I civici della Toscana sono in movimento. Per la seconda volta, nel giro di poco tempo, promuovono un evento che si muove con la logica del consolidamento territoriale, come è giusto e normale che sia. Ma i cambiamenti nazionali ed internazionali che fanno cornice inducono seriamente a far proprio lo spirito di non eludere il confronto con il quadro politico generale.
Che mai come in questi tempi è stato glocal, cioè non separatamente locale e globale, ma con locale e globale interagenti, una punta dell’uno nell’altro.

Per giunta questo momento particolare mette in mezzo la circostanza, mai stata così forte, di un’Europa che non è la stessa del 2024. Un’Europa, infatti, che per consolidare un po’ la sua fragile base identitaria scopre (e scoprirà sempre più, perché il viaggio è ancora lungo) quanto le potrebbe essere prezioso portare nel suo schema di ragionamento e di codecisione anche città e territori.
Naturalmente è un dossier completamente da ripensare e riprogettare alla luce delle crisi recenti. Lo sta prendendo a cuore il nuovo presidente dell’Anci, Gaetano Manfredi e credo che l’opinione del civismo italiano, quasi tutto vivo con le sue differenze locali, troverebbe udienza in questo per il momento non ancora dichiarato (ufficialmente) cantiere.
Eppure, in tutta Europa ci sono laboratori identitari in evoluzione. Molti, diciamolo subito, anche territoriali. Uno spazio che meriterebbe una analisi e una proposta che parta dall’Italia.
Dico qualcosa in più. Non sto parlando di identità platoniche fisse, immobili, uguali nei secoli.
Queste sono le identità di cui parlavano i leghisti (oggi – mutati geneticamente da quanto si dichiaravano nordici pseudo-celti e secessionisti quaranta anni fa – proprio oggi a congresso qui a Firenze) e di cui parlano i ministri meloniani come Lollobrigida quando raccontano l’italianità uguale a sé stessa sempre, all’infinito.
In filosofia costoro – con vago riferimento neoplatonico – si chiamano essenzialisti.
E si contrappongono a una filiera di pensatori, che vanno da Galileo a Popper, che si chiamano “costruttivisti”, per i quali l’identità, al contrario, muta, evolve, cresce confrontandosi e ibridandosi, aprendosi e scambiando, pur mantenendo controllo e senso delle proprie radici.
Questo credo che sia oggi il primo progetto culturale che deve fare il civismo che accetta la modernizzazione e che cerca in Europa la sua strada. E lo segnalo come spunto numero 1 di una riflessione progettuale che deve accompagnare il coordinamento che questa assemblea è chiamata a promuovere.
Lo spunto n. 2 che vorrei indicare è quello di fare i conti con la nuova fase di conflitto tra globale e locale, in cui il locale – siamo realisti – adesso deve cercare anche patti con la nazione. Sia chiaro: non per alimentare nazionalismo, ma al contrario per spiegare il suo moderno antinazionalismo e anti-sovranismo come anche salvezza dello spirito delle nazioni. Che non sono fortezze chiuse, ma sintesi di complessità interne che cercano risposte all’autoritarismo anti-democratico che la globalizzazione e mette in scena.
E anche qui – così viene facile indicare allora uno spunto numero 3 – c’è un patto il civismo intelligente deve tentare. Quello tra città e territori. Se non si fa questo, penso che dare la scalata al regionalismo sarebbe solo un progetto burocratico o, se volete, di potere.
Bisogna partire dal dato di fatto che le città sono gli scrigni della modernità e delle risorse (tecnologie, professioni, università, alta formazione, musei e teatri, media) e che i territori sono gli ammortizzatori ambientali e naturali che non solo garantiscono ancora il rapporto con la terra e la natura, ma anche con la qualità di vita possibile mettendo al centro di progetti salute, relativo rallentamento, prevenzione. E nel caso italiano diffusa bellezza.
Detto altrimenti le città aiutano il tema della qualità sociale. I territori il tema della qualità della vita.
Ma, attenzione, se sgovernati, potrebbero pure porre il tema opposto: quello della crisi di coesione e quello dell’isolamento e della solitudine.
