IL TRENINO DOMODOSSOLA LOCARNO, FRA NATURA, ARTE, STORIA E CULTURA

Un caratteristico trenino bianco e blu a scartamento ridotto
accompagna i viaggiatori per 52 chilometri da Domodossola, la città
ossolana più a nord della provincia del Verbania-Cusio-Ossola, fino a
Locarno, cittadina sul versante svizzero del lago Maggiore, nel
Canton Ticino. La ferrovia prende il nome dalle valli Vigezzo e Cento
Valli, “Vigezzina” fino al confine, “Centovallina” in territorio elvetico.
Questa linea, che compirà cent’anni il 25 novembre 2023, in
meno di due ore di viaggio unisce due valli, Vigezzo e Centovalli, due
città, due nazioni. Realizzata per iniziativa degli amministratori locali
italiani e Svizzeri per far uscire dall’isolamento questo territorio di
confine e per promuoverne il progresso economico, ha completato le
linee ferroviarie del Sempione e del Gottardo che già collegavano
l’Ossola ai cantoni Uri e Vallese entrambi di lingua tedesca.

Il trenino si muove lentamente attraverso 31 gallerie e 83 tra
ponti e viadotti che raccontano la complessità orografica del territorio,
offrendo l’opportunità di avventurarsi fra gli scenari alpini che si
estendono fra l’incofondibile profilo innevato del monte Rosa e il
Parco Nazionale della Valgrande con i suoi sentieri immersi in una
natura incontaminata.
Dalle ampie vetrate delle carrozze panoramiche a forma
trapezoidale è possibile avvistare cervi, camosci, caprioli, volpi, o
lasciarsi sorprendere  da un’aquila reale che volteggia nel cielo
azzurro fra le vette o da irruenti e sonore cascate che precipitano
vorticose dalle pareti aspre e ripide delle montagne.
Lo scenario che il viaggio può offrire è mutevole secondo le
stagioni. Proprio per questo in autunno il trenino assume il nome di
Foliage, perché il fogliame degli alberi si trasforma in un arcobaleno
di colori: tutte le tonalità del giallo, del rosso, del verde, del marrone,
spiccano sul grigio striato e aspro delle nude pareti di roccia. In
primavera e in estate predomina il verde riposante dei pascoli e dei
boschi, mentre i borghi si fanno gioiosi e ridenti, perché il sole
illumina i prati, le mucche al pascolo, i campanili delle chiesette che
sovrastano i tetti e i villeggianti arricchiscono il paesaggio di suoni e
di colori. In inverno predominano il bianco, il silenzio, la pace
assoluta quando anche il trenino annulla o dirada le sue corse.
A seconda del periodo dell’anno, l’attenzione viene attratta da
sportivi che si mettono alla prova con arrampicate audaci sulle rocce,
discese in corda doppia dal ponte di Intragna, con il volo libero in
Valle Vigezzo; con le discese sui corsi d’acqua più vorticosi in canoa o
in kayak, o a piedi praticando il canyoning o river trekking; con il
nordic walking e con le ciaspolate sulla neve.


Durante il viaggio si susseguono una ventina di piccoli e grandi
borghi, isole di assoluta armonia, con anguste e povere baite o con
edifici anche imponenti, tutti assolutamente in pietra, con tetti
spioventi di beola, la roccia lamellare tipicamente ossolana; con la
chiesetta e il suo campanile appuntito o con il grande santuario che
racconta storie di pellegrinaggi, di ex voto, di pestilenze, di invasioni.
Tutto narra della vita dura e rischiosa dell’uomo della montagna, che
dall’età neolitica ha trovato nel suo ambiente gli elementi essenziali
per sopravvivere.
L’impatto visivo con scenari fatti di quiete e di avventura, di
colori, atmosfere, suggestioni che si susseguono tra armonie e
disarmonie, può essere entusiasmante. Ma come ogni paesaggio,
montano, marino, urbano, svela la sua anima solo attraverso il
divenire della propria storia. Qui un confine geografico divide due
nazioni che nel corso dei secoli, fin dalla colonizzazione romana,
hanno condiviso la stessa lingua, la stessa arte, la stessa religione, la
stessa cultura.

Il Canton Ticino, durante il Medioevo, seguì le vicende della vicina
Lombardia, con le invasioni degli Ostrogoti, dei Lombardi e infine dei
Franchi. Le terre ticinesi divennero all’inizio del secondo millennio il
teatro delle guerre fra i potenti Comuni di  Como e Milano e furono
definitivamente conquistate alla metà del ‘300 dai duchi milanesi,
prima i Visconti, quindi gli Sforza. Questi ultimi diedero a una nobile
e potente casata milanese, i Borromeo, un feudo detto “Stato
Borromeo”, un territorio vasto più di mille chilometri quadrati che si
estendeva lungo tutto il bacino del lago Maggiore. San Carlo
Borromeo, arcivescovo di Milano e nipote di Papa Pio IV Medici,
paladino della Controriforma cattolica, combatté il protestantesimo
diffuso da Lutero e Calvino anche nelle valli svizzere di lingua
italiana, imponendo rigidamente i dettami della Controriforma
sancita dal Concilio di Trento a metà del XVI secolo.


