In genere chi si è occupato di un argomento specifico o ha svolto una professione per tanti anni, non riesce a prefigurarsi mai il mondo di domani in cui l’attività che ha svolto per tutta una vita è destinata chiaramente a divenire irrilevante. Ad esempio credo che sarebbe stato un errore chiedere ad un maniscalco a fine XIX secolo, cosa sarebbe potuto cambiare con l’avvento dell’automobile. Al massimo un maniscalco particolarmente avvertito, avrebbe potuto suggerire che dei ferri di cavallo realizzati in leghe speciali, avrebbero consentito ai cavalli di camminare sull’asfalto.
Lo sforzo da compiere è quello di astrarsi da cosa si è fatto finora, da quello che stiamo facendo oggi, ma persino da quanto stiamo immaginando di fare per i prossimi anni a venire, per cercare di capire cosa resterà – nel futuro mondo digitale ed interconnesso – di quanto è stato costruito in duecento anni di storia dei mass media, in cento dalla nascita della radio e in novanta da quella della televisione. Un’impresa ardua in cui l’autore proverà a cimentarsi, contando sulla clemenza del lettore. Per compiere un tale esercizio, infatti, bisogna partire dai bisogni cui i mass media (di cui la televisione è il massimo strumento) rispondono, piu che dall’ultimo modello di “ferro di cavallo” (che –mutatis mutandis- potremmo anche identificare oggi col “nuovo metodo di compressione video col supporto dell’Intelligenza Artificiale”).
Nella società digitale e permanentemente interconnessa di domani, a cosa serviranno i media? Per capirlo, bisogna prima capire a cosa siano serviti finora. Secondo i cultori del modello di giornalismo anglosassone nato nella carta stampata e poi mutuato nella radio ed in tv, i media servono a svelare e far conoscere la verità ai cittadini.
Informare sarà ancora un valore? E per chi?
“Watchdog” della democrazia è lo slogan con cui si identifica questo modello.
Ma il mondo di domani sarà ancora democratico ? Già oggi – secondo il rapporto Democracy Index 2021[1]– piu del 50 per cento della popolazione del pianeta vive in regimi in cui la democrazia non è il sistema politico in vigore, contando sia quelli risolutamente e apertamente autoritari sia quelli in cui la democrazia è stata ridotta a finzione (le cosiddette “democrature”). E questa percentuale è in crescita costante da almeno dieci anni.
Intrattenimento ed educazione passeranno ancora per la televisione o no?
La seconda funzione indiscussa dei media è quella di intrattenere. E qui il ruolo dei media tradizionali è in profonda crisi, perché questa funzione è oggi sempre piu ricoperta da soggetti che media non sono, ma che sono semplici aggregatori di contenuti: da Youtube di Google ad Amazon prime, da Netflix all’I-tunes di Apple, per non parlare dei loro equivalenti social come TikTok o Facebook o Instagram.
Chi svolgerà le funzioni di Educazione e coesione sociale dei cittadini?
La terza funzione dei media – secondo la vulgata tradizionale – è quella di educare. Anche qui i media sono in procinto di farsi soppiantare da Internet, con wikipedia che assolve la funzione che un tempo era delle enciclopedie e della scuola o della tv dei ragazzi.
A ben guardare resta solo una funzione che è ineludibile e irrimpiazzabile, e cioè quella di creare momenti comuni condivisi propri di una nazione, di una cultura, di una tradizione.
Stiamo parlando del Festival di Sanremo in Italia, dell’Eurovision Song Contest in Europa o degli avvenimenti sportivi, come i Mondiali di calcio o le Olimpiadi. Ma anche qui – a voler guardare lontano- si avvertono le crepe.
La fruizione dei grandi eventi sportivi si sta spostando sui social media (già oggi Amazon è il primo acquirente mondiale di diritti sportivi) e lo sarà sempre di piu probabilmente in futuro. Mentre gli eventi intorno a cui si riunisce una nazione sono sempre di meno e – a parte l’Europa – sono sempre più accessibili solo dietro pagamento. Da come evolveranno questi usi, dipenderà il futuro dei media. Ma vi sono anche altri fattori esterni, di cui alcuni esterni al mondo dei media, che concorreranno pesantemente a determinarne il futuro.
La raccolta pubblicitaria esisterà ancora per i mass media?
Alcune tendenze sembrano ormai delinearsi chiaramente. La raccolta pubblicitaria – che è stato il motore trainante dell’espansione dei media nell’ultimo secolo – è arrivata al capolinea.
