…unico al mondo
Tutto ciò che ci circonda nasconde spesso grandi storie dimenticate. Gli stessi gesti ripetuti infinite volte, gli oggetti che fanno parte della quotidianità perdono nell’assuefazione il loro racconto.
Un oggetto in particolare, l’ombrello, è quello che più di ogni altro si è svuotato di senso, di fascino, di attenzione.
Prima di uscire di casa diamo tutti un’occhiata al cielo e in caso di pioggia o di nuvole minacciose, allunghiamo automaticamente la mano a quel vaso dalla forma allungata, vicino all’ingresso di casa, che contiene una serie di ombrelli, almeno uno per di ogni componente della famiglia: più minuti e colorati quelli dei bambini, generalmente neri quelli dei papà; con apertura a scatto, pieghevoli e di pochi centimetri di lunghezza, meno ingombranti, quelli delle mamme. Con un gesto distratto lo gettiamo nel sedile posteriore dell’auto e ce ne dimentichiamo. L’ombrello è l’oggetto che più spesso viene abbandonato nel portaombrelli del tabaccaio, del bar, della discoteca, del cinema; è quello che, insieme a mille suoi simili, rimane ad aeternum in inutile attesa del proprietario nei depositi degli oggetti smarriti.
Nell’immaginario collettivo è rimasto ancorato a quello civettuolo e un po’ magico di “Mary Poppins”, il famoso musical che da sessant’anni entusiasma grandi e piccini, quando lo ricordiamo svolazzare danzando sui tetti di Londra insieme agli spazzacamini tutti neri di fuliggine. Così l’ombrello, come il barattolo di spinaci di Braccio di Ferro, la coperta di Linus, la scarpetta di Cenerentola, risveglia il ricordo delle favole che raccontavano le nonne e rimane dormiente solo nella fantasia.
L’ombrello invece è un oggetto ricco di senso: ha una storia antichissima, anche simbolica o addirittura religiosa, le cui origini vengono rivendicate da paesi di cultura millenaria come la Cina, il Giappone, l’India, l’Egitto…
In Cina era associato al culto dell’Imperatore, come oggetto sacro; nell’Egitto dei faraoni era consentito solo ai nobili; in Giappone proteggeva i Samurai ed oggi è un vero e proprio simbolo nazionale. Nella Grecia classica era utilizzato prevalentemente dalle donne nell’ambito del culto di Dioniso, mentre durante l’impero romano era usato come accessorio di abbigliamento vezzoso e seducente solo da quelle più ricche. Infine entrò anche nell’iconografia pontificia come oggetto di pertinenza del papa.
Il Museo dell’Ombrello e del Parasole di Gignese è nato all’inizio del Novecento per restituire a questo oggetto la sua dimensione autentica, consentendo di ricostruirne il ruolo nella crescita e nello sviluppo di una comunità.
Gignese, situata a 700 metri di altitudine sulle alture del Vergante sopra la famosa cittadina di Stresa si raggiunge percorrendo una strada tortuosa che si arrampica sulla montagna verso il Mottarone offrendo vedute mozzafiato sul lago e sulle Alpi. I piccoli borghi si susseguono con le loro stradine tortuose, il ruscello, i gerani rossi sui balconcini di ferro battuto, la chiesetta romanica con il suo campanile appuntito.
Ampie zone verdi ricordano figure di pastori riparati dai loro cappellacci di feltro scuro che con una verga sospingono il gregge lungo gli itinerari della transumanza, mentre le donne falciano l’erba per garantire scorte di fieno al bestiame o lavorano il latte di mucca e di pecora per ricavarne burro e forme di formaggio. Questi spazi si alternano a distese di boschi che nel passato hanno rappresentato un’importante risorsa economica con cui sopperire alla scarsità di prodotti agricoli, dovuta al clima e all’altitudine, che garantivano appena la sopravvivenza: poco granoturco, patate, ortaggi, qualche vite ed alberi da frutta.
Dopo il boom economico degli anni Sessanta del secolo scorso, quando il turismo d’élite si è trasformato in turismo di massa, Gignese, come tutti i paesi del lago Maggiore, si è affidata alla bellezza del paesaggio per incrementare il proprio sviluppo.
Da allora la sua fisionomia è mutata attraverso la costruzione di moderne villette, spesso seconde case per le vacanze o bed and breakfast, che hanno sostituito le case di pietra con i tetti di piode dalle linee essenziali e le piccole baite sparse qua e là. Sono sorti numerosi bar con terrazze immerse in una natura silenziosa e riposante e ristoranti che offrono una cucina ricercata abbinando i prodotti del lago a quelli della montagna. Estese aree verdi, un tempo destinate al pascolo, sono oggi campi da golf.
