IL TRADIMENTO DELL’OCCIDENTE

Franco Raimondo Barbabella

Stiamo assistendo, vivendolo malamente, ad uno di quei mutamenti radicali della storia del mondo che è difficile capire in profondità perché, assillati e spiazzati da quel che accade ogni giorno (vedi lo scontro in diretta Trump-Zelensky), manca il necessario distacco, ma che presenta tuttavia alcuni aspetti essenziali che ne rendono riconoscibile la direzione. Si tratta di un complesso di idee, fatti e comportamenti di decisori, che possiamo definire come tradimento dell’Occidente, genitivo insieme oggettivo e soggettivo nel senso che l’Occidente è nello stesso tempo oggetto e soggetto del tradimento.

L’Occidente tradisce sé stesso non perché ogni soggetto persegue i propri legittimi interessi né perché di fronte alle aggressioni dei potentati illiberali mette in mostra le sue radicali divergenze, ma perché tende a mutare in profondità i suoi connotati distintivi fino a rinnegarli. Non è più una minaccia e un pericolo, è un’azione in atto. Un’azione sul piano culturale che, coltivata a lungo in Europa, è poi passata dall’Europa agli USA ed ha influenzato pesantemente le classi dirigenti e il clima politico. Un’azione sul piano prettamente politico che, dentro e fuori dall’Europa, impedisce un percorso verso quel livello di unità che la trasforma l’Europa in vero soggetto politico.

Va rilevato anzitutto un fatto davvero straordinario. L’Occidente, l’area del mondo in cui nel corso di quasi tre millenni si è realizzata quella forma di civiltà che chiamiamo appunto occidentale, ha impiegato più di duemilacinquecento anni a raggiungere il massimo sviluppo delle sue potenzialità di produzione e insieme di liberazione umana così da potersi porre come modello per gli altri, ed ha impiegato poi appena due secoli per uno scivolamento progressivo verso il rinnegamento di sé e per giungere ora al più clamoroso tradimento dei suoi stessi fondamenti.

L’origine è infatti nella Grecia classica con l’abbandono del mito e la nascita del pensiero razionale; il culmine evolutivo sono la rivoluzione scientifica, l’illuminismo, le rivoluzioni liberali e le società democratiche dell’età moderna; il rovesciamento è l’abbandono dell’universalismo e il rifugio nelle culture identitarie tra Novecento e il nostro secolo; il tradimento è quello che avviene sotto i nostri occhi: populismo e sovranismo al servizio di oligarchie che svuotano la democrazia e politiche di potenza che distruggono quanto di umano ancora resta dopo i lunghi processi di disumanizzazione che non si sono certo esauriti con il Novecento.

Il centro del tradimento è nel cuore stesso dell’Occidente. Da qui le domande che urgono: Ne potremo uscire? Possiamo solo attendere lo sviluppo e l’esaurimento di questo ciclo storico o c’è possibilità di intervento e riscatto? Difficile dire, ma la necessità di un ragionamento non impulsivo sta tutta qui. Intanto per questo è utile mettere a fuoco i termini del problema.

Immanuel Kant (siamo al culmine del pensiero illuminista) nel 1784 (“Idee per una storia universale in prospettiva cosmopolitica”) aveva scritto: “Questo dà speranza che dopo alcune rivoluzioni trasformative finalmente un giorno si attuerà ciò che la natura ha per intento supremo, una condizione universale cosmopolitica [weltbürgerlicher Zustand], come il grembo in cui saranno sviluppate tutte le disposizioni originarie del genere umano”. Con questa impostazione, che ha la sua base teorica nella Critica del giudizio, nel 1795 scrive poi il Progetto per una pace perpetua, un’opera piccola ma di grande significato, un trattato di diritto internazionale frutto di un ottimismo tutt’altro che ingenuo in quanto basato sull’idea di una natura che cospira per il bene dell’uomo purché l’uomo ne prenda coscienza e ne colga le possibilità.

Edmund Husserl, un altro grande filosofo di area tedesca, dopo un secolo e mezzo, in un discorso controcorrente tenuto a Praga nel 1935 (“La filosofia nella crisi dell’umanità europea”) dice: “Come si caratterizza la forma spirituale dell’Europa? Non geograficamente, non dal punto di vista della carta geografica… L’Europa non è più un aggregato di nazioni contigue che si influenzano a vicenda attraverso il commercio e le lotte egemoniche, bensì: uno spirito nuovo […], lo spirito della libera critica e della libera normatività, uno spirito impegnato in un compito infinito, che permea tutta l’umanità e crea nuovi e infiniti ideali! Ideali per i singoli uomini, nelle loro nazioni, e ideali per le nazioni stesse…”. L’Europa dunque come “spirito della libera critica e della libera normatività, uno spirito impegnato in un compito infinito che permea tutta l’umanità”. Lo ripeterà Mila Kundera una cinquantina di anni dopo. Una concezione di un valore ineguagliabile. Una modalità di pensiero di fronte alla quale quelle di oggi svaniscono per forma e spessore.

