Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
Tra Terni e Spoleto sul valico della Somma
Si erano seduti sul bordo della fontana, posta accanto alla casa. Il bianco travertino per il ristoro dei viandanti, davanti al cotto rosso della mansione. Anche loro si erano dissetati con l’acqua fredda che usciva dal mascherone, posto al centro di un fascio littorio. Una delle tante fontane sparse lungo le vie consolari, che celebravano a loro modo il regime, anticipazione della moderna pubblicità che propone un bene di consumo con sotteso un riferimento valoriale. Erano in procinto di riprendere il cammino che si annunciava meno impegnativo, quasi agevole, da percorrere lungo la discesa che li avrebbe portati a Spoleto. Una volta arrivati avrebbero ragionato su come proseguire il viaggio. Erano passati tre giorni da quando avevano lasciato Roma, rimaneva da percorrere meno della metà del tragitto. Una volta a Spoleto sarebbero rimasti altri settanta chilometri. Escludendo il tratto in treno e quello sul camioncino del primo giorno, se l’erano fatta tutta a piedi: era andata bene. Facendo gli scongiuri e astenendosi dal dichiararlo cominciavano ad intravedere casa. Fatti i primi passi sul pianoro del valico in direzione della discesa, poco oltre la casa e la fontana, si avvidero di un palo sul ciglio della strada con su un cartello che recava la scritta” fermata autobus”. Silvio e Zeno ricordarono di un servizio di corriere che dai nomi dei luoghi di partenza e arrivo e dell’imprenditore-proprietario era chiamata: linea Roma-Rimini, Bucci. Naturalmente il servizio andava nei due sensi di marcia. Per gli abitanti dei paesi montani del nord dell’Umbria, come Sigillo, posti lungo la Flaminia e per gli altri oltre Scheggia in territorio marchigiano sino a Fano, il servizio delle corriere era indispensabile. Quel tratto di territorio non era servito dalla ferrovia, per viaggiare c’era solo la corriera. La linea ferrata Roma-Ancona costruita poco dopo l’unità d’Italia transitava più a sud, correva a ridosso della consolare solo nel tratto che andava da Orte a Fossato di Vico. Oltre, penetrava nelle Marche per terminare ad Ancona, divaricando il suo percorso dalla seconda parte della via Flaminia.
Non pensarono se fosse il caso di aspettare, e arrivata la corriera di salire. Né se quella fosse la scelta giusta. E poi una volta saliti per andare fino a dove? Fino a casa, sino a Sigillo?
Non ne ebbero il tempo, ché, annunciata dal suono del clacson, arrivò la corriera. L’autista li vide alla fermata, frenò e accostò la vettura. Si fermò come per salire gente in attesa. Non era così, non l’avevano preventivato, ma dato un rapido sguardo dentro, videro i sedili occupati solo in parte, sugli altri sedevano persone tranquille, normali, da non creare in loro allarme. Poi avvertirono come un pudore, una soggezione nei confronti dell’autista. Si era fermato perché doveva, ma loro non erano lì per la corriera. Un immediato quasi inconscio arco riflesso li spingeva a salire, non farlo lo avvertivano come uno sgarbo, quanto meno avrebbe preteso una spiegazione. E la parte più riflessiva del cervello suggeriva che il non salire avrebbe potuto generare sospetti. Che ci facevano lì alla fermata se non dovevano prendere la corriera? Salirono. Il bigliettaio chiese dove fossero diretti. Loro si guardarono, un assenso con gli occhi, e chiesero quale fosse la prima fermata. Quello disse: “Spoleto”. Pensarono che non essendoci fermate intermedie non sarebbe salita altra gente prima di Spoleto. Meno pericoli di brutti incontri. Il bigliettaio staccò tre biglietti da una sorta di calcolatrice con delle rotelle dove scorrevano i numeri. La teneva appesa al collo con una cinghia di cuoio. Fece depositare gli zaini, che dopo una occhiata di controllo, portò fuori, e salito su una scaletta posta sul lato posteriore della vettura, sistemò sul tetto in un ripiano dove erano altre valigie. Li fissò con delle corde, tranquillizzando i nostri che, scesi anche loro, seguivano preoccupati la manovra. Che non avessero a perdere il loro bagaglio vitale! Ma il bigliettaio mostrò una straordinaria perizia ed efficacia nella manovra. Disse loro di non temere, non gli era mai accaduto di perdere roba, mai era volato via qualcosa dal tetto da quando lavorava sulle corriere. Si rassegnarono anche perché lui aveva aggiunto che quella dei bagagli sul tetto era la regola, non si poteva portare bagaglio dentro.
Si sedettero, il pullman partì. L’uomo dei biglietti comunicò loro che a Spoleto erano previste due fermate. La prima subito alla fine della discesa, prima di entrare in città, in località Ponte Sanguinario, l’altra poco oltre l’uscita dalla città di Porta Fuga, in una vasta piazza di sosta per pullman e vetture private e pubbliche. Non lontano era anche la stazione ferroviaria. Il pullman ingranò la prima marcia e partì. Loro si erano seduti nella parte posteriore della vettura su due scompartimenti, Zeno e Silvio su uno scomparto e Davide su quello accanto, al di là del corridoio. Questo correva lungo tutta la lunghezza della vettura, separava due spazi longitudinali leggermente sopraelevati. Su questi erano ricavati gli scomparti tutti a due posti, capaci di ospitare una cinquantina di persone. In fondo dove il corridoio terminava, gli scomparti sparivano, sostituiti da un ampio sedile tipo divano che si adagiava concavo a seguire il profilo posteriore della corriera. Gli altri viaggiatori occupavano gli scomparti anteriori in prossimità dell’autista: in tutto una decina di persone oltre loro. L’autista sedeva su una poltronaccia logora con la grande ruota dello sterzo in pugno, i piedi sui pedaloni del gas e del freno. Subito ai lati le maniglie del freno a mano e del cambio e quello più piccolo delle ridotte, accanto una sorta di monumentale baule in ferro che conteneva gli ingranaggi del motore.
