A immaginarla dall’esterno sembra che la Rai sia un parco giochi nel quale scegliere il meccanismo più divertente o quello più visibile. Così la vedono tutti coloro che per qualche motivo possono ambire ad entrare nel parco, primo tra questi motivi quello politico.
Non è così: Rai è innanzitutto un organismo di servizio ai cittadini che esiste in quanto servizio, che aldilà della ripetizione non è una parola vuota di significati ma densa di impegni.
Secondariamente è un’azienda, che come tutte le altre ha un bilancio, una gestione, molte spese e alcuni ricavi.
Quello che oggi sorprende è che questa enorme impresa culturale, invasa di personale, di dirigenti, di consiglieri, di controllori non solo abbia perso del tutto la sua missione di servizio ma sia diventata la meta preferita di tutte quelle personalità che o per non avere altre occupazioni o per esprimere il loro narcisismo decidono di essere adatte a presentare una trasmissione, o a suggestionare il pubblico con la loro fisicità o a influenzare gli spettatori con tesi e analisi sociali.
I grandi vecchi della nostra televisione, indimenticati dirigenti dal pessimo carattere, nati dentro l’azienda, ne avevano assorbito lo spirito, e non la consideravano un’occasione per divertirsi o per far divertire le amiche, ma un posto di lavoro a cui rivolgersi con rispetto, pur nell’ambiente dello spettacolo di per sé tempio delle esibizioni.
Le giornaliste non erano solamente bei corpi e bei visi, ma apparivano anche coscienti di un ruolo, non come ora alla evidente ricerca di una forma attrattiva rappresentata da gambe, ammiccamenti e ritrosie; interpretano il ruolo, appena possono, dell’ideale femmineo borghese teso a piacere, ma per bene.
I programmi di stampo giornalistico, invece, sono ormai alla portata di tutte quelle signore che, tacco 12, indicano col dito l’ospite da mettere in moto e che è ormai un ospite fisso, avvezzo al suo ruolo e pronto a sopportare la padrona di casa.
E le case sono quasi tutte abitate da bellone mature, da signore rampanti, da ex politiche ridanciane che hanno deciso di farsi guardare, o da presentatori fluidi che dormirebbero in redazione se fosse possibile.
A tutti i costoro i settimanali dedicano pagine intere, descrivendoli per quello che in televisione non può emergere, mostrandoli in costume da bagno, nell’ex famiglia, con il nuovo accompagnatore, a cavallo, ovunque.
Le riprese televisive sono introspettive, diversamente dal teatro e dal cinema, entrano nello sguardo, nelle smorfie, nei pori della pelle, e non perdonano chi non ha fortuna di essere telegenico, come si diceva una volta.
Ma una volta i dirigenti sapevano intuire, conoscevano i trucchi del mestiere, ragionavano con il cuore oltre che con la politica ed affidavano il prodotto televisivo a chi poteva legittimamente entrare nelle case degli spettatori.
Così la televisione nazionale diventa sempre meno luogo di scoperta di apprendimento e sempre più una “casa del grande fratello”, creatrice di personaggi inconsistenti che la fanno decadere a rotocalco medio basso destinato solo ad anziani ed a ignoranti.
La Rai ha perso completamente i giovani, e condivide con Mediaset il pubblico anziano e provinciale, mentre avanzano altre generaliste con poco personale, pochi primattori, ma con molti spettatori specializzati. Rai ha perso, oltre alla credibilità, anche il ruolo di leader delle immagini con evidenti effetti negativi sulla pubblicità, che invece Mediaset, non limitata dal tetto, può perseguire con tutti i mezzi.
Forse oggi, dopo la scomparsa di Berlusconi, sarebbe il caso di abolire il tetto pubblicitario per la Rai e augurarsi che, anche a seguito del fallimento dei programmi, qualcuno decida di rinnovare la funzione di servizio ai cittadini e non di servizio ai favoriti della politica.
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