruzione hanno suscitato diffuse preoccupazioni negli Stati Uniti, anche da parte dei membri del Partito Democratico del presidente Joe Biden. Il che rende ancora più evidente come le reazioni interne ad Israele siano sempre più improntate ad una forte opposizione al primo ministro Netanyahu che, nonostante il fallimento della politica di sottovalutazione della questione palestinese e di concretizzazione della politica due popoli due stati, prova ancora ad usare le ultime possibilità che gli restano presiedendo un gabinetto di guerra; vuole isolare e dividere la maggioranza degli elettori che non trova un partito ed un leader rappresentativo. Blinken ha sollecitato misure immediate per fermare i coloni estremisti responsabili della violenza contro i palestinesi in Cisgiordania” e ha affermato che conta sulla messa in pratica di quanto i funzionari israeliani hanno promesso agli Stati Uniti in più occasioni, impegnandosi a punire la violenza dei coloni israeliani, che sono parte integrante della coalizione politica che sostiene il primo ministro. Il fatto che l’ufficio stampa di Netanyahu abbia rilasciato una dichiarazione sull’incontro con Blinken che non contiene alcun riferimento alla violenza dei coloni o alla soluzione dei due Stati la dice lunga sulla volontà del primo ministro a non rispondere alle sollecitazioni del suo paese e dei suoi alleati.
Al contrario, in un messaggio registrato, Netanyahu ha osservato che i suoi colloqui col segretario di Stato erano avvenuti poco dopo un attacco rivendicato da Hamas in cui due uomini armati palestinesi avevano aperto il fuoco sui pendolari all’ingresso di Gerusalemme, uccidendo almeno tre persone. Netanyahu ha detto di aver detto a Blinken: “Questo è lo stesso Hamas che ha compiuto il terribile massacro del 7 ottobre, lo stesso Hamas che cerca di assassinarci ovunque. Gli ho detto: abbiamo giurato, e io ho giurato, di eliminare Hamas. Niente ci fermerà”. “Continueremo questa guerra finché non raggiungeremo i tre obiettivi: liberare tutti i nostri rapiti, eliminare completamente Hamas e garantire che Gaza non debba mai più affrontare una simile minaccia”, ha detto Netanyahu.
Per tutta risposta Blinken dopo averincontrato Netanyahu e il suo gabinetto di guerra a Gerusalemme e dopo essersi recato in Cisgiordania per colloqui con il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha voluto parlare a Tel Aviv con il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e il leader dell’opposizione Yair Lapid. Un chiaro segnale della crescente insofferenza statunitense, che continua a mantenere, assieme ai suoi alleati occidentali, un netto sostegno ad Israele e comprende la necessità di debellare Hamas, ma che chiede atti che indichino chiaramente la volontà, finalmente, di imboccare una strada di pace e stabilità, essenziali condizioni per impedire ai fondamentalismi di continuare a disseminare il pianeta di terribili e pericolose violenze. Anzi, secondo quanto riferito in ebraico da Channel 12 e rilanciato in inglese da Times of Israel, parlando al Consiglio di guerra israeliano, Antony Blinken ha rincarato la dose: “Non potete operare nel sud di Gaza come avete fatto a nord. Ci sono due milioni di palestinesi… dovete evacuare meno persone dalle case, essere più accurati negli attacchi, non colpire sedi Onu e assicurare che vi siano abbastanza aree protette (per i civili). E se non potete, non attaccare dove vi sono civili”, ha aggiunto.
A questo punto ha risposto il ministro della Difesa Yoav Gallant assicurando che:” seguiamo una serie di principi :proporzionalità, distinzione, le leggi di guerra. Alcune volte non abbiamo attaccato sulla base di questi principi e altre dove non abbiamo attaccato per aspettare una migliore opportunità”.