Vederlo guidare era come assistere al concerto di un musicista, massimamente di un organista. Le mani e i piedi sempre in movimento sui diversi pedali e manopole che sembrava fossero loro a generare il rumore che veniva dal motore. I movimenti si esaltavano ad inseguire nuove armonie quando eseguiva il cambio della marcia a scalare, manovra conosciuta dagli esegeti con il nome di doppia debraiata. Lì un sapiente movimento delle mani e dei piedi diventava gesto artistico accompagnato da una alternanza e variazione dei suoni che al profano poteva causare un ulteriore fastidio oltre al rumore del motore. Ma che un orecchio esperto poteva giudicare se la manovra fosse stata condotta bene. Altrimenti un clangore, un rumore degli ingranaggi come di rottura. Da fuori si mescolava nei suoni, lo stridore dei freni all’approssimarsi delle curve.
Ma l’autista non era un artista era solo un artigiano se si vuole usare la similitudine, e il lavoro richiedeva muscoli e fatica fisica e sudore della fronte e preoccupazione di fare tutto bene. Ne andava della salute e della vita dei trasportati. Per tutto questo era grosso di muscoli ed anche di grasso, perché gli autisti mangiavano quando era il tempo e molto e fumavano con dovizia, e per tutto questo campavano poco. Sempre legati su quei sedili, aggrappati al volante, con le arterie che le paure contraevano e il colesterolo restringeva.
Oltre l’autista, nella parte anteriore della vettura c’erano gli altri passeggeri. Dietro intervallati da una zona vuota c’erano loro e il bigliettaio. Questi sedeva su una specie di garitta accanto alla porta posteriore. Era prossimo a loro e la cosa favorì l’istaurarsi di un colloquio. Appariva uomo di mezz’età, corpulento, con capelli ricci e baffi che si cominciavano ad imbiancare, vestito in borghese a differenza del guidatore che portava una sorta di divisa con cappello regolamentare. Lo metteva quando il pullman si fermava, e lo poneva sul cruscotto non appena partiva. Come se gli desse fastidio e il portarlo nelle soste fosse dovuto alla necessità di dare l’immagine di rigore professionale. Poi dopo il primo impatto con i viaggiatori e in qualche modo superata la formalità iniziale se ne liberava. Il bigliettaio più informale disse ai nostri che era di Civita Castellana ed era sulle corriere dall’età di vent’anni. Non disse l’età ma loro giudicarono che dovesse avere un po’ più di quarant’anni. Aggiunse che aveva schivato la chiamata alle armi nel 40’ perché ormai grande, e per sua fortuna anche la grande guerra del 15-18 perché allora era troppo piccolo. “Quando si dice la sorte” commentò soddisfatto. Appariva uomo contento di sé e del suo stato. Veniva da una famiglia contadina, poi aveva messo su famiglia e a casa al ritorno la sera lo avrebbero aspettato una moglie e due figli ormai adolescenti, che l’anno successivo sarebbero andati a studiare a Roma al liceo, ospiti di una cugina nubile che aveva un portierato in centro. Disse questa cosa dei figli con un moto di orgoglio, quasi a voler rimarcare la sua ambizione di avanzamento sociale. Silvio e Zeno che avevano stimolato il colloquio, lo ascoltavano in silenzio, perché lui dimostrò da subito che gli era stato sufficiente l’innesco per raccontare di sé. Continuò parlando del lavoro: “d’inverno è duro soprattutto nei tratti dove nevica” disse. Accadeva che sulle salite se c’era ghiaccio, dovevano mettere le catene e a volte anche quelle non bastavano. Più di una volta era dovuto scendere e con lui i passeggeri a spingere la vettura che l’autista innestando una marcia alta cercava di guidare oltre. Il valico della Somma dove li aveva raccolti era un punto critico, poi c’era il tratto di strada che andava da Fossato di Vico a Scheggia a ridosso degli Appennini che era ancora peggio. Veniva giù la neve dai monti con folate di vento che l’accatastavano sul manto stradale: sotto il ghiaccio e sopra la massa nevosa. Si trattava di scendere e spalare la neve per ripristinare un passaggio. Se era sufficiente ci pensavano i cantonieri, ma se la bufera era tosta non bastavano e per liberare la strada dovevano intervenire anche loro delle vetture. Infine disse della guerra. Era preoccupato come tutti, ma ottimista. Bastava starsene in disparte, non prendere posizione e anche quella iattura sarebbe passata. Non bisognava fare i fanatici, aggiunse, a cercar guai. Lasciar decidere le autorità. Ma quale autorità? chiese Zeno. Lui si mostrò infastidito della domanda e restò in silenzio. A quel punto la conversazione finì.