IL SOCIALISMO DI SINISTRA

Mito sub-stalinista o investimento sull’autonomia del lavoro?

 

L’identità del “socialismo di sinistra” non è semplice né per quanto riguarda lo spazio temporale in cui fu presente né il contenuto, cioè le tematiche.

Ebbe, però, un limite che la mitizzazione-ad opera di molti e per fini diversi (e anche opposti) – non è riuscita a rimuovere. Intendo dire che il socialismo di sinistra, in primo luogo, non fu concepito dai comunisti (nella sua nascita non ebbero nessun ruolo, nella sua maturità cercarono di servirsene). In secondo luogo, quando venne fatto proprio e rimesso in circolo (proprio da Palmiro Togliatti dopo la crisi sovietica del 1956 fino a Enrico Berlinguer e Achille Occhetto), si può dire avesse cambiato natura.

Non a torto Stefano Merli rilevò che il socialismo di sinistra non aveva ancora trovato il suo storico, e neanche chi lo avesse rimosso dalla sua servitù.

Essa, alla fine, è consistita nell’azzeramento dei caratteri del lungo contenzioso, quando dai comunisti lo si è voluto chiamare “terza via”. La nuova confezione ha preso mosse e distanze dal comunismo e dalla social democrazia, ma soprattutto a quest’ultima vennero assestati fendenti di ogni  misura.

Una decina di anni prima Togliatti non aveva esitato a liquidare il socialismo di sinistra spavaldamente, come ciò è un esempio di complicità col fascismo o di “fascismo dissidente”.

Occhetto non ha ritenuto di doverlo rievocare, pensando di andare oltre una replica infelice, ma vale la pena di rileggerlo. Mi servo delle parole dello stesso Togliatti, che lo illustrò molto bene, da par suo.

Occhetto è sembrato più generoso e pregnante. Rimise, infatti, sul mercato politico il socialismo di sinistra con una proposta originale. Era   quella di unire in una casa  comune e in una sintesi superiore due pulsioni \obiettivo: le procedure e i valori  del pluralismo propri della concezione democratica del socialismo con i valori dell’ eguaglianza propri del comunismo, o, detto diversamente, le riforme che furono proprie  della cultura di governo delle socialdemocrazie con  la rivoluzione  ideata e messa a regime dal comunismo sovietico. Era l’anticipo del programma del Psiup. Finito nelle spire del burocratismo filo-sovietico e del flusso mensile dei rubli. Da Mosca a Roma.

A parte l’ovvia (per lui, ma per niente per gli alleati) considerazione che questo processo di rigenerazione doveva essere a guida, a egida comunista, l’obiezione che aveva senso muovergli era anche un’altra, e assai tagliente, cioè che il baluardo della rivoluzione, l’avvio a compimento dell’eguaglianza attribuito alla costruzione in corso in Unione sovietica, era uno scenario inventato.

Stefano Merli (che mi piace evocare per la sua tenacia e rigore analitico) lo ha bollato come un miraggio  di pura e semplice cartapesta. Come dire che l’eguaglianza (il principio per cui, insieme alla libertà, il bolscevismo aveva conquistato il consenso – giacobinamente – dei cittadini) nella Russia sovietica  non esisteva proprio.

Serge riteneva a dir poco bizzarro, se non contraddittorio e pericolosissimo, che per neutralizzare o arginare l’estensione in Europa  della  macchia delle rivoluzioni “nere” si volesse cercare appoggio\alleanza  in  una rivoluzione “rossa”. Per quanto di sinistra era, a suo avviso, altrettanto violenta e anti-democratica di quelle esecrate   di estrema destra.

Fu l’opzione per un iter (diventato assai lungo) fondato sull’unità delle sinistre in funzione antifascista a privare il socialismo di sinistra di ogni credibilità. Furono cioè la partecipazione dell’Urss alla difesa del governo repubblicano spagnolo assalito dalle truppe di Francisco Franco, e la creazione dei fronti popolari (a cominciare da quello francese) a rendere stabile, non provvisoria, la collaborazione tra socialisti e comunisti.