Le tendenze mondiali sono ormai da dieci anni al ribasso fisso ed anche gli ultimi dati lo confermano: in Italia a luglio 2022 si registrava un calo del 9 per cento della raccolta pubblicitaria della TV rispetto all’anno precedente, che già era stato un anno di crisi a causa del COVID. Calo in linea con quello subito dalla radio, ma sempre inferiore a quello dei giornali, ormai in caduta libera da anni. Ma anche i ricavi dalle vendite dirette sono in calo: le copie dei giornali della carta stampata, ma anche gli abbonamenti alle televisioni a pagamento. Da tutti questi media, le risorse si spostano inesorabilmente verso l’on-line, in tutte le sue declinazioni: motori di ricerca, piattaforme di video condivisi o servizi di streaming.
La concorrenza dello streaming si è perfino affermata nel mondo sacro dei diritti del calcio, dove in Italia per la prima volta il contratto dei diritti televisivi del campionato di calcio a partire dalla stagione 2021-2022, è primariamente distribuito via broadband da Dazn in partnership con TIM.
Le tv commerciali – in questa situazione – sono sempre più in difficoltà e reagiscono contraendo gli investimenti in nuovi programmi e nell’acquisto di nuovi diritti: unica ricetta per mantenere i margini di profitto. Ma questi tagli, inevitabilmente, provocano un abbassamento della qualità dell’offerta, accentuando l’emorragia di spettatori verso l’on-line.
Una tendenza alla concentrazione continentale è in corso e vede ridursi progressivamente il numero degli operatori mono-nazionali, in favore di gruppi multimediali globali (soprattutto americani) o anche europei, ma presenti in almeno una decina di paesi. Già oggi, in diversi paesi UE non esistono piu operatori televisivi nazionali, a parte il servizio pubblico e presto probabilmente anche l’Italia non farà piu eccezione a questa regola. Questa concentrazione, inevitabilmente, si porta dietro anche una concentrazione delle società di services, che seguono i trend e tendono a fornire la loro opera ormai sempre piu su scala continentale, a detrimento degli operatori più piccoli e mono-nazionali.
Togliamo le auto a benzina per risparmiare co2 ma passiamo alla distribuzione over the top per moltiplicare le emissioni ?
Un aspetto ancora scarsamente preso in considerazione da chi si interroga sul futuro dei media è quello dell’impatto della loro digitalizzazione sullo sviluppo sostenibile.
Un nodo che non tarderà a venire al pettine sarà quello legato alla liberta estrema di fruizione da parte dei telespettatori. Il problema del concetto di delivery dei materiali audiovisivi riassunto nel motto “anytime, anyway, anywhere”, è quello dell’enorme footprint verde che questa libertà comporta.
Come dimostrato ampiamente dallo studio della Broadcast Networks Europe (BNE) Quantitative study of the GHG emissions of delivering TV content[2], nessuno finora si è posto il problema di cosa voglia dire garantire a ognuno su qualsiasi terminale l’accesso al contenuto che vuole nel momento in cui meglio gli aggrada.
Vediamolo con un esempio concreto: nel 2018 la finale dei mondiali di calcio Francia-Croazia è stata seguita da 884,37 milioni di telespettatori via televisione e da 231,82 milioni via streaming[3].
I primi hanno usufruito di un segnale DTT, mentre i secondi hanno usato un segnale OTT via broadband. Secondo lo studio sulle GHG emissions, il consumo di energia di chi ha seguito via OTT è otto volte superiore a quello di chi ha seguito via DTT (mentre per chi ha seguito il segnale in IPTV il consumo è stato addirittura di dieci volte superiore). La stessa ratio si applica anche alle emissioni di CO2, in media 8-10 volte superiori , rispettivamente, per OTT e IPTV.
In un mondo in cui si rinuncia alle auto a combustibili fossili per ridurre l’impronta energetica globale, è immaginabile aumentare allo stesso tempo di dieci volte il consumo legato all’uso dei media ? E’ molto probabile che quando qualcuno accenderà i riflettori su questo problema (cosa che naturalmente non è nell’interesse delle grandi piattaforme Internet e quindi rischia di non avvenire subito) le varie Greta Thunberg del pianeta cominceranno anche a preoccuparsi del footprint della fruizione iper-individualizzata dei media e chiederanno di ripensare l’intero sistema della distribuzione dei contenuti.
Le frequenze resteranno alle televisioni o andranno tutte alle reti a banda larga broadband?