Da alcuni decenni il Museo dell’Ombrello e del Parasole di Gignese è diventato un’attrattiva in più per i turisti e per chi vuole approfondire la conoscenza di questo territorio.
Fondato nel 1939 dall’agronomo Igino Ambrosini, figlio e fratello di ombrellai, appassionato di storia locale e sostenuto dall’Associazione Nazionale Ombrellai, fu allestito inizialmente presso le Scuole Elementari. Dal 1976 si trova nella sua definitiva sede in un edificio su due piani all’ingresso del paese, che riproduce la sagoma di tre ombrelli aperti affiancati. Finanziato dalla regione Piemonte, dal Comune e dall’associazione Amici del Museo e con la collaborazione di molti volontari, racconta la storia e l’evoluzione delle mode che hanno influenzato lo stile dell’ombrello dall’800 a oggi.
Prima di descrivere il museo, però, è indispensabile ricordare la storia di questo oggetto di uso quotidiano diffuso in tutto il mondo.
Fino al 1700, anche nel nostro Paese, è rimasto legato unicamente alla funzione di parapioggia ed utilizzato esclusivamente dai nobili e dall’alta borghesia, portato da un servo e quindi esibito come simbolo di distinzione sociale. Per ripararsi dalla pioggia si usavano mantelli e cappucci e solo nell’Ottocento si è iniziato a diffondere l’uso dell’ombrello come parapioggia in sostituzione di questi elementi di abbigliamento. Stefano Stampa, figliastro di Alessandro Manzoni, racconta nell’opera “Alessandro Manzoni, la sua famiglia, gli amici” (Hoepli, 1885), che il grande scrittore, suo ospite a Lesa, si preoccupò di recuperare un ombrello lasciato o dimenticato nella sua casa di Milano! Questa narrazione induce a supporre che la presenza sulla sponda piemontese del lago Maggiore, nel periodo risorgimentale, di altri famosi esuli, di personalità politiche della corte sabauda e di molti personaggi della nobiltà e borghesia piemontese e lombarda abbia favorito la diffusione dell’ombrello anche presso le classi sociali meno altolocate e suggerito agli uomini del Vergante di intraprendere il mestiere dell’ombrellaio. Si può pensare che anche la nota piovosità del territorio lacustre abbia avuto un peso nella nascita a Gignese di questa innovativa attività artigianale in via di forte espansione anche negli altri Paesi europei. La sua sorprendente diffusione fu favorita anche dall’introduzione, nel 1800, di montanti metallici che subentrarono a quelli di legno o bambù eccessivamente pesanti. Iniziò inoltre a farsi strada una maggiore attenzione allo sviluppo della forma e delle finiture dell’impugnatura, talvolta impreziosita da pietre e materiali rari così da rendere l’ombrello un vero e proprio bene di lusso e status symbol.
L’ombrellino civettuolo con cui vengono ritratte in numerosi dipinti le “donne” di Claude Monet, di Goya, di Renoir, è protagonista della pittura europea di fine Ottocento. Alcuni membri dell’avanguardia futurista, all’inizio del Novecento, hanno scelto l’ombrello come supporto per applicare i risultati della loro ricerca artistica.
In quegli anni, accompagnarsi con un parasole o con un parapioggia, diventò un fenomeno di costume. I lord e i businessmen inglesi sono tuttora presenti nell’immaginario collettivo con la bombetta e l’inseparabile ombrello rigorosamente nero. Oggi, anche se viene esibito in sfilate di alta moda, la maggiorparte delle persone lo sfruttano solo per la sua funzionalità, comprandolo spesso a pochi euro.
Il Museo dell’ombrello e del parasole di Gignese propone un percorso studiato per incantare gli occhi e stupire la mente del visitatore.
Al piano terreno conserva 1000 esemplari, 200 dei quali in mostra nelle vetrine espositive. Di rara fattura e squisitamente lavorati, consentono di seguire l’evoluzione dei tipi e delle mode dai primi anni del ‘900 fino ai nostri giorni.
Gli ombrelli, di varia dimensione e fattura, hanno diverse coperture: di pizzo, di seta, di cotone e infine di fibre sintetiche. Le stecche e i fusti sono di legno, di metallo e di osso, mentre le bellissime impugnature sono intagliate nel legno o realizzate con materiali preziosi come l’avorio e l’argento, con smalti dipinti a mano o madreperla, incastonate di piccole pietre luccicanti.
