Le leggende sono racconti antichi come i miti, le favole, le fiabe e appartengono al patrimonio culturale di ogni comunità, popolo, paese del mondo. Sono una narrazione che ammanta la realtà di meraviglioso, di magico, di eroico, di prodigioso. Le loro origini lontane riconducono agli aedi, ai rapsodi greci, ai giullari, ai menestrelli, ai bardi celtici e agli scaldi vichinghi.
Le leggende e i miti del mondo greco antico, già affidate al canto dei rapsodi e degli aedi, hanno dato corpo ai poemi Iliade ed Odissea, attribuiti ad Omero, leggendario come il suo stesso racconto. Virgilio ha narrato la storia di Enea, figlio di Anchise e della dea Venere che, lasciata Troia in fiamme, dopo essere approdato nel Lazio, fu il progenitore del popolo romano.
L’epica cavalleresca medioevale, affidata ai cantastorie che giravano di corte in corte, narrava le gesta dei cavallieri medioevali, delle loro dame e dei loro amori, di tornei, di giullari e di saltimbanchi, di Carlo Magno, dei Cavalieri della tavola rotonda, del Cid Campeador…
Le favole e le fiabe, da Esopo e da Fedro a La Fontaine, fino al moderno Gianni Rodari hanno affascinato da sempre non solo i bambini.
Se ogni popolo ha sempre sentito il bisogno di raccontare imprese e storie di valorosi eroi, anche ai nostri giorni si ricordano leggende che, raccontate di fronte al camino nel buio e nel freddo delle troppo lunghe notti d’inverno, hanno enfatizzato storie di santi, di miracoli, di prodigi.
Il lago Maggiore racchiude in sé gli elementi che hanno dato corpo a storie fantasiose e al loro racconto che scivola attraverso i secoli e la sua gente, un tempo fatta di persone povere e ingenue, che affidavano a miti e leggende una visione più rosea della vita.
Le montagne, ricoperte di boschi, dove a stento penetrano i raggi del sole, evocano l’apparire improvviso dell’entità maligna: la vipera nascosta sotto il fogliame e i ricci delle castagne, l’ingannevole fungo rosso punteggiato di bianco attraente ma velenoso come la mela di Biancaneve; il cinghiale che carica spuntando dal buio del sottobosco minaccioso come il lupo di Cappuccetto rosso o come quello che vuol fare preda dei tre porcellini.
Il lago, che per definizione è un ambiente dove domina la tranquillità, il silenzio, la pace, in occasione di violenti temporali estivi, può mutare improvvisamente il suo aspetto e le acque, sconvolte dal vento, diventano estremamente minacciose e insidiose. Un antico detto popolare recita: “Per sant’Ana l’acua dal laag l’ingàna!” Il 26 del mese di luglio, festa di Sant’Anna, annovera infatti numerose morti avvenute nelle acque del lago.
Poiché queste, in autunno e in inverno, sono spesso avvolte da una nebbia sospesa, la gente semplice ha coltivato fantasie di mostri, fantasmi, prodigi, su cui si sono costruite leggende come quella delle “streghe di Sambuchetto”, che racconta di vecchiette malefiche d’altri tempi che con danze inquietanti e un rituale da brivido con corvi, diavoli ed altri animali misteriosi, rapivano i bambini nei villaggi circostanti. Chi avesse assistito ad uno di questi rituali avrebbe subìto, da lì a poco, una perdita dolorosa o un incidente mortale. Che streghe e diavoli fossero legati alle disgrazie naturali era risaputo da tutti gli abitanti del lago che giuravano anche, nelle notti invernali, di vedere il diavolo in persona danzare sulla cima delle montagne.
Le “balme”, le grotte scavate dall’acqua lungo la sponda lombarda da Arolo ad Angera, un tempo hanno stimolato vagheggiamenti sulla presenza di lupi mannari, di streghe, di fate protettrici delle valli.