Un’aspirazione, solo un’aspirazione anche questa di Husserl, come quella di Kant, ma di una straordinaria forza prospettica. Intellettuali sognatori? Filosofia dell’ingenuità? No, espressioni alte della razionalità critica occidentale, il culmine del pensiero critico moderno, l’esaltazione della natura universalistica dei principi e dei valori della civiltà occidentale e della sua missione civilizzatrice. Significa che qui sono nate e da qui si sono infatti diffuse le idee liberali e democratiche, i diritti inalienabili di ogni individuo, la divisione dei poteri, lo stato di diritto, insomma ciò che ha distinto l’Europa e l’Occidente in termini distintivi di civiltà.

E allora si può vedere bene quale straordinaria distanza sia stata ormai stabilita tra questi livelli del pensiero europeo e delle sue traduzioni politico-istituzionali, per loro essenza occidentali, e da una parte il rinsecchimento del pensiero attualmente dominante e dall’altra l’impaccio connesso a miopia dell’inazione europea e nel contempo il decisionismo demolitore dell’azione politica di Donald Trump e dei suoi oligarchi del tecnopotere.

Da qualunque lato lo si prenda, il caos del mondo, esemplificato emblematicamente da una parte dalla tragedia del 7 ottobre e dalla conseguente guerra di Gaza e dall’altra dall’aggressione putiniana dell’Ucraina e dal modo in cui quello che eravamo abituai a chiamare Occidente pensa e lavora (o non pensa e non lavora) per la sua fine, è un allontanamento dai livelli alti della civiltà che l’Occidente, pur con le sue contraddizioni e tragedie, ha comunque prodotto. Un allontanamento però di cui l’Occidente porta la primaria responsabilità, e che come tale si configura, va decisamente ripetuto, come un vero tradimento del suo stesso pensiero e della sua stessa storia.

Come dice Bari Weiss (Against the Vandals, Londra 18 febbraio, ora in “The Free Press”) i nuovi vandali, i distruttori della nostra civiltà liberale, si trovano piazzati sia a destra che a sinistra, per usare termini desueti ma ancora utili per velocità di comunicazione. Perciò è evidente che non ci si deve meravigliare se gli stalinisti di ieri li ritroviamo oggi schierati fieramente con Hamas né se, apparentemente separati ma in realtà mischiati gli uni con gli altri, troviamo i populisti di ogni provenienza impegnati, in modo subdolo o esplicito, a sostegno insieme di Putin e di Trump.

Entrambi costoro, infatti, appaiono condividere gli stessi obiettivi essenziali: 1. liberarsi degli impacci della democrazia (l’uno non aveva bisogno di grandi sforzi per farlo, aveva il terreno pronto e bastava far fuori i pochi veri oppositori e irregimentare meglio il sistema; l’altro doveva forzare senza scrupoli il sistema, e lo ha fatto con successo, sia per abilità personale di demagogo che sa interpretare e solleticare bisogni reali diffusi e a quanto pare per aiuti esterni consistenti, sia per sbandamenti culturali del mondo democratico e per limiti politici dei gruppi dirigenti di questo partito); 2. impedire ad ogni costo la trasformazione dell’Europa da unione intergovernativa di nazioni sovrane in Europa nazione, soggetto politico forte in quanto unito, capace di politiche economiche e strategiche sul piano globale e quindi di competere e/o arginare ed equilibrare.

Putin probabilmente teme più l’Europa unita che la NATO (falsissima la narrazione dell’invasione come reazione all’espansionismo NATO), perché un’Europa che funzioni politicamente e sia organizzata come potenza autonoma, con strategia economica, politica estera dotata di visione e di adeguati strumenti di deterrenza, sarebbe pericolosamente attrattiva sul piano culturale, civile e politico, e soprattutto sarebbe capace di impedire l’ulteriore sviluppo del suo disegno imperiale che, partito una ventina d’anni fa, è diventato progetto scoperto prima con l’occupazione della Crimea e poi brutalmente con l’aggressione all’Ucraina, vista l’inerzia dell’Europa e dell’Occidente.

Trump asseconda Putin senza scrupolo alcuno non perché sia bullo, ignorante e prepotente (magari lo è, come ha dimostrato da ultimo con Zelensky, però questa roba va bene per i social, il cui servizio sociale più prezioso è tenere occupati i troppi stormi di nullafacenti tuttopensanti), ma perché la sua scelta politica di fondo è un nazionalismo imperiale fondato sul dominio tecnologico, che porta gli USA in diretta competizione con la Cina, l’unica potenza tecnologica globale che può impensierire i tecnocrati americani prima che arrivi anche l’India.