Una presa di coscienza che potrebbe arrivare troppo tardi, visto che un’accelerazione dei processi in corso e del passaggio al tutto digitale potrebbe arrivare già a fine 2023 in seguito alle decisioni della prossima Conferenza Mondiale dell’Union Internazionale delle Telecomunicazioni (ITU) WRC – World Radiocommunication Conference – dove si assegneranno le frequenze dello spettro radioelettrico per i prossimi anni.
A questo appuntamento si assisterà ancora una volta al pressing da parte degli operatori di telecomunicazione, che cercheranno nuovamente di strappare le frequenze usate per le trasmissioni del digitale terrestre, per riutilizzarle per l’Internet via etere. Un’operazione riuscita nelle precedenti WRC 2015 e 2012, ma stoppata inaspettatamente alla WRC 2019, dove le televisioni sono riuscite a strappare il compromesso di una moratoria che – in teoria – dovrebbe durare almeno sino al 2030. Ciò per consentire alle reti che trasportano il segnale delle trasmissioni digitali terrestri di ammortizzare gli enormi investimenti fatti appena pochi anni fa.
Ma le telcos e le piattaforme globali di Internet – affamate come sono di frequenze di trasmissione – stanno tentando di nuovo l’assalto al cielo delle frequenze, provando a rimangiarsi gli impegni sottoscritti tre anni fa. Se ciò malauguratamente dovesse avvenire, i segnali televisivi sarebbero obbligati anzitempo a trasferirsi sulle reti broadband, e cosi a competere per la velocità di trasmissione con tutti gli altri utenti della rete. Esattamente quello che è successo nella stagione calcistica 2021-2022 a Dazn, che ha costretto l’AGCOM ad intervenire, per imporre un minimo di regole di rispetto dei consumatori, in un gioco al massacro fra piattaforme “lineari” e “off-line”.
Contenuti live e contenuti Video on Demand?
Certamente una querelle di questo tipo, riproporrà all’attenzione l’altra grande sfida in corso nel mondo della distribuzione dei media: quella fra contenuti che necessitano la diretta e contenuti che possono esser fruiti in differita. Alla prima categoria appartengono (come programmi premium) i telegiornali, le breaking news, gli eventi sportivi e gli eventi di spettacolo ma anche (come programmi standard) i talk show e le dirette televisive da studio. Alla seconda categoria, appartengono tutti gli altri programmi televisivi. Sono già oggi questi ultimi – i programmi a utilità ripetuta – a passare per primi dalla televisione di flusso alla televisione su richiesta (tv on demand). I tempi e i modi in cui questo passaggio avverrà e si svilupperà avranno un impatto su tutta la filiera dell’industria audiovisiva e sulla sua digitalizzazione, oltre che sul footprint dei media. Eventi sportivi ed eventi di spettacolo dovranno di conseguenza adattarsi a queste nuove regole e nuove modalità di fruizione, se vorranno restare appetibili e continuare a mantenere le loro audience.
L’Intelligenza Artificiale che impatto avrà?
Un ruolo chiave in tutti questi processi sarà quello giocato dall’intelligenza artificiale e dagli algoritmi applicati ai media. Gli algoritmi predittivi, quelli che già oggi determinano le raccomandazioni di visione incessanti che Netflix o Disney Channel o Amazon Prime sottopongono ai loro spettatori ancor prima che il programma precedente sia finito, diventeranno la norma dell’offerta radio-televisiva. Se ciò avverrà nel rispetto delle nuove regole europee (che vietano la raccolta e l’uso di dati personali) o nell’attuale far west regolatorio sarà un aspetto di non poco conto, che potrà creare nuovi spazi per attori europei, o ne continuerà a decretare l’esclusione dallo spazio di gioco, esclusivamente occupato da grandi gruppi globali (a oggi americani, ma domani anche cinesi). Peraltro l’intelligenza artificiale conterà sempre di più anche nei processi creativi. Ad esempio nel determinare lo storytelling delle serie televisive, ma in futuro anche di tutti gli altri programmi. Ad esempio nella scrittura automatica (senza intervento dell’uomo) di notizie e reportage per le news dei giornali, della radio o perfino della televisione. Già oggi in alcuni giornali le news scritte dal computer rappresentano il 30-40 per cento dello spazio totale. Il fenomeno sta prendendo sempre più spazio anche in radio e sui siti d’informazone, per ovvi motivi di risparmio, di velocità e di (supposta) efficienza.