Una leggenda narra che ad Angera, esattamente in quella “Tana del lupo” situata sulla strada che porta alla Rocca Borromeo, un giorno di tanti anni fa un pastore, con le sue pecore, fu improvvisamente attratto da un fascio luminoso che proveniva dall’interno della grotta. La luce era bianca, forte, con delle venature perlate che, unite alla bellezza della natura circostante, creavano un luogo fatato. Il pastore lasciò un attimo le sue pecore e si avvicinò alla grotta. La scia luminosa conduceva proprio al suo interno, dove tra graffiti di età paleocristiana ed immagini strane, proveniva anche una voce suadente che lo invitava: “Vieni, avvicinati ancora”. Il pastore, combattuto tra la paura e il fascino di quella voce suadente, guardò le sue pecore fuori dell’antro e poi rivolse lo sguardo verso il fascio di luce che diventava sempre più luminoso. Pensò che una cosa così bella non poteva essere malvagia. Ad un tratto la luce si affievolì e l’uomo intravide figure di donne belle e giovani avvolte in veli impalpabili, che lo invitavano: “Vieni da noi. Sei stato tu il prescelto! Noi siamo fate e se vieni con noi, potrai dire addio ad un mondo che non ti ha ancora offerto nulla e potrai vivere, felice, con la donna che vedi laggiù”.
Il pastore si sporse e l’immagine che vide lo lasciò senza fiato. Una donna bellissima, la più bella che avesse mai visto, era distesa su un letto di fiori, con morbidi riccioli d’oro e labbra color pesca.
Il pastore era scettico. Aveva imparato, nel mondo degli umani, che non era saggio fidarsi di tutte le parole delle donne, soprattutto di quelle più belle. “Devi decidere ora!” -continuò una fata – “Entra! Il varco sta per chiudersi! Se invece sceglierai di rimanere qui, in questa terra, ti offriremo un campanello d’oro, magico, per il tuo gregge.”
La scia luminosa si fece sempre più sottile fino a quando scomparve. Il pastore, inerme, rimase al buio nella grotta, con il campanello d’oro tra le mani. Uscì dall’antro e ritrovò le sue pecore, proprio dove le aveva lasciate e tornò a casa. Nei mesi seguenti le sue pecore crebbero, divennero le più belle del paese. Il campanello d’oro gli portava davvero fortuna. Eppure la sua mente era sempre rivolta a lei, a quella incantevole donna che aveva visto su quel letto. Forse le fate non erano così malvagie, forse davvero avrebbero cambiato la sua vita.
Gli capitava non di rado di passare davanti alla “tana del lupo” eppure era tutto così silenzioso, così spento, così umano. L’uomo ricordò la frase detta dalla fata “Ogni cento anni” e pianse. Pianse di delusione, pianse di dolore, pianse per quell’amore che avrebbe potuto vivere se non fosse stato così diffidente. Asciugandosi le lacrime, guardò il suo gregge e pensò che, senza quell’amore, nulla ormai avrebbe potuto rendere bella la sua vita. (Ugo Battagin, postata in “Cantastorie-Angera- Leggende”.)
Il monte Capio, al confine tra il Verbano e la Valsesia, è segnato dai ruscelli alimentati dalle lacrime che la solitaria “regina della neve” versò per il suo perduto amante: la donna era tra le più belle al mondo, ma conduceva una vita molto solitaria, visto che la sua dimora era circondata dalla natura più selvaggia. Un giorno un cacciatore si innamorò a tal punto di lei che decise di scalare il monte per raggiungerla. Durante la salita però l’uomo cadde accidentalmente in un dirupo e morì. La bella regina, disperata, cominciò a piangere e si racconta che le tante lacrime versate in breve tempo formarono dei ruscelli, ancora oggi visibili sia dal monte che dalle sponde del lago. Questi ruscelli evocano un’altra storia leggendaria, quella della “cascata dei dannati”. Pare che proprio qui, nelle stesse acque, due alpigiani, morti mentre cercavano di rubare delle greggi, stiano ancora vagando alla ricerca di riposo.