Per questi intrecci tra la storia lombarda e quella ticinese, la
lingua ufficiale del canton ticino è l’italiano come prescritto dall’art. 1
della Costituzione cantonale: “Il Canton Ticino è una repubblica
democratica di cultura e lingua italiane”; nel Preambolo si ribadisce
che “Il popolo ticinese (…) è fedele al compito storico di interpretare
la cultura italiana nella Confederazione Elvetica”. Ancor oggi nella
lingua locale ticinese alcune espressioni lombarde documentano la
vicinanza non solo geografica della due realtà.
Quando le guerre napoleoniche cambiarono il volto dell’Europa,
lo Stato Borromeo fu smantellato, pur lasciando alla nobile casata dei
Borromeo i diritti sulle acque e la proprietà delle isole, della cima del
Mottarone, delle due rocche di Angera e di Arona. Napoleone
instaurò lo stato unitario della Repubblica Elvetica, ma solo dopo
pochi anni ripristinò il vecchio sistema federalista, che perdura
tuttora con i suoi attuali 26 cantoni.


l’Ossola subì il continuo passaggio di eserciti, tra carestie,
pestilenze, conflitti tra le fazioni civili, fino al trattato di Worms del
1743, quando passò dalla Lombardia al Piemonte cui restò aggregata,
tranne nei quindici anni della dominazione napoleonica, sino
all’unificazione d’Italia.
Il trenino bianco e blu, quindi, scorre sui binari della storia delle
due valli dove il confine, cum fine, assume pienamente il significato
latino di “finire insieme”. Le due realtà, italiana e vizzera,
appartengono alla comune cultura alpina perché l’omogeneità
dell’ambiente ha imposto un uguale approccio con la natura. Fin dal
neolitico il modellamento del paesaggio è stato determinato non
tanto dai grandi fenomeni naturali quanto dall’intervento umano.
Da sempre, fino alla metà del Novecento, quando il boom
economico e il turismo di massa hanno raggiunto anche le cime più
impervie della montagna, la popolazione delle valli è vissuta in un
regime di sussistenza: baite anguste, con esigui spazi di terra per la
coltivazione dei prodotti essenziali come patate, castagne, segale
fieno, uve in scarsa quantità.

I mulini, 54 nelle due valli, situati a ridosso di ogni corso d’acqua,
erano anch’essi elementi del paesaggio. Spesso ospitavano anche
l’alloggio del mugnaio, lo spazio per la manutenzione delle
attrezzature ed una piccola stalla per l’asino e il mulo utilizzato per il
trasporto dei cereali. A Zornasco, frazione di Malesco, il “Mulino dul
tač”, oggi parte dell’ecomuseo Ed Leuzerie e di Scherpelit, risalente al
XVII secolo, era alimentato dalle acque del Melezzo orientale. L’acqua
arrivava tramite una roggia “molinara” che alimentava anche altre
strutture produttive come falegnamerie e segherie. Tre macine erano
dedicate a lavorazioni diverse: la prima per segale e frumento, la
seconda e la terza per le castagne e il granoturco; una quarta era
dedicata alla canapa che veniva sfibrata per la tessitura.
Già nel 1792 il parroco di Intragna, settima tappa del trenino e in
territorio svizzero, rimarcava le difficili condizioni di vita degli
abitanti delle valli montane: Le donne ai monti, gli uomini al loro destino: Gli uomini di questa
comunità non si trovano mai tutti a casa durante l’anno eccettuate le
feste di Natale: Alla metà di gennajo partono per il Milanese ed in
aprile ritornano. Abbracciano tutti i lavori dell’anno: Nell’inverno a far
viti, poi a pergolare giardini, siepi e moroni, ad attendere e a tagliare i
fieni, alle noci, alle castagne, alle vendemmie.
Le donne ai monti a tagliare il fieno per gli animali o a pascolare.
Scene bucoliche di serena povertà raffigurate alla fine dell’800 dai
pittori della montagna: due luoghi diversi e un unico paesaggio,
quello dell’Engadina ritratto al Maloja da Giovanni Segantini, quello
della Valle Vigezzo immortalato da Carlo Fornara. La Valle Vigezzo,
per l’attrattiva che ha sempre esercitato sugli artisti anche locali che
l’hanno raffigurata, viene chiamata anche la Valle dei Pittori.
L’attività prevalente era la pastorizia. A Druogno, all’entrata del
paese, un monumento in bronzo raffigura un’alpigiana con la gerla in
spalla, accompagnata da una capretta.