Lo stesso ministro della Difesa, Gallant, ha ripetutamente definito la lotta contro Hamas “una guerra giusta” che non finirà finché gli obiettivi di Israele non saranno raggiunti. “Combatteremo Hamas finché non prevarremo, non importa quanto tempo ci vorrà”, ha detto, confermando nei fatti che così come la sconfitta di Hamas è essenziale è importante cominciare a progettare un futuro condivisibile. Non per nulla nel suo incontro con Abbas, del quale difficilmente non ha informato almeno sui punti essenziali lo stesso Gallant e Yait Lapid- che sulla stampa israeliana viene spesso indicato come possibile candidato alla presidenza del governo- Blinkensi è concentrato sugli sforzi per aumentare la fornitura di aiuti umanitari a Gaza e ha condannato gli attacchi dei coloni ebrei contro i palestinesi in Cisgiordania. “Sbattendo le palpebre”, un modo della stampa americana di citare il segretario di Stato per un suo espressivo tic, ha detto ad Abbas che “continuerà a insistere sulla piena responsabilità di chi commette simili atti” e che “gli Stati Uniti restano impegnati a portare avanti passi tangibili per uno Stato palestinese”.
Il segretario di Stato ha sottolineato l’amarezza sua e del governo americano perché il 30 novembre “è iniziato in modo terribile e negativo con un altro attacco terroristico che ha tolto la vita a israeliani innocenti a Gerusalemme, un promemoria di ciò che Israele e ogni cittadino israeliano deve affrontare ogni giorno”. “Lo condanniamo e piangiamo anche la perdita di queste vite innocenti così come piangiamo la perdita di qualsiasi vita innocente”, ha detto, aggiungendo che, allo stesso tempo, la tregua è stata prorogata. “Vogliamo che tutti gli ostaggi tornino a casa”. “, ha detto Blinken “Cerchiamo di vedere se questo può continuare. Certamente sarebbe una buona cosa, e consentirebbe anche l’arrivo di molta più assistenza umanitaria agli abitanti di Gaza che ne hanno bisogno. Ma dipenderà da Hamas se la tregua potrà continuare”.
Infatti la tregua non è continuata, incassata la liberazione dei quattro importanti detenuti nelle carceri libiche, Hamas si tiene ben stretti i 170 ostaggi perché sa che esaurito lo scudo degli ostaggi, pur modificando il sistema di combattimento, la superiorità militare di Israele avrà il sopravvento e nello stesso tempo sa anche che tutta Israele, non soltanto Netanyahu, intende finire quella che appare oramai la più lunga guerra combattuta in quella terra. Messo in salvo i leader dell’ufficio politico in Qatar, Hamas ha tutto l’interesse a che le truppe rimaste a Gaza combattono giorno per giorno, facendo morire quanta più popolazione civile ci sia per sollevare una indignazione morale planetaria nei confronti di Sarete, degli Stati Uniti, del vituperato occidente.
Questione ben chiara agli oppositori di Netanyahu che comunque sanno che la sopravvivenza di Israele è a rischio. Il Times of Israel ha pubblicato che l’ex primo ministro Yair Lapid, nel suo incontro con Blinken, ha parlato sì del rilascio degli ostaggi e di questioni legate alla conduzione militare della guerra ma anche di ”ulteriori questioni regionali”. Non nel brevissimo periodo ma non appare lontana una soluzione che dopo la tragedia del 7 ottobre, la sconfitta militare e politica di Netanyahu, non potrà, per la stessa sopravvivenza di Israele avvenire che con la fine di Hamas. Tuttavia “un funzionario israeliano” ( definizione che normalmente è usata per indicare un funzionario del Gabinetto del Presidente, o un diplomatica o un membro dei servizi di intelligence) ha riferito al quotidiano statunitense Wall Street Journal, che lo Stato ebraico sarebbe disposto a prendere in considerazione nuove pause nella guerra a Gaza per consentire il rilascio del maggior numero possibile di ostaggi. Il funzionario ha affermato che è possibile negoziare mentre sono in corso i combattimenti, sottolineando che il precedente accordo sulla pausa è stato “reso possibile proprio grazie alla pressione dell’operazione militare israeliana sul terreno”.