I mass media possono coesistere con i personal media?
Ma questa trasformazione in atto, conferma che la domanda da porsi nel lungo termine è quella di sapere se in futuro esisteranno ancora i mass media, oppure se verranno completamente sostituiti da personal media: dall’evoluzione di quelli che oggi chiamiamo “social media” ma che in realtà diventeranno veri e propri media customizzati fino alla dimensione “uno-a-uno”. Se oggi è già possibile fornire la stessa notizia, ma in versioni diverse adattate dal computer alla sensibilità di ciascun ricevente (con una lettura “da destra” o “da sinistra” a seconda delle preferenze politiche dell’interlocutore, “scientifica” o “negazionista” a seconda del carattere rel ricevente), perché domani non dovrebbe esser possibile anche “adattare” o – visto che suona meglio – “personalizzare”, le conclusioni delle fiction, dei film o dei programmi in diretta.
Manifesto per i media e l’Internet di servizio pubblico
Una domanda – quella sul futuro dei mass media – che si pongono in molti in giro per il mondo: dalle autorità cinesi ai dirigenti dei servizi pubblici ex radiotelevisivi di mezzo mondo. Un tentativo di risposta in positivo prova a darlo il Manifesto per i media e l’Internet di Servizio Pubblico[4], scritto nel 2021 dal professor Christian Fuchs e da Klaus Unterberger, e firmato da un migliaio di intellettuali di tutto il mondo, fra cui Juergen Habermas e Noam Chomsky.
La tesi sostenuta nel documento è che lo stesso ruolo svolto nel XX secolo da radio e televisione, potrebbe essere svolto nel XXI secolo dall’Internet. Ma anche qui – come accadde esattamente 100 anni fa con la radio – occorre strappare l’Internet dalle grinfie del mercato senza regole, senza cadere nella trappola dell’Internet come strumento di sorveglianza di massa.
Un cammino stretto e difficile, ma non impossibile.
Che riprenda la nozione di universalità e di democratizzazione della cultura dell’Internet delle origini – quella immaginata dai Board of Behavioral Science (BBS) degli ex hippies californiani -, abbinandola al rispetto dei diritti umani e mettendo la digitalizzazione al servizio dei cittadini, non degli Stati né dei mercanti.
Secondo gli autori del Manifesto, l’Internet di Servizio Pubblico combinerebbe la pervasività del broadcasting e dell’Open Internet (arrivare a tutti), con la persuasività della personalizzazione e della comunicazione biunivoca.
Naturalmente perché ciò avvenga sono necessarie una serie di pre-condizioni, prima fra tutte il rispetto della privacy (quindi il superamento del modello predatorio dei dati personali delle piattaforme internet), ma anche la prevenzione del controllo delle autorità statali (quindi rigetto della tentazione del modello cinese); e quindi un nuovo modello di sviluppo di Internet che sia rispettoso delle persone, delle società e che sia capace di prevenire le fake news e i discorsi di odio.
I nuovi principi guida dell’Internet di servizio pubblico di domani
Un Internet in cui il ruolo dei mediatori (giornalisti, programmisti, autori) ritorni ad essere importante, e la funzione pedagogica e di coesione sociale dei media torni ad essere centrale. Come si può evincere da una rapida lettura dei principali obiettivi evocati nel Manifesto:
Principio 4
Le piattaforme Internet del servizio pubblico sono basate e promuovono valori di rispetto, democrazia, partecipazione, dialogo civico e impegno su Internet.
Principio 5
L’Internet di servizio pubblico richiede nuovi formati, nuovi contenuti e una fertile cooperazione con i settori creativi delle nostre società.
Principio 7
L’Internet di servizio pubblico promuove valori di uguaglianza e diversità.
Principio 8
L’Internet di servizio pubblico offre opportunità per il dibattito pubblico, la partecipazione e la crescita della coesione sociale.
Principio 9
L’Internet di servizio pubblico è un motore di cambiamento nella creazione di nuovi contenuti e servizi
Principio 10
I media di servizio pubblico e l’Internet di servizio pubblico contribuiscono a una società democratica, sostenibile, rispettosa, giusta e resiliente.
Come se ne deduce dalla lettura – alle missioni evocate da Lord John Reith cento anni fa- se ne aggiungono altre rese possibili dalla bidirezionalità dei nuovi PSMI (Public Service Media over the Internet) e dall’innovazione tecnologica.