Gli uomini che non migravano si dedicavano allo sfruttamento del
legname dei boschi; all’estrazione e alla lavorazione della pietra.
Quest’ultima si imponeva nella costruzione e nella copertura delle
baite, ricoveri per persone, animali, attrezzi di lavoro. Non a caso,
anche le costruzioni del Canton Ticino, diversamente da quelle del
resto della Svizzera prevalentemente di legno, sono di pietra
esattamente come quelle ossolane.
La lavorazione del legno ha costituito uno dei mestieri più diffusi
in tutte le valli alpine, da quello più umile del boscaiolo, a quello del
commerciante di legnami a quello del falegname che dal blocco di
legno meno pregiato ricavava palette per le granaglie, cucchiai,
rastrelli, semplici panche e sgabelli per le abitazioni comuni.
Il “maestro legnamaro” creava opere di pregio: altari, crocefissi,
sculture per impreziosire chiese e abitazioni signorili. Le case di tutte
le valli custodiscono ancora mobili dalle fattezze identiche perché
creati per forma e dimensione in base alla loro specifica funzione:
grandi tavoli rettangolari, sedie con la rosetta, letti in noce, comò,

credenze, inginocchiatoi; la cuma, la culla con le pareti intagliate con
simboli religiosi o floreali e di prosperità e infine la cascia di rop, la
cassapanca che custodiva i corredi delle donne, costruita con legno di
faggio, noce, larice, abete.
Oggi questa tradizione prosegue nelle segherie e nelle
falegnamerie, nei mobilifici e nelle botteghe di restauro o
antiquariato presenti nelle valli. L’arte dell’intaglio è portata avanti
dall’ultimo maestro legnamaio, Franco Amodei, che tiene dei corsi
invernali nella “Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini” a Santa Maria
Maggiore. Il “Museo UniversiCà” di Druogno conserva la memoria dei
mestieri e delle tradizioni novecentesche in Valle Vigezzo. L’antica
casa vigezzina è oggi visitabile alla “ Cà di Feman da la piaza” nel
Comune di Villette, in cui sono esposti oggetti da lavoro e di uso
domestico accanto a mobili ottocenteschi.


La vocazione artistica dei famosi pittori vigezzini è stata espressa
anche dagli artisti del legno e della pietra che in gran numero hanno
trovato fortuna all’estero, ricercati per la loro abilità.
La tessitura è sempre stata prerogativa femminile. Le valligiane
intrecciavano trama e ordito per produrre la tela di ca’, tela di
cotone, di lino, di canapa, con cui confezionavano tutto il corredo
delle future spose: dalle sacche per contenere cereali e farine di
frumento, a federe, lenzuola, tovaglie e asciugamani, finemente
ricamati anche in seno alle famiglie più povere. L’abilità delle mani
trasmessa di madre in figlia, costituiva la ricchezza della famiglia.
Con la stessa maestria confezionavano i loro costumi, da quelli più
semplici per la vita quotidiana a quelli riservati alle grandi occasioni:
matrimoni, battesimi, processioni, sagre, quando anche i migranti
tornavano in paese a festeggiare le grandi occasioni di aggregazione.
Gli abiti tradizionali femminili, in cui spiccano i pizzi delle
camicette di tela bianca, le lunghe gonne arricciate, nere o a fiorellini
vivaci, i corsetti stretti da lacci colorati, calze bianche, sono nella
memoria collettiva, simili in tutte le valli. Anche l’utilizzo di borchie
di metallo e collane vistose per impreziosire gli abiti, le scarpette di
feltro nero, i giubbetti di lana cotta dai colori squillanti sono
caratteristiche diffuse in tutte le valli, dall’Ossola al Trentino Alto
Adige.
Le genti dell’Ossola e del Canton Ticino hanno sicuramente
condiviso non solo la povertà, l’impervietà dell’ambiente,
l’isolamento, ma anche la storia meno lontana: nella seconda guerra
mondiale le valli ticinesi hanno accolto partigiani ed ebrei non solo
italiani in fuga durante l’occupazione nazista.
Il contrabbando, un’attività clandestina nata nell’’800 nelle zone
di confine per eludere le tasse doganali su alcuni prodotti, fu
condivisa dagli “spalloni” ossolani “sfrusaduur” o “sfrusit” e da quelli
ticinesi. Affrontando di notte i sentieri montani più impervi e quindi
meno controllabili dai finanzieri e dalle guardie svizzere, tagliavano
le reti di confine per incontrarsi e scambiare soprattutto generi
alimentari come il burro e il caffè. Dagli anni Settanta del secolo

