L’inizio delle operazioni di terra in Libano da parte di Israele comporta valutazioni complesse, per le quali non bastano neanche le immagini e le parole dei corrispondenti sul campo. Questo perché non si tratta (solo) di un allargamento della ritorsione per il 7 ottobre 2023. Ancor meno di religione, scontro di civiltà e simili stereotipi ricorrenti nella narrazione mediatica. Qui si tratta di Storia. L’esistenza dello stato israeliano ha condizionato tutta la partita geopolitica contemporanea. Soprattutto negli ultimi due anni, quando con l’invasione dell’Ucraina e le minacce nucleari di Putin, si delinea nuovamente il rischio dell’Armageddon. La via negoziale più volte intrapresa nell’area israelo-palestinese era il fulcro di tutte le speranze di pace. Rivelatasi di continuo impraticabile. Tanto più che dietro si erge l’ombra cupa dell’Iran, ormai in via di sviluppare l’arma atomica.
Teheran fa scontare l’errore degli Stati Uniti allorché abbandonarono lo scià e lasciarono che nascesse uno stato teocratico, ostile non soltanto all’Occidente bensì all’intero sviluppo moderno, e che contempla la distruzione di Israele. Sotto Reza Pahlavi, le donne potevano indossare quello che volevano, comprese le minigonne. Non erano obbligate a portare lo chador e subire il rigore fondamentalista.
Ma il perno della crisi è Israele, scaturito dall’ennesima mossa degli inglesi sulla scacchiera globale, indifferenti ai grandi rischi. Come oggi, che autorizzano bellamente l’uso di armi NATO contro il territorio russo.
L’ebreo ungherese Theodore Herzl, nativo di Budapest dopo una breve carriera forense nei tribunali di Vienna e di Salisburgo, abbandona le aule per inseguire la vocazione letteraria. Così nel 1891 fa il corrispondente della “Neue Freie Presse” viennese a Parigi, dove segue con passione il processo per spionaggio a favore della Germania subito ingiustamente dal capitano Alfred Dreyfus. Il moto di sdegno per l’accusa ed il successo in Austria dell’antisemita Karl Lueger ispirano nel 1896 a Herzl la stesura di “Der Judenstaat”, un libro-manifesto in cui rivendica la creazione di una nazione autonoma per gli ebrei in Palestina. È il principio fondativo del sionismo, da Sion, l’antico nome di Gerusalemme.
Iniziano gli insediamenti ebraici in Palestina. Gli autoctoni vendono a gruppi provenienti dall’Europa lotti di deserto secondo loro privi di valore e invece destinati a diventare oasi di coltivazioni, perfettamente irrorate dall’acqua ricavata a immense profondità nel sottosuolo. Fino al Grande Equivoco, la Dichiarazione di Balfour, il 2 novembre 1917. La prima guerra mondiale sta per concludersi con la sconfitta dei tedeschi e la distruzione dell’impero ottomano. Gli inglesi vedono l’occasione per espandere l’impero nel medio oriente, come hanno già fatto il 23 maggio dell’anno prima con l’accordo segreto Sykes-Picot che prevedeva una spartizione delle zone di influenza nell’Asia Minore, cui ha dato l’assenso anche lo zar Nicola II Romanov. Il Ministro degli Esteri britannico, Arthur Balfour, e Lord Rotschild, in qualità di principale rappresentante degli ebrei d’Inghilterra, sottoscrivono un documento nel quale il Governo di Sua Maestà afferma di vedere con favore l’insediamento in Palestina di una “national home”(dimora nazionale) del popolo giudaico. I coloni ormai stabilitisi in Terra Santa e il consesso mondiale israelita ritengono sancita la realizzazione del progetto sionista di Herzl. Non importa se di fatto venga disposto il protettorato britannico su quel territorio ridotto a una commistione di ebrei e palestinesi a macchia di leopardo.
I problemi sorgeranno dopo, al termine del secondo conflitto mondiale, quando gli insediati rivendicano l’autodeterminazione anche con la violenza. Si pensi all’attentato del King David Hotel di Gerusalemme, il 22 luglio 1946, che provocò 91 morti e 46 feriti. A perpetrarlo è l’Irgun, il famigerato gruppo paramilitare ultrasionista di cui fa parte anche Ytzhak Shamir, più tardi primo ministro di Israele due volte. E i palestinesi? Per loro la via crucis comincia il 14 maggio 1948, quando David Ben Gurion proclama la nascita unilaterale dello stato di Israele. I palestinesi la chiamano “nakba”, in arabo “cataclisma”, “catastrofe”, “disastro”. Di qui l’ascesa di Hamas, acronimo di “Ḥarakatal-Muqāwama al-Islāmiyya”, Movimento Islamico di Resistenza, che costruisce scuole, ospedali e consultori nella striscia di Gaza, conquistando le menti e i cuori di un popolo che si sente abbandonato da tutti.
Però va considerato anche il punto di vista degli israeliani. Scrive Amos Luzzatto in “Il posto degli ebrei”: «Nelle terre fra gli Urali e l’Atlantico, quelle che in tutto o in parte sono chiamate Europa, esiste una minoranza che si chiama ebraica. La sua identità è composita e non si presta a essere ridotta a una categoria elementare secondo le categorie di classificazione abituali nei paesi e nelle culture del continente. Pare tuttavia assodato che, ancora per lungo tempo, gli ebrei intendano mantenere la loro identità, a maggior ragione da quando, esistendo uno stato ebraico, essa si alimenta di una nuova produzione culturale, largamente riprodotta nelle lingue di altri popoli e di altri continenti».
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