Mancò allora l’iniziativa e l’interesse a fare presente, ed enfatizzare, che la loro unità era da ritenersi parziale. Vale a dire limitata rigorosamente ad alcuni aspetti del programma, oltre i quali cessava di esserci qualunque convergenza tra i due partiti.

Andava sancita allora, e una volta per sempre, l’esistenza, e il carattere insuperabile, cioè strategico, della grande differenza tra chi (come i socialisti) credevano  nella costruzione del socialismo esclusivamente sulla base del consenso (e della sua possibile revoca), e chi, invece (come i comunisti) alla ricerca del consenso della maggioranza anteponevano la soluzione giacobina. Il che significava il primato della minoranza determinata, coraggiosa, e anche armata. Insieme ad essa la volontà-da non rendere esplicita affidandola a un documento pubblico- di non rinunciare, per questioni di voti, al potere conquistato.

Già negli anni Trenta, dunque, si trattava di ribadire le forti differenze (certamente non sconosciute a Nenni e a Togliatti) sul carattere di forte omologazione, fino alla convergenza, della rivoluzione fascista e nazista, da un lato, e di quella comunista dall’altro.  Il che implicava un diverso ed opposto approccio ai temi della libertà, del pluralismo, della costante verifica del consenso popolare, del rispetto della sua revocabilità ecc.

Questa è la ragione per cui i socialisti, in una situazione estremamente difficile dovuta alla necessità di estendere l’area del consenso all’anti-fascismo, non se la sentirono di fare quel che fecero gli esponenti di Giustizia e Libertà. E finirono scandalosamente per identificare come anti-fascista un regime come quello sovietico.

Molti degli esponenti del socialismo di sinistra, come emerge dal brano prima citato di Togliatti, avevano condiviso il “concetto” di dittatura proletaria  o si erano riconosciuti  in singoli aspetti di essa. L’allineamento e la subordinazione del ceto dei colti alla politica, cioè ad un potere autoritario di sinistra, aveva mosso i primi passi in un percorso che arriva fino ad oggi.

Né durante la guerra di liberazione col supporto del movimento partigiano nè nel 1945-1946 si riuscì a ricom porre a unità l’elaborazione politica di Nenni, Basso, Mo randi, Lombardi. Prevalsero reticenze, omissioni e silenzi che portarono a un duplice scacco politico e ideale.

Con le elezioni del 18 aprile 1948, il grande successo della Dc sbarrò la strada all’ascesa al potere della sinistra che si era presentata unita (e addirittura con un cappio al collo dei socialisti, cioè il patto di unità d’azione col Pci). Per il socialismo di sinistra fu una grande opportunità perduta. Ma il venir meno, fino alla disfatta, della sua riconoscibilità come forza autonoma  della sinistra inaugurò un  ripensamento.

 Dai Diari risultano i dubbi espressi da Nenni. Sia perchè essi cominciarono a fluire in superficie e sia  perché si percepisce una sorta di  un rimorso per i prezzi elevati già pagati alla scelta unitaria con i comunisti(tra cui il non avere evitato, nel 1947,la scissione di Palazzo Barberini vale a dire  la scissione  di Giuseppe Saragat e la  nascita del Psdi).

Precisa è l’annotazione di Nenni, cioè che “sotto bandiera, direzione o ispirazione comunista (apparente o reale poco importa) non si vince in Occidente. Possono Togliatti e gli altri dirigenti comunisti non prendere atto di questa situazione?”.

Con tale sentimento, la prospettiva del socialismo di sinistra di chiudere la rottura del 1921, unificare la classe operaia e portarla al potere democraticamente, dovette arrendersi alla diversa illusione (e orgogliosa presunzione) del segretario del Pci Togliatti.

Egli volle subire alacremente il ricorso al potere di  intimidazione e di influenza della soluzione militare che Stalin minacciava di avviare(e in parte aveva già iniziato)  nei paesi dell’Europa orientale.

