IL PRIMO MOTO DELL’IMMOBILE

21 febbraio 2023, tardo pomeriggio, temperatura mite, Roma amabile; ci troviamo a salire i centotrentasei gradini della scalinata di Piazza di Spagna, per poi girare a sinistra e, raggiunta Villa Medici, farcene un’altra sessantina per arrivare alla saletta cinema dove, preceduta dall’esecuzione di un brano per viola del compositore Giacinto Scelsi, ci è stata offerta la proiezione del docufilm “Il primo moto dell’immobile” di Sebastiano D’Ayala sulla vita e la musica dello stesso Scelsi.

Impossibile giudicare la qualità dell’esecuzione della musica di apertura, da parte di Francesca Verga: priva (la musica stessa, non Francesca) di un filo narrativo, di una melodia, perfino di apparenti esigenze di intonazione. Cosa se ne può dire (al di fuori di una eventuale godimento esclusivamente sonoro)? O piace o non piace.

Il filmato, fatto di normali immagini, idee e parole ci è parso bello ed emozionante.

E in più il nome del suo protagonista ci fornisce l’aggancio per andare a recuperare un articoletto, direttamente collegato a lui, da noi pubblicato l’otto giugno del duemilaquindici con il titolo INVIDIA. Eccolo:

Proprio così, l’invidia è stata il primo inconfessabile sentimento che ci è salito in gola quando, giovedì, siamo approdati sulla terrazza della Fondazione Scelsi a Via San Teodoro. E non è difficile capire perché.

Quello che appare nelle foto è solo metà del panorama che si vede da lassù. A sinistra, niente di meno che il tempio di Antonino e Faustina, quello dei Dioscuri, quello di Romolo e la Basilica di Massenzio.

A destra, niente di meno che la chiesa di San Teodoro e la rupe del Palatino, con mura dirute e cipressi.

L’altra metà del panorama è dietro le nostre spalle, e comprende, sempre niente di meno che, il Campidoglio, l’Altare della Patria, e poi il Foro e la colonna di Traiano, l’arco di Settimio Severo, tetti, cupole, campanili, terrazze fiorite.

In più il sole tramonta nel quadrante giusto e così facendo illumina i monumenti di quella speciale luce dorata di Roma.

E con loro illumina il relatore Giancarlo Schiaffini, esimio compositore, trombonista e tubista, da sempre compromesso con la Musica Contemporanea.

Ci aspettava per parlarci di “Improvvisazione per scrivere, scrivere per improvvisare, improvvisare per improvvisare”. L’uomo è un paradossale (come si può dedurre dal titolo dell’incontro), garbato e interessante affabulatore. Ci ha tenuti incatenati alle sedie per due ore, certo con l’aiuto del panorama, ma anche della “sua capacità di snocciolare con semplicità tutta la sua conoscenza ed esperienza”: dichiarazione della direttrice nel presentarlo.

Ci ha offerto un bel ripasso di storia dell’improvvisazione nella musica colta occidentale: dalla pratica sei-settecentesca del basso numerato con il solista al timone di comando, poi decaduta e passata dalla totale libertà di prima all’imbalsamazione di tutto l’ottocento; alla rinascita a inizio novecento nel jazz, al definitivo riemergere, a metà del secolo, nella Contemporanea.

Da buon maestro ci ha ricordato che anche in musica puoi avere grandi idee, ma se non hai la tecnica in mano non farai certo grandi cose. Tanto meno se improvvisi.

E poi, per tornare al nostro argomento di partenza, Schiaffini ha imbracciato un euphonium (una specie di basso tuba in formato ridotto) e ci ha suonato “Maknongan” un brano di Giacinto Scelsi, il padrone di casa da tempo dipartito, a cui la fondazione è dedicata.

Il glorioso tramonto romano, sui colori del quale ci siamo già soffermati, avvolgeva il solista abbracciato al suo lucido strumento. Il quale, e non ce ne voglia l’amico Schiaffini, per sua natura (dello strumento, non di Schiaffini), e specialmente come solista (sempre lo strumento), non può che emettere, sollecitato dal soffio dell’esecutore, sonore, talvolta vellutate, magari anche melodiose pernacchie.

Tutto intorno alla terrazza, nel dorato tramonto, volteggiavano sghignazzando i gabbiani.

E’ chiaro che il verso del gabbiano non ha alcuna connotazione critica. E’ nella sua natura emettere un richiamo che alle nostre orecchie suona come uno sghignazzo. Lui, ne siamo certi, non se ne rende conto. E soprattutto è garantito che non ha alcuna competenza sull’improvvisazione nella musica contemporanea.

A fine esecuzione si è alzato l’atteso ponentino, altra pregiata esclusiva di Roma, e la fondazione Scelsi, oltre al panorama, di cui non ci stancheremmo mai di parlare, che nel frattempo si era tinto di lilla, e poi di ombre azzurre, ci ha fatto omaggio di un calice di ottimo prosecco ben gelato. Non volevamo più andarcene.

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