Si tratta forse di un sogno ad occhi aperti, come altri evocati in passato da Noam Chomsky e da Juergen Habermas? oppure è una strada obbligata per quell’Europa, che ha costruito un suo modello mondiale basato sui diritti umani e sulla tolleranza e sul ripudio della guerra, messo oggi a dura prova dai discorsi di odio e dalle fake news che circolano su Internet?
E se i mass media dovessero sparire con cosa li rimpiazziamo?
Certo è che le alternative oggi sul tappeto non promettono nulla di buono.
Lo scenario alla “Matrix” o se si preferisce al “Metaverso” di Mark Zuckerberg, in cui la socialità sparisce per esser totalmente virtualizzata (scuola, lavoro, divertimento e interazione sociale tutti vissuti senza muoversi da casa, seduti davanti al computer) è talmente assurdo da non poter essere immaginato come un’alternativa alla realtà di oggi se non dalla mente bacata di qualche manager della Silicon Valley.
Lo scenario cinese del “social credit score system”, in cui le libertà dei cittadini di muoversi liberamente, l’accesso al sistema scolastico e ad altri benefici sociali, sono determinati dal comportamento mostrato sui social media, per adesso sembra lontanissimo dal concetto di libertà individuali predominante nei paesi occidentali.
E’ quindi probabile che emerga prima o poi la consapevolezza che non ci sono alternative valide e toccherà rivoluzionare l’Internet di oggi per farne qualcosa di diverso. In quell’ottica, quindi, le innovazioni tecnologiche potranno tornare ad essere al servizio dei cittadini e della società, anziché servire solo a drenare profitti per pochissime compagnie private globali o ad aumentare a dismisura il controllo sociale da parte dei governi.
Resteranno comunque sempre da sciogliere i nodi di fondo sul futuro ruolo dei media.
In una società sempre piu frammentata, isolata e divisa, con sempre meno momenti di condivisione, forse la prima missione dei media dovrà esser quella di promuovere la coesione sociale anziché la frattura sociale, sostenere le decisioni condivise anziché promuovere la divisione e l’odio, favorire il dialogo e la pace anziché il rancore e giocare lo sport di addossare le colpe agli altri.
I governi riusciranno a cambiare internet prima che internet cambi i governi?
Bisognerà capire se le nostre società saranno in grado di gestire il cambiamento dei media prima che i media (nella loro variante più interattiva: i social media) cambino le nostre società.
Se saremo in grado (con l’insieme di nuove norme europee come il Digital Service Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA) in arrivo o con la Direttiva SMAV – Servizi Media Audiovisivi entrata in vigore nel 2021) di bloccare le fake news, le intrusioni nelle campagne elettorali, le campagne d’odio, la pirateria audiovisiva diffusa. Oppure se proprio grazie ai social media verranno eletti nuovi governi che faranno della divisione e della contrapposizione sociale, la loro cifra distintiva. Quanto accaduto negli Stati Uniti con Donald Trump o in Brasile con Jair Messias Bolsonaro, mostra che questo rischio è concreto e possibile.
Conclusioni?
Il futuro mondo della post televisione dipenderà anche da questo. Come nel film “Sliding doors” una serie di finestre di opportunità si apriranno su uno scenario o sul suo opposto, e sarà molto difficile guidare nel senso voluto il processo di trasformazione. Di contro però i rischi di non governare la trasformazione sono certi e conosciuti e il loro prezzo sociale rischia di essere altissimo.
Come vedete, abbiamo cominciato parlando di futuro della televisione e siamo finiti a parlare di qualcosa di assai più grande della televisione: dell’intero modello di società digitale che si apre davanti a noi. Ma pensare di limitare la discussione solo per sapere che algoritmi usare per migliorare la compressione digitale o che tipo di VPN utilizzare per la piattaforma nazionale di distribuzione dei contenuti, rischia davvero di riproporre il dilemma della lega del ferro di cavallo di cui si diceva all’inizio e di riproporre la sindrome del maniscalco da cui tutto questo ragionamento ha preso il via.
[1] https://www.eiu.com/n/campaigns/democracy-index-2021-download-success/.
[2]Ricerca dal titolo: “Quantitative study of the GHG emissions of delivering TV content » rintracciabile al link https://thelocatproject.org/wp-content/uploads/2021/11/LoCaT-Final_Report-v1.2-Annex-B.pdf.
[3] Dati FIFA ripresi dall’articolo « https://www.calcioefinanza.it/2018/12/21/laudience-di-russia-2018-oltre-35-miliardi-di-telespettatori-per-mondiali/”.
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