Sugli eventi della conquista di questo grande territorio, i socialisti cedettero il passo ad un grande isolamento. Lo si può misurare quando furono costretti  ad affidare la  propria sopravvivenza ad un’azione subalterna  come il doversi accovacciare nelle  spire del sub-comunismo o del sub-stalinismo.

Non saprei datare la fine dalla politica unitaria, ma penso sia avvenuta prima del rapporto Kruscev. Certamente Rodolfo Morandi aveva marcato le distanze dal marxismo-leninismo e giunse a rivalutare la stessa tradizione riformista del socialismo.

Nenni fu costretto ad ammettere: “la sintesi che cercavamo delle due esperienze, la socialista e la comunista, non l’abbiamo trovata, e tra il 1955 e il ‘56 abbiamo battuto il muso contro le contraddizioni che credevamo di avere risolto”. (cfr. Diari)

ll punto è la presa d’atto di un grande fallimento, vale a dire che la politica unitaria non era servita ad altro che da correttivo alla politica del PCI. Fu la ragione non ultima, ma fondamentale per cui il Psi decise di affrontare il mare aperto, con una navigazione propria, tutta interna alla sua storia.

Come mai, durante il governo di centro-sinistra e negli Esecutivi guidati da Bettino Craxi e Giuliano Amato il socialismo di sinistra non ha avuto un grande ruolo?

Anche il robusto e ambizioso disegno liberal-socialista di Giuliano Amato (e di Craxi) fu un’occasione mancata. Ma la ragione dovrebbe essere ricercata nel fatto che il riformismo del centro-sinistra fu osteggiato dai comunisti e quindi non potè contare su un grande sostegno sociale, una mobilitazione di massa. In secondo luogo, perché si spezzò anche temporalmente in due tronconi.

Nel primo ebbe come riferimento i ministri Giolitti e Lombardi e prese di mira una riforma del capitalismo mediante uno schema di pianificazione.

Essendo stati portati avanti disgiuntamente e in periodi diversi, molto distanti l’uno dall’altro, finirono per perdere gran parte della loro possibile  e auspicabile efficacia.

L’esito è stato una riduzione di peso e vigore per il governo Craxi. Alla fine, esaurito l’eco avuta sulla stampa dall’importante referendum sulla scala mobile in cui il Pci venne battuto dai lavoratori  di ogni categoria, ha potuto gestire-mentre collaborava con la Dc-solo la sua sopravvivenza e rinunciare ad ogni vigorosa azione riformatrice.

Era un esito in un certo senso atteso. Norberto Bobbio aveva tempestivamente precisato che il ridotto peculio elettorale del Psi (oscillante tra il  9 e l’11%) non lo candidava neanche ad essere il classico partito medio  indispensabile ad assicurare la governabilità, sia con la Dc sia col  Pci. Come poteva Craxi illudersi di dare le carte e dirigere il gioco, dal momento che in nessuno dei due poli in cui era costretto ad operare  disponeva della maggioranza relativa necessaria?

Il ruolo del Psi è stato quello del partito che proveniva da una grande tradizione. Aveva cercato di trasformare le plebi in cittadini protagonisti, ma le sue dimensioni  erano troppo modeste per  poter essere l’epicentro di una maggioranza, con la Dc o col Pci.

L’ipotesi del socialismo alla Vittorio Foa

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Vista la fine (da ruota di scorta di Dc e Pci), mi pare sia più realistico parlare, di una reinvenzione della sinistra socialista in un terreno più suo proprio, che va oltre il conciliarismo. Il riferimento non è più a Nenni e a Morandi, ma un grande leader della Cgil che ha sempre avuto un impareggiabile sensibilità e interesse- non occasionale né superficiale-per la storia- come, Vittorio Foa.

Il carattere nuovo del capitalismo nazionale e internazionale lo inducono a ripristinare una lettura dei bisogni, delle forme di lotta e di organizzazione della politica operaia. Sono quelle del passato, addirittura meno prossimo, ossia delle origini stesse del movimento operaio.