Al piano superiore sono esposti documenti storici che descrivono l’uso del parasole, foto di moda e tutto quanto riguardava il commercio degli artigiani ombrellai ed anche alcuni pezzi preziosi perché appartenuti a pittori, cardinali, politici, nobildonne come il parasole della Regina Margherita, la cui famiglia era solita villeggiare nella vicina Stresa o l’ombrello di Giuseppe Mazzini, più volte ospite presso le ville sul lago delle due eroine del Risorgimento Adelaide Cairoli e Laura Solera Mantegazza.
Questa è una sezione molto significativa del museo perché ricostruisce la vita degli ombrellai itineranti di Gignese e del Vergante attraverso un excursus storico, che parte da lontano, ricco di immagini autentiche: foto dei pionieri, la collezione dei rudimentali attrezzi del mestiere come i contenitori in pelle o in legno delle antiche botteghe e quelli che li accompagnavano per le strade d’Italia e del mondo; i materiali necessari alla riparazione degli ombrelli e infine gli oggetti che facevano parte della vita di tutti i giorni. Due grandi ombrelloni dipinti illustrano con vignette la quotidianità degli ombrellai ambulanti.
Un pannello infine presenta i termini del “tarùsc”, il gergo con cui questi artigiani, i “lusciatt”, come anche i “magnan” (calderai) e i “cadregatt” (riparatori o fabbricanti di sedie), i “mulita” (gli arrotini) comunicavano tra loro per non farsi capire dagli estranei, quando si incontravano durante le loro peregrinazioni.
Conclude l’esposizione una rassegna di ombrelli prodoti da fabbriche di tutta Italia.
Alcuni maestri ombrellai, se fortunati, potevano accumulare ricchezze aprendo una bottega in Italia o all’estero, perfino negli Stati Uniti. Allora smettevano di mangiare polvere, di fare la fame. Nel loro migrare si facevano accompagnare da un garzone, scelto nella propria zona di origine.
È stato così che i genitori dei bambini di Gignese, fino a tempi non troppo lontani, il primo giorno dell’anno portavano il proprio figlio nella piazza del paese, nella speranza che qualche “lusciat” lo scegliesse per portarlo con sé nelle sue migrazioni. L’apprendistato iniziava a sette anni. Dal lusciat imparavano a portare la “barsela” sulle spalle, una cassetta a forma di faretra da cui spuntavano i “ragozz”, le stecche di ombrelli appoggiati sul fondo, sopra gli attrezzi: bastoni di legno, forbici, pinze… Giravano per strade e vicoli urlando “Om brellèe! Om brellèe!”
Imparavano ad essere taciturni e a fare una vita di sacrificio: la sera una cena all’osteria con polenta e forse anche un bicchiere di vino e poi a dormire in un riparo di fortuna. Il ritorno a casa solo a Natale.
Era questo il prezzo che pagavano i bambini di Gignese per garantirsi un futuro migliore, con un mestiere in mano che non fosse solo quello di pascolare le pecore, di ricavare dal latte qualche forma di formaggio da condividere insieme a un pezzo di pane con troppi fratelli e familiari; forse anche per “svuotare” una casupola fatta di pietre dove vivevano tutti insieme cristiani, animali, strumenti di lavoro. Questi bambini hanno pagato con una fatica superiore alle loro forze, con l’analfabetismo e con la lontananza per lunghi mesi dai propri affetti, un migliore tenore economico per la famiglia.
All’infanzia, dopo un’assoluta, atavica, generalizzata indifferenza, attraverso l’art. 3 dei Principi della Costituzione, è stato finalmente garantito, almeno formalmente, il diritto al gioco, all’istruzione, alla salute e soprattutto alla possibilità di costruire un futuro sulle proprie aspirazioni e attitudini.
Il 20 novembre di ogni anno, da trent’anni anche in Italia, si celebra la Giornata dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. La data coincide con il giorno in cui l’Assemblea dell’ONU adottò la Dichirazione dei diritti del fanciullo nel 1959 e la Convenzione dei diritti del fanciullo nel 1989.
Ma sul sito di “Save the children” oggi si legge: “In Italia, quasi un milione e quattrocentomila bambini vivono in povertà assoluta, la pandemia ha amplificato l’intreccio tra diseguaglianze e salute, dalla nascita all’adolescenza. A questo si aggiungono i tagli all’istruzione, ai servizi di prima infanzia, e molto altro con un peggioramento della situazione…” A livello mondiale, “conflitti, povertà, fame e crisi economica stanno spingendo milioni di bambine e bambini sull’orlo del baratro”.
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