Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
RACCONTO A PUNTATE
PRIMA PUNTATA: L’APPUNTAMENTO
Era uscito di casa in via dei Pastini che ancora non albeggiava in quel giorno d’ottobre che sapeva quasi di primavera. Prese per via delle Paste, da lì in piazza S.Ignazio e dopo pochi passi si ritrovò in via del Corso . Lo percorse verso l’Altare della Patria, passò davanti la chiesa di S.Marcello.
Lui non frequentava le chiese, non le aveva mai frequentate. Gli anni dell’adolescenza non avevano previsto per lui l’oratorio, ma i cantieri di lavoro del padre e dello zio Silvio. Di più, l’aria che si respirava in casa in Umbria, non era certo clericale. Il nonno Attilio era nato quando il Papa stava ritirandosi in Vaticano, a seguito dell’ingresso in Roma dei bersaglieri del generale Cadorna, che posero fine al suo potere temporale.
E quando fu il tempo di prendere coscienza delle condizioni della sua classe di operai e proletari aveva aderito al nascente Partito Socialista, e negli anni a venire gli uomini della famiglia avrebbero fatto tutti la medesima scelta. Ma quella mattina, passando davanti la chiesa di S. Marcello, Zeno avvertì l’impulso di entrare. Lì per lì scacciò il pensiero, ma il passo, senza volerlo si fece più lento, e quasi contro la sua volontà si volse verso la breve scalinata che dava accesso al tamburo dietro il portale.
Poca gente anziana nelle bancate, per lo più donne. A destra, in una cappella laterale, vide altre persone inginocchiate davanti un Cristo Crocifisso, circondato da dovizie di candele ed ex-voto. Sulla balaustra, una scritta per visitatori occasionali, ricordava che si trattava di un Crocifisso miracoloso. Raccontava che i romani vi si rivolgevano singolarmente per grazie personali, e la comunità tutta per avere sostegno nelle calamità della natura, nelle pestilenze, nelle guerre e nei saccheggi: ultima difesa dall’odio degli uomini.
Nelle occasioni più nefaste veniva portato in processione per le strade della città, e la preghiera e i canti accomunavano tutto il popolo, magari anche quelli causa delle calamità, com’era accaduto in occasione del sacco di Roma da parte dei Goti di Alarico. In quel frangente si vide una folla di romani e barbari dietro altro simulacro. Allora si trattò di una reliquia che una monaca difese con la propria vita dalle manacce di un soldataccio barbaro e questi, confuso da tanto coraggio, consegnò la suora e la reliquia ad Alarico, perché decidesse del loro destino.
Questi, per risposta, fece portare entrambi in processione per le strade di Roma, insieme e davanti ad un popolo in preghiera di barbari e romani, uniti dalla comune fede, quasi a suggellare la indecorosa fine di Romolo Augustolo, nascosto a Ravenna, e con lui dell’Impero Romano d’Occidente.
Zeno si ritrovò a guardarlo quel Crocifisso, con meravigliata intensità, sembrava che gli chiedesse qualcosa. Ma cosa? Non preghiere, non ne conosceva e comunque sarebbero state estranee al suo credo socialista. Gli avevano insegnato a rigettare la religione, trappola per i poveri, inventata per far sopportare loro i soprusi, con la promessa di un mondo migliore dopo la morte.
Ma quell’uomo in croce sembrava ancora soffrire dopo duemila anni, somigliava ai manovali più sfruttati dei cantieri. Non riusciva a sentirlo estraneo o peggio nemico. Se ne andò un po’ scombussolato, ma con qualcosa dentro che sapeva di nuovo, di una nuova frontiera da esplorare prima o poi. Pensò che doveva ricordarsi in futuro di quel Crocifisso e di quella Chiesa e per intanto si disse che al prossimo figlio dopo il primogenito Tarquinio, e sperava sarebbe stato maschio come il primo, avrebbe dato il nome di Marcello. Così senza rinnovare quelli di casa sua e ancor meno quelli di casa della moglie Regina, che per il primo figliolo aveva rinnovato il nome del padre, morto in guerra.
