La dottrina militare classica distingueva nettamente due concetti essenziali.
Il primo era, come da Treccani, la strategia: “tecnica di individuare gli obiettivi generali e finali di una guerra o di un ampio settore di operazioni, di elaborare le grandi linee di azione, predisponendo i mezzi per conseguire la vittoria (o i risultati più favorevoli) con il minor sacrificio possibile.”
L’altro era, ovviamente e sempre da Treccani, la tattica: “branca dell’arte e della tecnica militare che indica i principi e studia le modalità per schierare le truppe e farle manovrare sul campo di battaglia allo scopo di sopraffare il nemico.”
In termini più semplici ma ben chiari si esponeva il Presidente Mao invocando per sé e i suoi seguaci nel mondo “Tattica larga, strategia stretta”.
Per dirla tutta più normalmente la strategia dovrebbe indicare gli obiettivi generali e come realizzarli, mentre la tattica riguarderebbe i passaggi più ristretti di un percorso più generale.
Non sempre la tattica, pur giusta, può risultare gradevole.
Una ritirata, per esempio, può portare a una nuova organizzazione del fronte di battaglia che potrebbe risultare utile e positiva.
Nell’insieme si deve dire che nessuna guerra, di nessun genere, può essere vinta in assenza di una strategia ma anche che una strategia giusta può risultare infine perdente a causa di tattiche sbagliate.
Assiomi militari, certo, ma preziosi e utili anche in tutti gli altri momenti, individuali o meno, della vita degli appartenenti alla specie umana.
Non basta, insomma, avere un obiettivo chiaro e definito. Occorrerebbe sempre conoscere le resistenze ad esso ed elaborare il modo di superarle o sconfiggerle..
Banalità che, in fondo, ognuno ha ricevuto dai suoi progenitori e ha cercato di trasmettere ai successori.
Ciò rende ancora più sorprendente (e, se vogliamo, preoccupante) la evidenza della scomparsa della strategia nel dibattito politico ed istituzionale dei nostri giorni.
Le forze in campo rifiutano di definirsi in base a una strategia identitaria e si caratterizzano soltanto per la capacità di scontro a breve con i competitori che vengono definiti come avversari.
Se oggi si chiedesse a un qualunque cittadino cosa vuole ottenere qualunque forza politica non avrebbe a disposizione niente altro che un susseguirsi di dichiarazioni di ostilità verso gli altri e, spesso, di insulti e diffamazioni.
La fuga dei cittadini dalle urne elettorali (pur confermata dalle recenti vicende sarde) è il frutto di questa impossibilità di riconoscimento negli schieramenti sul campo.
Lo stesso frenetico ricorso alle “liste civiche” deriva dal tentativo di ritrovare possibili collegamenti cittadino – Istituzioni nella breve distanza e nella conoscenza diretta dei cercatori di consenso.
È forse inutile ricordare che non sempre e non automaticamente la “stretta vicinanza” con gli elettori ha determinato un consenso non inquinato da deteriori forme di scambio.
Più importante è però tentare di capire da dove derivi questa tatticizzazione che è tanto più rilevante in quanto applicata a una Nazione come l’Italia che ha vissuto storicamente un eccesso di protagonismo e di identità dei Partiti politici nelle varie fasi della sua Storia novecentesca.
La loro dissoluzione in quanto portatori di istanze e prospettive di carattere generale non può essere soltanto attribuita al pur discutibile passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.
La verità è piuttosto che questo passaggio ha coinciso con un altro processo più generale, vale a dire la mondializzazione e la finanziarizzazione dell’economia.
Questo processo, ancora violentemente in corso, ha indebolito, se non distrutto, la corrispondenza tra gli interessi di sviluppo del territorio governato dallo Stato – Nazione e i diretti interessi economici degli operatori anche se appartenenti a quel territorio.