Per questo all’America di Trump conviene abbandonare l’Europa a sé stessa e lasciare a Putin libertà di movimento verso l’Europa sacrificando ora l’Ucraina e lasciando agli europei il compito di decidere del loro domani. In verità sarebbe questa per l’Europa, se lo si volesse, una grande occasione regalatale dalla storia, essendo noto che la politica e le istituzioni europee hanno fatto passi avanti quando si sono create situazioni di costrizione.

Ma gli europei saranno davvero capaci di decidere del loro domani? Saranno capaci di cogliere al balzo l’occasione della storia? Segnali rassicuranti finora se ne sono visti pochi, ché semmai ce ne sono non pochi di senso opposto. Non parliamo, per carità di patria europea e nazionale, del putinismo ormai attempato e del trumpismo più o meno recente che vi si congiunge in un modo sempre più spudorato e demenziale. Né parliamo di un mondo intellettuale che dà l’impressione di non capire che cosa sta succedendo nel mondo reale, si attarda in discorsi sulle democrazie liberali e sull’Europa senza capo né coda preferendo esaltare le presunte virtù dei regimi illiberali (ultimo caso quello di Carlo Rovelli sulla Cina), falsandone necessariamente, consapevoli o no, le reali condizioni e riducendosi a corifei di un ormai collaudato sistema di disinformazione che farebbe impallidire la disinformazia sovietica.

Parliamo invece delle classi dirigenti istituzionali. Non è vero che tutto è fermo, la preoccupazione cresce, alcuni leader cercano di arginare la rottamazione trumpiana prima che diventi prassi normalizzata. Ma Trump dà schiaffi in faccia all’Europa, produce una frattura storica con ciò che l’Europa ha rappresentato nella storia del mondo e della stessa America in perfetta sintonia con l’aggressione culturale, politica e, attraverso l’Ucraina, anche militare della Russia di Putin. A questo bisognava perciò dire un secco no da subito, non appena le mosse di Trump si sono manifestate per quello che sono realmente e che vogliono palesemente significare: l’America fa l’America e l’Europa faccia l’Europa.

Non lo si è fatto, perché non c’è l’Europa come soggetto politico unitario, anzi qua e là è serpeggiata più che una tentazione di più di un soggetto istituzionale di accomodarsi negli omaggi al vincitore e in trattative privilegiate, cosicché c’è il rischio che alla fine, nel drammatico scontro in atto,  prevalgano posizioni di incertezza e di compromesso al ribasso, che avrebbero l’effetto di rafforzare l’asse Trump-Putin non solo sulla testa dell’Ucraina ma dell’intera Europa, e tanti saluti alla tanto proclamata pace giusta e al rispetto del diritto internazionale.

Ora però c’è il coraggioso no di Zelensky, quello di Davide di fronte a Golia. Un no di un presidente che difende il suo popolo, come è suo dovere, di fronte alle pretese di dover accettare condizioni di pace non solo di tipo coloniale ma senza garanzie per il futuro. Non lo si può né ignorare né passare in cavalleria. E così l’Europa reagisce e con le dichiarazioni della presidente della Commissione e di alcuni importanti leader si schiera a fianco di Zelensky. Di giorno in giorno e di ora in ora ne vedremo gli sviluppi. Qui c’è l’appuntamento con la storia e sappiamo che questi appuntamenti non capitano mai due volte. Perciò la prova è per tutti, per l’UE come per le singole nazioni che la compongono, per i partiti e per le opinioni pubbliche.

Per il momento il dato certo è che l’Occidente non solo non è più un’area unitaria di civiltà per le sue coordinate fondamentali, ma sta tradendo sé stesso perché nega le ragioni della sua stessa storia. Gli USA, democrazia di coloni inglesi staccatisi dalla madre patria in nome dei principi di libertà che da lì erano venuti, oggi si sono incamminati sul sentiero della negazione di quegli stessi principi. Vedremo il prezzo che ne pagheranno. Ma gli europei non possono seguirli. Gli europei sono i depositari del patrimonio istituzionale, ideale e politico, di generazioni e generazioni che hanno fatto la civiltà moderna diventata nel tempo anche civiltà per il mondo.

Da qui il dovere di esserne oggi all’altezza. Gli europei devono convenire che l’Ucraina è davvero Europa e che perciò Europa deve formalmente diventare quanto prima. Gli europei devono decidersi ad essere tutti loro (noi) Europa, un reale soggetto politico dotato di potere unitario, politica estera ed esercito, uscendo dal presentismo miope e perdente e decidendosi ad entrare finalmente nella storia con la testa, con il cuore e con i piedi. Ma l’Europa, come direbbe Kundera, deve prima di tutto decidersi a “percepirsi come valore in sé”, per essere sé stessa. Senza di che semplicemente non sarà. Questa è la sfida. Nessuno può ignorarla.