Davvero si può affermare che nella nostra società atomizzata la lunga guerra, a volte arabo-israeliana, a volte israelo-palestinese, sempre “di civiltà” mi raccomando, non sia impregnata da millenarie questioni religiose?
Il tema è arduo. Chi benedisse lo Spirito per l’animo fecondo ed aperto al dialogo ed all’abbraccio non con i fratelli maggiori, ma con i fratelli credenti nel Dio unico , non dell’Antico Testamento ma della Bibbia ( pur sapendo della differenza dei libri accettati in quella ebraica e in quella cristiana) del Concilio Vaticano II, chi vide nel viaggio di Paolo VI a Gerusalemme, nella preghiera di Giovanni Paolo II in Sinagoga, nella sapiente teologia ebraico-cristiana di Benedetto XVI, una luce vivace trapassare lunghi secoli bui non si rassegna al riaffacciarsi dell’antigiudaismo. Un tema così difficile e complesso da non potersi trattare in poche righe. Così ho pensato di riprodurre integralmente una lettera “aperta” del rabbino capo di Roma, il dott Riccardo Di Segni al Cardinale Ravasi.
Nonostante l’amarezza che traspare chiaramente nel testo io scorgo tanta umanità, generosità e sincera attesa di un dialogo interreligioso sincero e proficuo.
Eccolo:
TEOLOGIA E LA VECCHIA STORIA DELL’EBRAISMO VENDICATIVO
20-11-2023 RAV RICCARDO DI SEGNI
Tra gli orrori del pogrom del 7 ottobre, filmati dagli stessi terroristi, c’è un video che mostra una ragazza rapita, stuprata e ferita, portata a Gaza ed esibita come un trofeo sotto gli sguardi compiaciuti di una folla di uomini e donne (e nel silenzio successivo di tante organizzazioni femministe per le quali evidentemente non tutti gli stupri e i femminicidi meritano uguale riprovazione). Si provi a chiedere a questa ragazza, ammesso che sia sopravvissuta, o a qualcuno dei suoi famigliari, se sia disposta a perdonare fino a settanta volte i suoi violentatori o se provi amore per i suoi nemici, che finora non sembrano aver dato alcun segno di ravvedimento. Il buon senso elementare ci dovrebbe fare astenere da certe domande.
Eppure lo spettro di queste domande, e ciò che c’è dietro, aleggia in questi giorni di preoccupazioni, per molti, e di giudizi solenni da altre parti. È il tentativo di inquadrare, spiegare, giudicare il conflitto in corso (come è già successo tante volte in passato) con le categorie teologiche. Quelle, per esser chiari, che attribuiscono all’ebraismo una natura senza amore, giustizialista e vendicativa.
È una vecchia storia, che nasce con la separazione del cristianesimo dalla radice ebraica. Ebraismo e cristianesimo hanno radici comuni e tante cose condivise, ma anche tante differenze. Nel desiderio di distaccarsi dalla matrice ebraica è stato costruito un sistema oppositorio: c’è un Dio della giustizia e della vendetta, quello del cosiddetto ’Antico Testamento’ (e già chiamare così la Bibbia ebraica è un modo ostile) e un Dio dell’amore, quello del Vangelo. Per gli ebrei c’è la legge del taglione (“occhio per occhio” ecc.) per i cristiani quella del perdono. Gli ebrei adorano un Dio cattivo, i cristiani un Dio buono. Gli ebrei sono pertanto cattivi per natura e cultura, i cristiani sono buoni.
Tutto questo è un’idea malsana, sbagliata teologicamente, condannata anche dal pensiero recente delle Chiese. Il Dio della Bibbia ebraica, come quello dei Vangeli, è sempre lo stesso e non è cambiato, è di giustizia e di amore. Chi sostiene queste contrapposizioni tra l’altro ignora l’elaborazione rabbinica su questi temi, a cominciare proprio dell’interpretazione del taglione che non è mai stato mutilazione ma sanzione pecuniaria. Tuttavia, sostenere la contrapposizione (che tecnicamente si chiama marcionismo, dal nome dell’eretico Marcione che la elaborò) è funzionale per dimostrare la propria superiorità, per insegnare il disprezzo dell’ebraismo e per trasformare la vittima, se non se la sente di perdonare o amare il suo nemico, o chiede giustizia, in un colpevole lei stessa.
