IL VIAGGIO, 25 esima puntata

Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.

Uscita da Porta Fuga

Percorsi circa un centinaio di metri, entrarono in città e si ritrovarono in una grande piazza: piazza Garibaldi. Questa si restringeva poi in una via ampia, il Corso dove si concentravano negozi e uffici e il fervore della vita civile. Dalla piazza, da un suo tratto pensile, si vedevano in basso i resti dell’anfiteatro romano e il lungo porticato della chiesa dedicata alla Madonna di Loreto. Davide si era fermato ad ammirare le rovine e la chiesa che gli ricordava una analoga della piazza di Rodi, ma gli altri lo scossero, dovevano muoversi e non verso il Corso, per evitare per quanto possibile gente. Dunque presero a destra verso la parte alta della città di cui avrebbero seguito il limitare, disegnato dalle mura. Davide prese la testa del gruppo, a dare il ritmo dell’andatura su quella strada in salita. Non aveva parlato molto da quando all’alba avevano lasciato il fienile. Si era trascinato dietro gli altri, in silenzio, assentendo alle decisioni che loro più grandi ed esperti andavano prendendo. Permaneva in lui quell’aura di serenità che l’incontro notturno gli aveva ispirato. Era sparito il tormento fisico che aveva provato all’inizio. No, ora la pulsione si era smorzata in una sorta di appagamento, come di chi conquista la vetta di un’alta montagna o di chi termina una lunga corsa. La sua era stata la scalata, la corsa dell’adolescenza che conduce ad una maggiore consapevolezza di sé, con il turbinio delle passioni imbrigliate dalla ragione e dai valori inculcati dall’educazione. La tensione anarchica e violenta dei sensi diventa così forza creatrice. La femmina da concupire diventa fattore di trasformazione. La carnalità di quell’abbraccio risoltosi nella tenera carezza sul viso, aveva segnato un percorso che lo attendeva da lì in avanti. Quella persona apparsa come femmina era diventata donna che lo aveva trasportato dai territori delle passioni a quelli dell’amore. Sentiva confusamente queste cose Davide che gli davano forza e serenità per le nuove scalate che la vita avrebbe proposto. Silvio appariva un po’ affaticato, era uomo intorno ai sessanta, ancora in salute nonostante il duro mestiere della vita, ma quelle marce e il pensiero dei pericoli del momento, per sé, per quelli con lui nel viaggio, per la famiglia in paese, erano ulteriore aggravio alla sua resistenza. Così non mostrava di partecipare un gran che alle osservazioni di Zeno sugli edifici che si presentavano alla vista nel loro percorrere la città. Era Zeno che aveva manifestato sorpresa ed emozione già prima, alla vista in lontananza della rocca. Ora da vicino quella si appressava grandiosa e sublime e incuteva in lui un senso di meraviglia e stupore che cercava di comunicare agli altri. Ma oltre all’aspetto estetico, alle finalità materiali e pratiche, la rocca gli appariva anche un simbolo di forza e potere di coloro che avevano avuto i mezzi e le capacità per edificarla. Un messaggio per le classi sottoposte o per quelli di fuori. Come monito per tutti a non sovvertire l’ordine costituito. I poveri, gli umili, gli ignoranti, i proletari di Marx, prima di acquisire una coscienza di classe, soccombono davanti al grande, al maestoso, al sublime. Così pensava, riandando con la mente ai discorsi dei compagni socialisti dei cantieri. D’altra parte da sempre, dai faraoni ai romani e su su sino ai giorni nostri era stato sempre così. Certamente la rocca fatta costruire dal Papa, che incombeva sulla città, non sembrava entrarci molto con devozioni, preghiere, messaggio evangelico, appariva solo un monumento del potere temporale della Chiesa. Ad essere benevoli forse ce n’era bisogno, perché il messaggio religioso potesse sopravvivere ed espandersi. Poca gente lungo le strade, quella pioggia era una manna per loro che rifuggivano per quanto possibile da incontri. Ogni tanto si riparavano sotto qualche terrazza o arco e si scrollavano di dosso la pioggia. Da poco erano passati sotto l’arco di Druso. Se avessero conosciuto il latino ci avrebbero letto la dedica a Druso e Germanico, i figli dell’imperatore Tiberio, ma di loro solo Davide lo aveva studiato a scuola, ma non sembrava molto interessato al momento. Accanto, al limitare dei resti del cardo, un tempio romano, nei secoli trasformato in luogo di culto cristiano. L’arco dava accesso ad una piazza, l’antico mercato, che aveva conservato quella funzione, e che ancora nei tempi attuali custodiva in un angolo un’abitazione di allora, di duemila anni prima. Sfioravano questi monumenti di pietra nel loro attraversare la città. E Zeno che amava leggere quando ne aveva la possibilità, provava a raccontare qualcosa di quel poco che sapeva di quelle pietre. Per lui la scuola si era fermata alle elementari, un buon profitto che aveva spinto il maestro a sollecitare quelli di casa a farlo proseguire con la sesta, che allora agli inizi del XX secolo era da assimilare ad una terza media della riforma Gentile che sarebbe venuta anni dopo e avrebbe rinnovato metodi e obbiettivi della scuola, ferma alla tradizione sabauda. Seguendo le mura arrivarono a costeggiare la Rocca, da lì scesero in basso e di nuovo si presentò ai loro occhi tutta la vallata umbra, un tappeto di colori autunnali che si stendeva ai loro piedi. Se invece delle nuvole ci fosse stato il sereno, avrebbero visto i paesi affacciarsi come da balconi sulla vallata. I balconi erano i