Le diverse Nazioni europee erano uscite dalla II Guerra Mondiale con una forte prospettiva di sviluppo da portare avanti sul proprio territorio nazionale e non potendo più fare affidamento sulle strategie di carattere coloniale ed imperialistico presenti sino ad allora.
In altri termini le differenze ideologiche, pur presenti, erano costrette a collocarsi in un quadro di riferimento comune.
Lo sviluppo e l’industrializzazione del Sud Italia potevano essere vissuti e gestiti da differenti punti di vista, ma non vi era dubbio che fossero nell’interesse dell’intero Paese. La creazione e la difesa di un articolato mercato interno corrispondevano certamente all’interesse degli imprenditori italiani come a quello dei consumatori italiani.
E così via.
Alla luce dell’andamento strutturale interno la Nazione poteva presentarsi sul contesto esterno, legittimata a difendere (come del resto facevano le altre) i propri interessi nazionali.
Le forze politiche erano chiamate a spiegare ai cittadini – elettori come ognuna avrebbe voluto adempiere a quel compito, all’interno di un quadro generale condiviso.
Questa condivisione di interessi e prospettive, basata sull’idea di uno sviluppo comune, non esiste sostanzialmente più perché non esiste più la corrispondenza fra gli interessi economici e il benessere diffuso sul territorio nazionale.
Di conseguenza il ceto politico che di quel territorio globalmente dovrebbe essere la rappresentazione operativa, pur con tutte le inevitabili divergenze interne, si trova a perdere la sua funzione istitutiva.
Il capitale finanziario non ha né Patria né Dio.
Esso si muove per riprodursi in qualunque direzione verso qualunque contesto ritenga interessante.
Intorno il mondo tende inevitabilmente a organizzarsi nella migliore maniera allo scopo di accoglierlo, fosse pure solo temporaneamente.
In questo modificato contesto non ha senso nessuna forma di Identità.
Non possiamo stupirci se i Partiti, che dovrebbero fondarsi su identità parziali in un contesto collettivo, rinunciano ad avere qualunque strategia legata a una prospettiva e si rifugiano freneticamente nella tattica del giorno per giorno, nello scontro limitato al “qui ed ora”.
Non ci deve nemmeno stupire che, contrariamente alle nostre speranze di democratizzazione crescente, prosperino e si diffondano nel resto del Mondo forme di dittatura e Stati autoritari.
L’orrore inevitabile non ci deve accecare.
Che si tratti della dittatura putiniana o della islamizzazione crescente non vi è nulla di strano in quanto accade.
Risplende anzi il regime cinese che riesce a esibire ancora i simboli della liberazione comunista mentre i suoi gerarchi operano sul mercato finanziario mondiale in completa e cinica autonomia.
Falce e martello su bandiera rossa coprono orgogliosamente un regime ultra – capitalistico sanguinario e spietato.
Ci vogliamo davvero lamentare dei nostri poveri untorelli nazionali?
Forse tutto avrebbe potuto essere, almeno per noi, lievemente diverso se l’Europa avesse effettivamente voluto diventare un grande Stato Federale.
Avrebbe avuto una dimensione sovra – nazionale che sarebbe stata utile a non farsi sopraffare immediatamente dalla finanziarizzazione mondiale.
Avrebbe potuto intuire e cogliere quel che andava preparandosi e di conseguenza trovare la forza e l’organizzazione necessarie.
Avrebbe potuto avere un proprio apparato di difesa militare.
In generale, avrebbe potuto costruire una identità collettiva adeguata al nuovo contesto con gruppi dirigenti capaci di formulare nuove strategie.
Niente di tutto questo è avvenuto. Forse quegli Stati – Nazione definitisi dopo la guerra continuavano a guardare al passato o si illudevano che la contrapposizione al comunismo sarebbe bastata a garantir loro quella unitaria Identità senza cui non si vive.
Non sapevano, o non potevano sapere, che un ben altro nemico stava pazientemente annidandosi nel silenzio.
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