È stato detto anche in trasmissioni televisive che il cristianesimo è l’unica religione in cui si comanda di amare i nemici. Forse è vero, ma di sicuro è anche vero che il precetto non è mai stato applicato da chi doveva seguirlo, se non a livello eroico di singoli, certo no dai popoli cristiani in guerra e dai loro capi spirituali. Se c’è una cosa da evitare oggi, è il meccanismo perverso di rispolverare categorie teologiche che dicono di predicare l’amore ma di fatto sono portatrici di ostilità. Si chiama marcionismo, è antigiudaismo.”
Il Rabbino Di Segni è un uomo generoso. Non amo parlare delle mie vicende private, ma farò oggi una piccola eccezione.
Anni fa fui costretto ad un non breve ricovero ospedaliero. Un pomeriggio nella camera che occupavo entrò un signore magro, sobriamente elegante, sorridente, sul capo una kippāh. Si presentò, mi chiese se la sua visita arrecava disturbo. Era il rabbino Di Segni, non ancora rabbino capo, che visitava gli ammalati e che era venuto a dedicare il suo tempo ad uno sconosciuto. Non fu una visita , come dire, di dovere, passa saluta e vai, ed ho vivida memoria dell’ l’inaspettato dono e del mio senso di gratitudine. Ecco perché parlo di generosità.
Concludo, sul tema, parlando della esauriente intervista di Elvira Serra alla senatrice Liliana Segre per il Corriere della Sera dello scorso 14 novembre.
Non ho la fortuna di conoscere personalmente la senatrice. Leggendola, in più occasioni e, naturalmente nell’intervista di cui tratterò, mi è parso di notare quella radicata forma di spiritualità che pervade i grandi laici.
La senatrice che sa cosa sia la disperazione e l’atroce profondità del male che può regnare diabolicamente nell’animo degli uomini, è portatrice di un messaggio straordinario : contro ogni forma di odio mantenere il valore della memoria rafforza la pace e la democrazia. La pace è vita, materiale non simbolica: La democrazia è rispetto dell’essere umano.
Segre autodefinendosi nella intervista “ donna libera e di pace” insegna ai giovani il valore dell’essere umano, ovviamente, ma specificatamente della donna che deve essere libera non soltanto dalla violenza ma anche dalle costrizioni socio-culturali che hanno formato una rete non sempre superabile. Questa donna, la senatrice Segre, può lasciare un segno davvero profondo quando confida pubblicamente una sua paura: un giorno non si parlerà più della Shoà.
È vero. Oggi e ieri, non in senso letterale, spiegavo ai miei figli ed ai miei nipoti il senso delle pietre d’inciampo che tragicamente sono in numero rilevante piantate sulle strade del rione romano che sovente traversiamo. Pensare che la furia omicida e violentatrice del 7 ottobre è stata accompagnata dallo sfregio delle pietre d’inciampo e di pannelli murari che ricordano perché più non si ripetano le atrocità della Shoà, rattrista e fa mal presagire effetti nefasti nell’ignoranza del passato. Forse non dovremmo delegare agli altri, alle vittime , ai parenti di chi è stato precipitato nel buio doloroso del male, il ricordo.
Forse dovremmo, ciascuno come può, non aspettare l’annuale ufficiale ricorrenza della strage delle Fosse Ardeatine per , almeno nel pensiero, rincuorare la senatrice Segre : non dimentichiamo l’antisemitismo e la continua lotta nei secoli, nei millenni del popolo ebreo per vivere, non soltanto per sopravvivere.
SEGNALIAMO