Una leggenda suggestiva di mostri e ninfe, che impersonificano il male contrapposto al bene sempre vincente, è nata, in tempi sconosciuti, intorno all’isolotto emergente dalle acque del lago tra l’isola Bella e l’isola Pescatori. Si tratta in realtà di un piccolo scoglio che si affaccia prepotente fra i due gioielli del golfo Borromeo. Per la sua minuscola e romantica spiaggetta, luogo ideale per chi vuole sottrarsi ad occhi indiscreti, quello che ufficialmente è lo Scoglio di Malghela viene oggi indicato come “Lo scoglio degli innamorati”.
Un tempo invece si chiamava “Scoglio delle ninfe” in base a una leggenda narrata da un anziano allo scrittore verbanese Gianfranco Lazzaro, che la riportò in una rivista locale del 1955: Nei tempi antichi le acque del Verbano erano infestate da un drago o mostro orribile, feroce e smisuratamente enorme.
Abitava nella parte più profonda del lago, verso la sponda lombarda, là dove la riva è rocciosa e dove tremolano pochi ulivi sbattuti dal vento. La bestia divorava i pescatori, assaliva le barche, rapiva le fanciulle e appuzzava con il suo fiato pestifero le poche biade coltivate sulle sponde. I pescatori, atterriti, avevano cercato di difendersi e di ucciderlo, ma non potevano nulla di fronte a quella forza bestiale. Si rivolsero quindi ad Ambra, la più bella e gentile ninfa del lago che con uno stuolo di compagne viveva nei luoghi più ameni del Verbano. Ambra, commossa dalle preghiere e dai pianti dei pescatori, armata solo della sua bellezza, andò un giorno alla grotta del mostro per tentare di ammansirlo. Ma la furia della bestia dagli enormi tentacoli che, muovendosi, fecevano ribollire le acque sino alle rive opposte del lago, era immensa, implacabile.
La ninfa che stava per essere divorata, vedendosi irrimediabilmente perduta, già rassegnata alla sua infelice sorte, avvicinandosi ancor più ai tentacoli del mostro, gli propose, con un ultimo sforzo, che se l’avesse risparmiata e si fosse rabbonito avrebbe accettato di divenire sua sposa. A questa proposta, a queste inattese parole, l’ira del mostro si placò e accolse la promessa di Ambra che ritornò fiduciosa fra le sue compagne. Ma anche se il Verbano era ormai liberato da quella furia devastatrice, i pescatori, diffidenti, non volevano tuttavia ritornare alle loro case. Dall’alto dei colli vedevano ancora il mostro affiorante sulle acque e ciò bastava perché non credessero al miracolo. A nulla valsero le parole rassicuranti della ninfa. Fu così che Ambra promise che di lì a due giorni, al tramonto, sarebbe apparsa con il mostro sullo scoglio emergente tra l’Isola Bella e quella dei Pescatori e, circondata da tutte le ninfe abitatrici del Verbano, gli avrebbe fatto pubblicamente promettere di rispettare in avvenire i pescatori e le loro fanciulle e di non appestare più con il suo fiato ammorbante i loro già scarsi raccolti.
Il giorno stabilito, alle prime ombre viola del tramonto, Ambra e il mostro apparvero sul piccolo scoglio. Seduta al fianco dell’orribile compagno, cantava armoniosamente un arcano motivo pastorale. Intorno, emergenti dalle acque, cori di ninfe accompagnavano con voce melodica il suo canto. Arrivarono anche i pescatori con le barche pavesate d’alghe e di fiori. L’immane mostro stava lì, d’innanzi a loro, umile e inerme. Ambra cantava con grazia crescente. Dai mille occhi maligni del mostro cadevano miriadi di lacrime.
Egli promise… e per tutta la notte echeggiarono sul Verbano le canzoni delle ninfe. Ambra, la più graziosa ninfa Verbanina, aveva trionfato. I pescatori erano salvi.
Da allora, a ricordo dell’inatteso avvenimento ed in onore della generosa salvatrice, i pescatori chiamarono l’isolotto “Lo scoglio delle Ninfe”. (G.Lazzaro, Numero 5 del quindicinale locale Il Gazzettino” del 1 marzo 1955).
