IL MIO RICORDO DI MARIO PACELLI

Credo fosse l’ottobre del 1986. Sedevo in una poltroncina dando le spalle alla reception di un albergo di Castiglione della Pescaia che avrebbe ospitato per una settimana l’annuale “Corso di aggiornamento per docenti rappresentanti provinciali di Italia Nostra”. Per la prima volta partecipavo anch’io in qualità di insegnante della provincia di Novara.

Novizia un po’ spaesata, ascoltavo il vociare dei colleghi in fila per la registrazione, che si salutavano con la cordialità e lo slancio di chi si ritrova dopo un anno e ha tante cose da raccontare e da ascoltare.

Tra le voci che si sovrapponevano, fui attratta da quella che calda, pacata e autorevole, si imponeva su tutte le altre. La inseguii per una fascinazione istintiva finché notai che tutti i presenti avevano improvvisamente abbassato il loro tono di voce e in quell’improvviso silenzio risuonavano nell’aria le parole “Professore”, “Professor Pacelli”… Sì, per tutti, Mario Pacelli era “il Professore”!

Non è il caso che io ne ricordi i titoli accademici, la sua straordinaria carriera di primo dirigente del Parlamento, i suoi successi letterari in ogni campo, storico, giuridico, letterario, con sconfinamenti nel mondo del cinema, della gastronomia, della tradizione e del folklore della sua Roma di cui conosceva ogni angolo, aneddoto, leggenda, persino ogni mistero che riusciva a svelare muovendosi fra le carte nascoste negli archivi di Montecitorio… Molti dei suoi “scritti” – lui li definiva così – li abbiamo potuti apprezzare attraverso le sue innumerevoli pubblicazioni editoriali sia, in forma digitale, anche nelle pagine di questa rivista.

Ma io, ora, a distanza di un anno esatto da quando se ne è andato dopo tanta sofferenza nell’altrove misterioso, lasciandoci un vuoto incolmabile, vorrei soffermarmi sulle qualità umane del Professore di cui ho potuto far tesoro da quel lontano 1986 a Castiglione della Pescaia, fino agli ultimi giorni della sua intensa esistenza.

Negli ultimi mesi la sua voce non era più quella piena e calda di allora, che mi aveva ingannata, facendomi immaginare che quel personaggio autorevole che avevo alle spalle fosse un uomo alto, aitante, imponente… ora la sua voce si era fatta debole, roca, sussurrata, forse più in armonia con il suo aspetto, quello che mi aveva sorpreso quando lo vidi davanti a me: minuto, fragile, il viso pallido, scarno, le guance scavate…

L’autorevolezza del Professore stava tutta nella sua intelligenza e nella sua sconfinata cultura, ma anche nella sua umanità e nella sua generosità, qualità che metteva a disposizione incondizionatamente di chi avesse saputo conquistare la sua stima. Seppure da 700 chilometri di distanza e avendolo incontrato solo in pochissime occasioni, mi rende orgogliosa l’aver fatto parte del suo cerchio magico insieme a moltissimi altri suoi amici a cui era legato da un vincolo profondo, ben lontano dalle relazioni fragili, incostanti, spesso opportunistiche che caratterizzano i nostri tempi.

La nostra amicizia è nata proprio a Castiglione della Pescaia. La sera, dopo cena, il Professore era circondato dai corsisti che lo seguivano come un pifferaio magico. Davanti a un bicchiere di Chianti, ci intratteneva con le sue divertenti affabulazioni, con citazioni a memoria di Gioacchino Belli o di Shakespeare, svelandoci il segreto di qualche ricetta romana, perfino giudandoci in storie costruite attraverso la fantasia di ciascuno di noi che sembravamo tornati un po’ bambini, suoi allievi che, affascinati, ma anche divertiti, pendevano dalle sue labbra. In queste piacevoli pause serali il Professore, senza perdere la sua autorevolezza, ci faceva sentire a nostro agio, ci lasciava spazi in cui confidargli un po’ della nostra vita, delle nostre storie, dei nostri problemi.

Da quel giorno Mario, che subito mi dichiarò la sua amicizia definendomi “una bella persona”, per lui il complimento più bello e comprensivo ogni qualità, mi ha aiutato a risolvere infiniti problemi di ogni sorta con la simpatica rassicurazione: «Valè, non te sta’ a preoccupa’!» Nel giro di pochi giorni infatti mi giungeva puntuale una sua nota a mano dalla scrittura minuta e illeggibile che richiedeva una lente di ingrandimento per essere decifrata: suggerimenti, chiarimenti, consigli, anche acquisiti da suoi amici più esperti in quella data materia, riferimenti normativi…

Il nostro secondo incontro è avvenuto in occasione del mio concorso a preside l’anno successivo a Roma. Dopo la prova scritta, con la sua macchinetta rossa mi ha scorrazzato per la città per farmi godere degli angoli più suggestivi e reconditi, fino a raggiungere una locanda di Trastevere ad assaggiare fragranti fuori di zucca pastellati e fritti.

Ho potuto ricambiare l’invito, forse dieci anni dopo, in occasione di un convegno a Verbania dove era stato invitato a tenere una conferenza. Lo condussi nel ristorante, suggestivo e pittoresco, di fianco al porticciolo di Pallanza, dove nel ’56 era stata girata una scena di “Addio alle armi”; vicino anche al monumento “Cadorna” e a una tenera e mirabile scultura femminile di Paolo Troubetzkoy. Dopo qualche mese mi spedì la copia dell’inserto di un quotidiano che riportava la ricetta dei ravioli al sugo di noci che avevamo gustato insieme in un’atmosfera che sapeva di storia, di letteratura, di arte. Niente scivolava addosso all’amico Mario: tutto ciò che aveva un senso, un sapore, che conteneva un’emozione non andava mai più perduto o dimenticato…

Avido della vita, della conoscenza, dell’amicizia autentica, Mario, instancabile, ha costruito progetti per sé e per i suoi amici fino agli ultimi giorni, mentre la sua voce si faceva sempre più fioca, quasi incomprensibile.

Mi restano dentro le sue parole sussurrate con un flo di voce al telefono: «Perché continuare a vivere se si può – solo – tanto soffrire?»


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