bassi rilievi dove gli autoctoni avevano costruito le case per difendersi dal passaggio dei barbari a valle, dopo la caduta di Roma. Campello sul Clitunno, Pissignano, Trevi, Spello, Assisi e dalla parte opposta Montefalco e Bettona. In fondo come in una macchia indistinta le aquile avrebbero scorso Perugia. Proseguendo la discesa, di fianco alla strada si apriva una grande piazza, anch’essa disposta in discesa e delimitata da palazzi signorili a destra, a sinistra invece più aperta verso la pianura. In fondo, lo spazio si chiudeva con un’immagine per lo stupore di chi avesse guardato lì per la prima volta. Era anche il sentimento della natura intorno, gelosa di tanta bellezza: una chiesa mirabile, Santa Maria Assunta, la cattedrale della città, chiudeva la prospettiva. Blocchi di pietra dura a tirare su una facciata delimitata in alto da un tetto a capanna, di lato un campanile a pianta quadrata. Comunicavano una sensazione di durezza ed essenzialità com’era la natura degli Umbri e dei Longobardi che si erano loro sovrapposti e dominavano la città nel XII secolo quando fu costruita la chiesa. Ad ingentilire la facciata, otto rosoni, di cui uno centrale più grande, che davano luce alle navate. Su tutti troneggiava il mosaico di Sosterno con Cristo al centro, Maria e Giovanni evangelista ai lati. Poi, scomparsi i longobardi o meglio l’istituzione Ducato, nel secolo del Rinascimento pensarono di impreziosire la costruzione riducendo, ulteriormente il carattere austero con un porticato sormontato da una balaustra e un terrazzo di fine fattura. Evocava suggestioni e sentimenti in Zeno la vista del monumento e del grande rosone che come un grande occhio lasciava entrare la luce del mondo ad illuminare il mistero. Pensò a S. Marcello al Corso. Rimase affascinato ed emozionato da quello che i suoi occhi vedevano, da far scomparire i pensieri politici che il monumento aveva indotto. Lui, muratore, seguiva le linee, le proporzioni, l’impianto statico, le decorazioni e gli abbellimenti. Ne comprendeva i risvolti tecnici: quelle pietre sagomate, sapientemente giustapposte le une sulle altre, quasi senza bisogno di una malta legante, stabili e incastrate per sempre. Da tutto il manufatto proveniva un senso di compiutezza ed armonia, che rimandava alle proporzioni auree dei templi classici. Da allora riproposte da generazioni di artigiani che le avevano scolpite nei loro geni. Le ritroviamo anche nella umile e struggente bellezza dei casolari umbri. Ma la guerra si stava portando via tutto, anche quella sapienza costruttiva che dopo si sarebbe perduta per sempre. Proporzioni che rispondevano a moduli matematici, che dal cervello dove erano pensati e di cui costituivano la struttura, calavano e informavano di sé l’opera dell’artigiano. Zeno non poteva immaginare che decenni dopo quella chiesa e la piazza antistante sarebbe diventata occasione annuale d’incontro di artisti di tutto il mondo. Uno di questi, forse il più grande, morto giovane, come accade per chi è destinato ad entrare nel mito, volle essere sepolto in quelle mura, lontano dalla sua terra, perché aveva eletto Spoleto a sua vera patria. Continuarono a scendere, tra strade e case di pietra, buie talune, anguste, dove il cielo stentava a far capolino tra i tetti. Più spaziose altre e meno gradite, perché non offrivano riparo alla pioggia. Con l’acqua che scendeva era diminuita anche la temperatura dell’aria, si era in autunno ma quel tempo annunciava il freddo dell’inverno che di lì a poco avrebbe reso quelle pietre gelide, per il tormento degli uomini che le abitavano e di quelli che, come loro, le percorrevano. Si era portati a sognare il tepore delle case in paese, riscaldate dal fuoco che la legna del camino sprigionava intorno. Illuminava i visi e confortava il cuore, nell’attesa della buona stagione, quando ci avrebbe pensato il sole a riscaldare anche quelle pietre che stavano calpestando. Proseguendo nella discesa passarono davanti ad un tratto di mura costruito con enormi blocchi di pietra. Costituivano la primitiva cinta muraria risalente alla città degli umbri, o addirittura dei villanoviani-proto umbri che li precedettero. Su queste, e oltre, al di fuori di queste, mura più recenti erette dai longobardi. Da quando avevano costeggiato la rocca, la strada aveva preso a scendere sino a condurli alla porta d’uscita della città: porta Fuga. Sopra si ergeva una torre, la torre dell’Olio. I due nomi ricordavano agli spoletini il gesto eroico dei loro padri, che, tra i pochi nella penisola italica, si erano opposti ad Annibale. Questi, reduce dal trionfo sul console Flaminio nella battaglia del lago Trasimeno, ed incerto se sferrare l’attacco finale a Roma, aveva comunque preso a percorrere la Flaminia in direzione della capitale. Arrivato a Spoleto trovò le porte della città sbarrate e gli assediati in armi, che riversarono dalle mura e dalla torre, olio bollente. Alla fine, già dubbioso sulla opportunità di recarsi a Roma, decise di tornarsene indietro. Da qui Torre dell’Olio e Porta Fuga. Uscirono e poco dopo si ritrovarono in una grande piazzale.


Commenti

Una risposta a “IL VIAGGIO, 25 esima puntata”

  1. Avatar Soragni Barbarai
    Soragni Barbarai

    Spoleto.
    I tre viandanti si immergono nelle bellezze storiche che questa città offre.
    Costeggiano mure antiche, chiese, case .
    Ma il loro pensiero rimane quello di raggiungere la meta e fuggire da incontri indesiderati. Il tempo fa da padrone.