E’ evidente che insieme a punti di strategia geopolitica, la riflessione orientativa – diciamo una “bussola” o un “manifesto” (di cui parla la carta di invito dell’assemblea di oggi) – deve anche spendere un po’ di analisi sul rapporto tra i civici e i partiti politici e con il sociale organizzato (spunti n. 4 e n. 5). I due fronti sono connessi:
- Di fronte ai partiti politici che si occupano solo del loro posizionamento in crescente autoreferenzialità, sono scomparse o quasi le scintille provocatorie dei tempo in cui l’agenda politica riusciva ad essere non solo scalfita ma anche modificata dalle provocazioni civili, dai temi della persona, dei diritti umani e civili, della qualità sociale. Oggi appaiono davvero sepolti i civici delle grandi cause (i Capitini, gli Olivetti, i Pannella e altri che lottavano per fare cambiare l’agenda solo politica dei partiti, introducendo vita, speranza, corpo, lavoro e altro) e arrivo a dire l’immenso forzo di presidio all’alfabetizzazione che l‘Italia ha conosciuto tra gli anni 50 e gli anni 60. Non è più il tempo del leader ideologo, ma è il tempo di un convicimento compatto della base stessa che promuove il movimento. Dirò ancora qualche parola sul rapporto con i partiti.
- Ricordando ancora che è di pari valore il rapporto con l’associazionismo sociale e valoriale che vanno largamente rigenerato, essendo molto cambiate le intersecazioni del passato e segnalando che questo associazionismo, soprattutto territoriale, è certamente sono il sale di una cultura democratica.
E questo è l’altro fronte del civismo moderno: di scegliere di rappresentare – quando esso si fa soggetto politico – una funzione collante di questa rappresentanza, di questa capacità di dare voce politica a questi mondi (che hanno oggi un atteggiamento di fiducia dei cittadini con un indice alto, contro il 6/8% di fiducia che riscuotono i partiti politici, ultimi in classifica) e che hanno nel sistema delle scuole, della salute, del bisogno, della mediazione, della cultura un’immensa potenzialità aggregativa ma assurdamente per lo più sganciata della politica.
Aggiungo ancora un punto (che diventa lo spunto n. 6) per un ipotetico nuovo manifesto civico che cerca patti nel territorio, nel quadro nazionale e nell’Europa.
Un punto che deve spingere a moderne battaglie per una parola che andava di moda mezzo secolo fa e che poi si è illanguidita. Mi riferisco al civismo relazionale degli italiani inteso come valore degli interessi comuni e generali, inteso come rispetto degli altri e dall’ambiente, inteso come etica pubblica non per moralismo ma perché è il fattore da cui dipende il “fare sistema”.
Negli anni ’70 venne a studiare questa cosa in Italia un sociologo americano, che si chiamava Robert Putnam che ci mostrò che quanto a civismo gli italiani non erano tutti uguali: in alcune regioni era alto, in altre era inesistente. I partiti hanno snobbato questa analisi. Che ha ispirato associazioni e movimenti. Ma non ha mai trovato un vero risvolto politico perché è stato manipolato da ambiti demagogici e giustizialisti, che ne hanno travisato la portata.
La crisi dei partiti nasce anche da un fatto epocale.
Il tramonto nell’occidente dell’egemonia ideologica nel guidare la politica. Con l’incremento di altri valori più pragmatici, connessi alla soluzione di problemi. Che avrebbero dovuto essere distribuiti a tutti i livelli di rappresentanza:
- il livello nazionale per fare le leggi,
- il livello regionale per creare la normativa di adattamento,
- il livello locale per fare la cose che i cittadini vedono di più, cioè, gestire i servizi.
Argomento questo che dovrebbe spingere le liste civiche a guardare con attenzione a questa dinamica pragmatica e alla necessità di non farsi intrappolare da un eccesso di riciclaggio di personale politico senza più arte né parte.
Perché pragmatismo non vuol dire perdere di vista le teorie per governare e risolvere problemi e abbandonarsi alla pura demagogia dell’annuncio.
Intendiamoci, un po’ il mondo degli ex aiuta. Troppo, diventa alla fine quello che la gente teme dal civismo: collateralismo dei partiti.
Spesso si osserva che i partiti politici – di qualunque schieramento- sopportino male lo sforzo del civismo di occuparsi anche di funzioni che siano “cornice della democrazia”. Hanno il loro giardinetto assegnato: l’ambiente, la nettezza urbana, le piste ciclabili. E finisce lì. E invece tutti i sei spunti che mi sono permesso di ricordare non rinunciano certo al pragmatismo della qualità della vita ma affrontano anche il senso valoriale della politica rispetto al cui abbandono si è formato un abnorme fenomeno di astensione elettorale e rinuncia alla partecipazione.