scorso, il cambio del franco svizzero non più vantaggioso mise fine al
contrabbando che si esaurì con le ultime bricolle cariche di sigarette.
Oggi gli spalloni, per la loro vita rischiosa, spericolata ed
avventurosa, già ammirati e amati dai loro compaesani, sono entrati
nella storia delle valli come personaggi leggendari.
Per motivi religiosi, pellegrini di Locarno hanno valicato le
montagne di confine per pregare al Sacro Monte Calvario di
Domodossola o il Santuario di Re; pellegrini Ossolani hanno
raggiunto a Locarno il Santuario della Madonna del Sasso per
lasciare un ex voto o semplicemente una preghiera.
La nostra narrazione fin qui si è concentrata sulla storia e le
tradizioni che hanno trovato un punto di incontro nella comune
cultura montana che è ancora presente, intatta e viva nei piccoli
borghi che scandiscono le tappe intermedie del trenino blu: in Val
Vigezzo, Druogno – Malesco – Camedo – Re; dopo il confine, Verdasio

  • Intragna – Ponte Brolla.
    Tutte hanno le stesse caratteristiche di essenzialità, lo stesso
    colore della pietra delle montagne, lo stesso campanile affiancato alla
    chiesa dalle linee essenziali, gli stessi affreschi slavati dal tempo; le
    stesse donne che stentano a lasciare i loro vestiti tradizionali nella
    cascia di rop per testimoniare con orgoglio e fierezza la loro
    appartenenza alla montagna.
    Queste caratteristiche peculiari ed essenziali della cultura
    montana si sono un po’ sbiadite a Santa Maria Maggiore, terza tappa
    del viaggio, il paese più famoso della valle Vigezzo. A 836 metri di
    altitudine, aperta su un vasto pianoro tra le montagne che consente
    la pratica di sport sulla neve o passeggiate ed escursioni tra boschi di
    faggi e dirupi selvaggi, è diventata un elegante e frequentatissimo
    centro di villeggiatura in ogni stagione dell’anno. La dimensione
    turistica ha portato benessere e dinamicità tanto che la sua popolazione supera le mille unità, diversamente dagli altri borghi che
    contano poche centinaia di anime.
    Le città capofila di Domodossola e Locarno, ai piedi delle due rispettive valli, sono il punto d’incontro fra due mondi e due culture;
    due città che sanno coniugare perfettamente il presente con il passato.
    Domodossola, città medaglia d’oro della Resistenza, è orgogliosa della sua storia non troppo lontana, quando durante l’occupazione
    tedesca, tra il settembre e l’ottobre del 1944, visse i suoi quaranta
    giorni di autonomia e libertà, dotandosi di uno statuto che anticipava
    i principi della futura Costituzione italiana.
    Il centro storico conserva il fascino medioevale ancora pulsante
    nelle viuzze e nelle romantiche piazze che conducono a quella antica
    del mercato, luogo di incontro e di scambi, sia nel passato, quando i
    mercanti italiani e svizzeri si scambiavano vino, formaggi, manufatti

delle rispettive valli, sia oggi, quando dalle Cento Valli si scende a
Domodossola alla ricerca del made in Italy.
La scoperta di questo borgo, ricco di edifici storici e di musei
cittadini, non deve escludere un ristorante in cui gustare gli gnocchi
di castagne, che hanno costituito l’alimento base della alimentazione
montana. Basti ricordare che nel dialetto ossolano il castagno è l’
“arbul”, l’albero per eccellenza!
Locarno, ultima tappa del viaggio, affacciata sul lago Maggiore, è
una città dai mille volti. La sua storia è racchiusa nel fascino antico
della città “vecchia” con le sue pittoresche viuzze, i musei cittadini.
La Festa dell’uva, la Festa delle castagne, il Festival degli artisti di
strada, la “Camelie Locarno” ci raccontano le sue tradizioni più
antiche. Il Raduno Internazionale degli Spazzacamini la accomuna alla
vigezzina Santa Maria Maggiore.
Locarno, come Domodossola, è anche una città moderna,
frequentata da numerosi turisti in ogni stagione. Oltre al lago e al
verde dei suoi parchi si possono ammirare le vetrine delle numerose
gioiellerie e dei negozi di abbigliamento; i giovani trovano locali per
ogni tipo di svago e di divertimento. Il Festival Internazionale del Film
che si svolge nella sua Piazza Grande, come il Moon and Stars e il
Locarno on Ice, le hanno conferito una dimensione internazionale.
Alla fine di questo viaggio tra le montagne, si può rientrare in
Italia con il battello per immergersi nello splendido scenario del lago
Maggiore e seguire il suo lungo percorso sinuoso fino ad Arona,
ultima cittadina a sud del lago. Qui si è accolti dalla gigantesca statua
del San Carlone, di fianco alla rocca e di fronte a quella di Angera
sulla sponda lombarda, che ancora raccontano il secolare dominio
sul lago della nobile casata Borromeo.


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