Riprese il cammino verso piazza Venezia, l’appuntamento era lì, a sinistra della scalinata dell’altare della patria, accanto i ruderi di quella che era stata una porta d’ingresso al foro, porta Rotumnea o Fontanilis, in prossimità del miglio aureo della via Flaminia. Un tempo la strada consolare passava di lì, veniva dal foro e proseguiva diritta in quella che fu chiamata nei secoli a venire via Lata, e attualmente via del Corso. Non c’era più traccia dell’antico selciato che forse giaceva sotto l’asfalto, ma molte cose raccontavano ancora la Roma di quel tempo. Come gli ambienti sotto la chiesa di Santa Maria in via Lata, all’altezza di palazzo Doria-Panfili, un tempo cantina dei principi, ma prima, abitazione-prigione dell’apostolo Paolo nel breve soggiorno romano.
A quell’appuntamento, Zeno si recava per incontrare Silvio, lo zio paterno. Li univa, oltre il rapporto di parentela e la comune fede socialista, il lavoro nei cantieri. In quegli anni nella campagna romana a costruire gli edifici che avrebbero ospitato Expo 42. Socialisti, come scelta di campo, come consapevolezza della appartenenza di classe, di adesione ideale ai principi, ma non prassi quotidiana di lotta e opposizione al regime. Non ne avevamo il tempo, la necessità del lavoro per il sostentamento delle famiglie era prioritaria, poi la loro natura era lontana dalla radicalizzazione delle posizioni, lasciavano ad altri, a coloro che per censo e cultura potevano permetterselo l’impegno totale.
La loro missione era quella di fare il lavoro di artigiani nel quale erano stati educati. Nonostante tutto questo, un rapporto dei carabinieri del loro paese in Umbria li aveva segnalati come oppositori del regime. Se n’era accorto Zeno, per le lamentele della zia Romelia, presso cui appunto, in via dei Pastini aveva preso alloggio con la moglie Regina e il figlio Tarquinio. La Romelia e il marito di lei Bernardo, lavoravano entrambi con funzioni diverse presso l’albergo Anglo-Americano che sorge vicino a palazzo Barberini e a via Rasella. Questi non si interessavano di politica, quindi avevano scoperto con apprensione crescente alcuni individui aggirarsi nella strada a chiedere informazioni sui nuovi ospiti del loro appartamento.
Si trattava di poliziotti in borghese, poliziotti che furono visti guardare le finestre dell’appartamento e parlare con i commercianti della strada su quella famiglia che dall’Umbria aveva preso dimora lì. Non c’era nulla da scoprire, oltre l’adesione ideale ad un partito avverso al regime. Iniziative e prassi rivoluzionarie erano possibili per pochi, coraggiosi certamente, ma anche privilegiati, che potevano astenersi dal lavoro ed avere in altro modo i mezzi di sostentamento per sé e la famiglia. Era ignoto a costoro il peso delle “caldarelle” sulle spalle, con le piaghe che causavano, o i geloni sulle mani e sui piedi, d’inverno. Cosi era stato per un certo tempo anche per Umberto, padre di Zeno e fratello di Silvio. Aveva fatto la sua parte, poi dopo un incidente sul lavoro, aveva preso a zoppicare e il bastone era diventato suo compagno inseparabile.
Dunque aveva prima diminuito, poi cessato di lavorare e si era potuto dedicare alla politica nelle città dei cantieri e poi nel suo paese dove si era ritirato. Complice in qualche modo l’Angelina, la moglie silenziosa, proprietaria di due campetti al paese, che con il suo lavoro procuravano il sostentamento alimentare alla numerosa famiglia, quando la muratura non bastava. Così Umberto poté dedicarsi al partito di Turati e poi di Nenni. Al paese gli fu affidata la sezione del partito, che poi fu a lui intitolata. Quando morì, alle esequie fu letto da un compagno, Mondo il barbiere, il telegramma che aveva mandato la direzione del partito da Roma, con sotto in calce la firma di Pietro Nenni.
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