Lo spunto n. 7 diventa così la doppia strategia: il fare pragmatico e insieme la discussione seria per il destino collettivo.
E perché sia possibile agire sui due piani il civismo politico deve garantire lo storico nesso di pensiero&azione. Che comprende anche conservare la visione costituzionale del ruolo dei partiti, non per “cancellarli” ma per criticarli e migliorarli. Unica possibilità è quella di non farsi ridurre alle “piste ciclabili” (spunto n. 8).
Pongo questi punti che possono essere meglio approfonditi e meglio espressi per dire che c’è lavoro da fare nel locale e nella capacità di stare su temi grandi e di cornice al tempo stesso con spirito diverso, cioè distinguibile, rispetto all’offerta politica corrente che ormai segnala metà dell’elettorato che si rifiuta di comprare alcunché. Voto compreso.
Non voler stare sulle ragioni dell’astensione, non voler capire che quella astensione ha motivi di elusione ma anche motivi di disaffezione dolorosa di gente che non vede più un’offerta che corrisponde alla propria domanda, non deve indurre a riproporre un’offerta superata dagli eventi, legata al passato, povera di modernità.
Queste sono le sfide principali del civismo politico italiano progressista o riformista che dir si voglia. Che chi vi parla ha esposto da almeno quindici anni – anche in occasione di competizioni elettorali – e devo dire la verità con un ascolto occasionalmente benevolo ma alla fine distratto. E in quelle distrazioni c’erano spesso le ragioni di voler perseguire non una nuova rappresentanza sociale ma un certo opportunismo di posizionamento.
A buoni conti, stando al contesto italiano attuale, le elezioni regionali in Liguria, Emilia Romagna e Umbria, tra ottobre e novembre del 2024, hanno mostrato chiaramente sia sul fronte del centrodestra che sul fronte del centrosinistra che i “civici” possono essere largamente in partita, grazie al ruolo dei sindaci e con carattere decisivo, pur adattando ruolo e profili a contesti diversi. Mi parrebbe del tutto naturale che il tratto territoriale centrale in questo schema, cioè la Toscana, possa avere un percorso ispirato a questa strategia e penso che Giorgio del Ghingaro sia la persona e il sindaco più adatto per questo cantiere.
Bisogna trattare questa cosa con buon senso.
- Perché o si è in un contesto di forza, in cui il logoramento del quadro politico tradizionale ha posto in alcuni casi i civici in una condizione di forza e di governo effettivo della centralità territoriale (sotto una certa soglia di abitanti è piuttosto frequente). Ed è questo proprio il caso del “laboratorio Viareggio”.
- Oppure è anche necessario avere cultura politica del rammendo, dalla ricucitura. Cioè, con la capacità di ricucire lo slabbramento polemico, rissoso e inconcludente dei partiti, creando contesti ibridati e maggioranza possibili in cui essere magari risolutivi.
È chiaro che in questo secondo caso servono esponenti più esperti di politica. Le due strade di metodo potrebbero completare il decalogo degli spunti segnalandoci lo spunto n. 9 e lo spunto n. 10.
Ma nel complesso si diventa forza in campo, cioè soggetto riconosciuto, non quando si imita puntualmente stile, forma, contenuto e mentalità dei partiti politici oggi confinati nell’arringare più la loro militanza che i cittadini. Ma quando i cittadini (e l’associazionismo civile) colgono che sei dalla loro parte.
Se l’Italia tornasse ad essere contendibile (e ora la partita non è solo legata al voto in Italia ma anche alle dinamiche cogenti che partono dall’Europa che per un po’ regge un’Italia filo-ungherese ma poi mette la sua cabina di regia al servizio di maggiori garanzie di un socio fondatore come lo è l’Italia) così come un territorio fino a quello regionale può trovarsi ad essere contendibile, il valore del civismo politico organizzato salirebbe di quotazione e di importanza.
Io non mi azzardo a fare previsioni, di cui pure anche i civici di recente hanno discusso, ma colgo il punto attuale del percorso che fa il civismo politico toscano per dire che forse è venuto il momento di una riflessione strategica più meditata.
Magari contaminante altre realtà. Magari rinnovando l’ipotesi di confrontarsi con altri soggetti che altrove si stanno facendo le stesse domande.