Centrale diventa l’autonomia del lavoro, l’attenzione ai tempi e alle condizioni in cui esso  si svolgeva. In Foa è venuta maturando la coscienza che il reticolato dei poteri parlamentari, la natura e il funzionamento, cioè, le forme dei partiti di sinistra e  dello stesso sindacato dovessero essere interamente  ripensati.

In questo contesto andavano assunte come inevitabili anche le differenze, che  sarebbe corretto chiamare  vere  e proprie lotte, in seno alla stessa classe operaia.

Su questo progetto di ammodernamento radicale del socialismo finisce per trasparire una proposta originale, cioè  il socialismo  deve essere  una costruzione molecolare, interna al lavoro quotidiano, alla fatica, alle molte form e di sfruttamento dei lavoratori. Non nasce in parlamento e non può essere fornita  né dalle istituzioni dello Stato  né dalle formazioni politiche.

Siamo in presenza di una svolta radicale, a tutto campo, di un esponente socialista, che ha sempre considerato l’approssimazione al governo del Psi quasi un’avventura, un passaggio  rischioso, possibilmente da evitare.

In questo secondo aspetto egli colloca  il delinearsi di una seria crisi e politica economica quando le rivendicazioni e le lotte non sono facilmente assorbibili o trasferibili da parte dei capitalisti sui prezzi o sulla intensità del lavoro.

Esclude che il terreno su cui la risposta va data non sia  quella dei paesi del patto di Varsavia nè del castrismo. C’è, invece, il recupero della centralità dell’Europa occidentale, dove il capitalismo si era internazionalizzato, governi, mercati e finanza concertavano le proprie azioni, scaricando le  contraddizioni sulla classe operaia.

Con le elezioni politiche del 1972  e il quarto congresso nazionale del Psiup (tenutosi a Roma dal 18 al 21 luglio 1972),  Foa non solo evita di aderire al Pci(anche perché lo vede impegnato nel “compromesso storico”), ma proclama  la sfiducia crescente nella capacità degli istituti della democrazia parlamentare di poter  garantire e difendere gli interessi della classe operaia.

Dopo la fine del comunismo e la crisi della social democrazia, l’unico socialismo possibile gli appare  quello libertario.

Secondo Foa, è da una visione semplificata rispetto alla realtà che il socialismo nella sua dottrina prevalente e più matura avrebbe  tratto l’idea di un processo ineluttabile. In grazia del quale  la sostituzione del lavoro artigiano (urbano o rurale) avrebbe portato a uno scontro finale fra le classi e quindi alla fine della divisione sociale del lavoro fra le classi.

Affondano qui le radici della resistenza intelligente, non chiusa e settaria, all’estremismo (anche dei Quaderni rossi da lui allevati, se non legittimati). Forse era tornata la consapevolezza che il capitalismo confermava la sua caducità(cioè il suo carattere storicamente determinato). Ma essa, come insinuò con qualche sarcasmo Giorgio Ruffolo, era  misurabile   su una scala temporale di  diversi secoli ancora.

Il nuovo, originale approccio di Foa trova un riferimento indiretto, ma assai significativo nell’elaborazione di Gianni Bosio. In lui dopo il 1956 e la crisi della centralità dello Stato-guida sovietico non ci furono le inquietudini di Rodolfo Morandi e del morandismo fino a Raniero Panzieri.

Bosio ebbe il coraggio di andare oltre lo Stato e il partito, oltre Lenin e  il leninismo. Addirittura si inerpicò su un sentiero addirittura precedente  a Lenin. Non  cercò mediazioni o conciliazioni tra comunismo e social democrazia. La via adeguata, se non giusta, viene individuata nella tradizione del movimento operaio prefascista e quindi nella democrazia di base.

Qui siamo lontani sia dal consiliarismo sia dall’operaismo e più prossimi, invece, al socialismo utopista  pre-marxista.

Esso trovò una ripresa nelle ricerche sulle culture delle classi subalterne  che negli anni Sessanta furono al centro delle attività di Bosio sul Nuovo Canzoniere Italiano e dell’Istituto Ernesto De Martino.