IL PUPO (NON) DI ZUCCHERO

Assistere ad uno spettacolo teatrale che ha come tema la morte può suscitare qualche perplessità, a volte però non è così “mortale” (perdonate il gioco di parole) come si presuppone.

L’argomento si può affrontare anche poeticamente, con leggerezza ed humor sadico strappando anche qualche risatina agli spettatori.

Ciò è accaduto recentemente in una pièce teatrale firmata Emma Dante, regista affermata, siciliana doc con radici profonde nella sua cultura, che se, da un lato, la rendono passionale e carnale, dall’altro, la condizionano suo malgrado. Lo spettacolo è stato teatrale nel senso letterale della parola, infatti esso non solo ha sublimato, come ogni forma d’arte, un’argomentazione così noir, ma ha anche esercitato la memoria portando in scena un’antica tradizione siciliana che prevede, nella ricorrenza del 2 novembre la preparazione di un “Pupo di zucchero” (da qui il titolo dello spettacolo), quale rituale familiare per riunirsi e commemorare insieme i propri defunti.

Tutto aveva funzionato secondo i canoni ma il finale è stato davvero rovinoso. Peccato!

Sul palcoscenico sono state esibite dieci sculture realizzata dall’artista Cesare Inzerillo che rappresentavano i protagonisti dell’opera tratta liberamente da “Lu cunto de li cunti” di Giovan Battista Basile. Tali sculture erano portate a spalla dagli attori e, quindi, appese ad un appendiabiti a croce con tutte le caratteristiche dei corpi in decomposizione rispettando, vagamente, la fisiognomica degli attori stessi. La morte è stata rappresentata in tanti modi a seconda dell’epoca ed ogni artista la traduce in un’icona personale per lui più significativa. In arte è permesso tutto e il contrario di tutto. Personalmente, in virtù della mia visione concettuale, ritengo che la morte non ha volto, non è umanamente rappresentabile come non lo sono il logos o qualsiasi altra divinità virtuale, ciò che ci avvicina alla sua comprensione è la paura dell’ignoto e del buio. Al di là delle opere visuali che ben conosciamo, solo per citarne alcune, come: Il Cristo Morto di Andrea Mantegna, La morte di Marat di Jacques-Louis David e, non ultimo, Il Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, vorrei comunque soffermarmi su di un’opera emblematica più delle altre e, cioè, “La Livella” di Totò.

Ogni anno essa viene riproposta dai media proprio nei giorni della commemorazione e declamata da Antonio De Curtis che, con la sua mimica, la rende ancor più convincente e compassionevole. Penso che tale opera, per quanto veritiera, sia solo un tentativo di lenire la piaga che affligge una umanità degradata. Il pensiero che siamo tutti uguali dopo la morte non solo non consola, anzi accentua le disuguaglianze sociali rivolgendosi a ceti meno abbienti indorando loro la pillola di una vita terrena povera e scarna quale pegno da pagare per la conquista di una vita sicuramente migliore nell’aldilà.
Ciò è stato ed è un compito della chiesa, che nulla sa, se non per fede, di ciò che avverrà nel dopo ma che certamente consola quelli che soffrono socialmente e li aiuta ad accettare la loro condizione.


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