Scollinando il monte Mottarone si raggiunge il lago d’Orta, le cui acque, confluendo nel lago Maggiore attraverso il torrente Stronetta, lo legano al bacino più grande, arricchendolo di altri scorci di paesaggio ricchi di nuove suggestioni. Questo lago, la cui perla è l’isola di San Giulio, spesso avvolta dalle fredde nebbie invernali, può essere considerato il “Lockness italiano”, perché si racconta che molti pescatori nell’antichità videro affiorare in superficie le code di draghi terrificanti.
La leggenda narra che San Giulio, predicatore e guerriero vissuto nel IV secolo dopo Cristo, volendo a tutti i costi costruire la sua centesima chiesa, raggiunse le rive del lago d’Orta e qui, affascinato dal luogo, decise di edificarla nonostante la presenza di draghi e serpenti.
Il santo, non trovando una barca, stese il proprio mantello sull’acqua e camminandovi sopra raggiunse l’isola da dove, con la sola forza della parola, scacciò i mostri infestanti. Nell’isola, che prese il suo nome, cominciò a costruire la sua centesima chiesa, nella quale fu sepolto quando morì. All’interno della basilica si trovano sculture sacre che raffigurano i mostri del lago. Una di queste, conservata in sagrestia come una reliquia, ha su di sé un osso che, in base alla leggenda o al miracolo, sarebbe appartenuto al drago. In realtà si tratta della vertebra di una balenottera portata al lago D’Orta, chissà quando e perché, da una località di mare.
I famosi Castelli di Cannero, che emergono dalle acque del lago Maggiore, di fronte all’omonimo paese, sono in realtà i ruderi di una fortificazione. La suggestione creata dal contrasto tra questi resti medioevali, silenti nel loro stato di abbandono, e ì’armonia e la serenità del paesaggio che li accoglie, ha favorito nel tempo la nascita di fantasie suggestive sulla loro storia.
Oggi i “castelli” sono quello che rimane della “Rocca Vitaliana”, edificata da Ludovico Borromeo nel 1500 sulle rovine del Castello della Malpaga, fortificazione e rifugio dei Mazzarditi, cinque fratelli che tra il 1403 ed il 1404 si impadronirono del vicino borgo di Cannobio, dando inizio a un predominio fatto di violenze e scorrerie su tutte le vicine popolazioni della Riviera. Forti della difficile situazione politica in cui versava il Ducato di Milano e della continua lotta tra Guelfi e Ghibellini, i Mazzarditi riuscirono per anni ad avere il controllo sui litorali finché non vennero definitivamente sconfitti e cacciati dall’esercito del Duca di Milano Filippo Maria Visconti.
La leggenda narra che i Mazzarditi preferirono gettare i loro forzieri colmi di tesori nelle acque profonde del lago piuttosto che consegnarli al Duca e che nelle notti di nebbia fitta ci sia un veliero fantasma che si aggira intorno agli isolotti, reclamando il bottino disperso. Inconsueti rumori richiamano lo stridore delle lame che si incrociarono durante l’assedio dell’esercito arrivato per liberare le isole dai pirati.
I lavori di ricostruzione dei castelli di Cannero, avviati ultimamente dalla famiglia Borromeo, forse spegnerà il fascino di queste fantasie leggendarie, come forse già sta accadendo per tutte le altre che abbiamo ricordato.
I giovani di oggi, quelli dello smartphone perennemente interconnesso, quelli dell’intelligenza artificiale, quelli che non si incontrano più sul muretto per guardarsi negli occhi scambiandosi il racconto di sé e del loro futuro, non sono più sensibili alle fantasie che sono passate fin qui di padre in figlio nelle lunghe serate d’inverno sul lago.
Per chi invece sa ancore farsi trascinare dal fascino della leggenda, fatta di fate, di orchi, di ninfe e di prodigi, ogni anno nel mese di ottobre può partecipare al “Festival internazionale di narrazione – Storie in tasca”, che si svolge a Besozzo, in provincia di Varese, un luogo incantato in cui tornare bambini sulle tracce del labile confine che separa la realtà e l’immaginazione.
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