Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
VENTISETTESIMA PUNTATA
I due amici salirono davanti, nella cabina di guida, dietro sul cassone si sistemarono Zeno e Davide. Prima, seconda, terza marcia, l’autocarro rumorosamente prese a percorrere la Flaminia in direzione di Campello, andatura tranquilla, sui cinquanta km/h. Il motore rabberciato non consentiva di più e d’altra parte i discorsi e i ricordi avevano ripreso forza dentro l’intimità dell’abitacolo, e a tutto pensavano meno che a spingere il camion al massimo, o ad essere vigili in modo di non dare troppo nell’occhio e così evitare, per quanto possibile, brutti incontri. Se ne avvidero i due, dietro sul cassone, e Zeno prese a bussare sul tettino. Silvio si affacciò dal finestrino a chiedere spiegazioni, loro dissero e lui capì. Scossosi dalle narrazioni disse all’amico delle loro preoccupazioni. Nel frattempo sulla strada era aumentato il traffico di mezzi e persone e in lontananza si intravedeva la sagoma di camion militari. “
Non c’è problema”
rispose Arduino “
qui è pieno di strade bianche di campagna e molte vanno verso Campello. Ecco giriamo lì!”
L’autocarro svoltò a sinistra e percorsi un centinaio di metri si trovò davanti un passaggio a livello con le sbarre alzate che permise il passaggio sui binari della ferrovia Roma-Ancona. Superata quella, si ritrovarono in mezzo alla campagna. Campi coltivati intorno, a perdita d’occhio. Guardando verso nord-ovest dove la campagna si estendeva, non si riusciva a vederne la fine. Ai due lati si innalzavano i rilievi montuosi. Tra questi si cominciava ad intravedere la gobba massiccia del Subasio. Un sole caldo illuminava il mondo, la luce che irradiava su di esso assumeva i colori del marrone e del verde. Veniva dagli alberi a foglia caduca e da quelli sempreverdi, raccolti nei boschi o isolati nella campagna e sui monti intorno. Era una bella giornata di ottobre che regalava agli uomini un sollievo dal male che imperversava nel mondo. Ma in quel momento e lì, dava una pausa. L’autocarro procedeva lentamente godendo anch’esso del paesaggio, senza l’ambascia di incontri indesiderati. Quelli e il male di cui anch’essi erano espressione, erano confinati lungo quel tratto di Flaminia che avevano lasciato. Così pensava il camioncino e allegramente trottava verso casa. A destra, in parte sulla pianura, in parte aggrappato sul primo dei rilievi prospicenti, appariva il paese di Eggi. Più oltre, arroccato sul fianco della montagna, il paese di Campello alto. Entrambi cinti di mura. Era tutto quel territorio, proprietà dei conti di Campello, incluse le fonti del Clitunno, celebrate dai poeti. Feudo antico Campello, dipendente da sempre dalla vicina Spoleto. La sua origine si faceva risalire ai longobardi, ad opera di tal Rovero di Champeaux, che prima dell’anno mille arrivò in Italia al seguito di Guido, duca di Spoleto. Con alterne vicende la signoria e poi la proprietà era rimasta ai discendenti sino ai nostri giorni. L’autocarro procedeva nella campagna, avvicinandosi sempre più alla linea che segnava a nord-est il confine tra la pianura e la catena montuosa sovrastante. In un punto di quella linea erano le sorgenti del Clitunno, ed in prossimità di quelle stavano andando, dov’era il casolare di Arduino. Tutto il territorio che stavano percorrendo era parte del Comune di Campello, anche se della rocca situata in alto, sul fianco della montagna erano rimasti solo gli edifici, perché gran parte della gente e delle attività connesse si erano spostate in pianura. Dunque la rocca quasi deserta, con il Municipio e la chiesa parrocchiale, dove si conservava una preziosa reliquia della Santa Croce, spostate a mezza costa nella frazione di La Bianca. E poi da basso le altre frazioni di Pissignano, La Perla, e verso la montagna i paesi, una volta castelli, di Acera, Agliano, Spina, Pettino. Nomi e abitati sconosciuti se non fosse stato per la contiguità con le Fonti del Clitunno. Il fiume nasceva dall’emergere dalla terra di polle d’acqua che riempivano un invaso pianeggiante da cui l’acqua si riversava nell’alveo del fiume che lì prendeva origine. Il console Flaminio aveva pensato di tracciare la strada a ridosso della sorgente. L’amenità del luogo e la risorsa idrica non dovevano essere state ininfluenti nella scelta. Le fonti erano state celebrate nei secoli da viaggiatori famosi e poeti, da ultimo il Carducci, del quale si ricordano i versi appresi sui banchi di scuola. Saranno apparse come un miraggio al grande Giosuè, in viaggio in Umbria verso Città di Castello. Ed ebbe a scrivere di quel viaggio e delle Fonti in particolare. Ma già prima, queste erano ammirate e celebrate dai ricchi e nobili romani che arrivavano lì percorrendo la Flaminia, e, lasciatala, si imbarcavano e si facevano trascinare dalle acque del Clitunno sino a Mevania, l’odierna Bevagna dove il fiume termina, unendosi al Teverone. Da lì le acque saranno chiamate Timia, Topino, Chiascio, sino a gettarsi nel Tevere ai piedi di Perugia.
E nel loro fluire rendono florida e fertile la campagna umbra, affiorata dove una volta era un grande lago, del quale la ricchezza di acque del sottosuolo sono ancora testimonianza. Si imbarcavano i ricchi romani e lietamente intrecciavano ghirlande e recitavano odi, ma con loro, anche meno aulici imprenditori agricoli, che annualmente confluivano, da lì e da ogni dove del vasto impero, all’annuale fiera bovina della razza chianina che si teneva a Mevania
, come ci racconta Lucio Giunio Columella nel suo De Agricultura.
Procedevano verso la meta e Silvio aveva messo in pausa il cervello. Nel piccolo abitacolo, spalla a spalla con il vecchio amico, si sentiva liberato dalle incombenze che la realtà proponeva. Il pensiero andava al cantiere abbandonato, si perdeva negli ampi spazi della campagna romana, nell’aria pesante e torrida delle vaste distese assolate, volte verso il mare da presso, quasi a cercare un impossibile refrigerio. E così anche gli altri due sembravano partecipi di quella condizione di vacanza mentale. Davide sognava Lisa, Zeno la sua Regina e quel figlioletto che aveva visto così poco tra cantieri e guerre. Ormai aveva quattro anni, fremeva di gioia al pensiero che si sarebbe sentito chiamare babbo. Della guerra lì per fortuna non c’era traccia, forse in lontananza, verso Foligno si sentivano arrivare rumori che… Ma non vollero pensarci. Il casolare era in prossimità del Clitunno a non più di un chilometro di distanza dalle fonti.
Vi arrivarono che il sole alto nel cielo, raccontava la fine del mattino e l’inizio del pomeriggio, tra l’ora sesta e la nona dei chierici. Si fermarono nell’aia e scesero dall’autocarro, che con un ultimo singulto smise di gracchiare e si ammutolì esausto, accanto al covone di paglia, in prossimità dello stagno delle papere. Non c’era nessuno in casa, moglie e figli probabilmente nei campi o per altre incombenze. Arduino, data l’ora, pensò che era il caso di portarli a mangiare, e visto che non c’era nessuno in casa, che sarebbe stato un buon posto la locanda-trattoria a ridosso delle Fonti, sulle quali si affacciava con una veranda. Lì sarebbero stati non visibili dalla strada che passava accanto. S’incamminarono a piedi lungo la riva del Clitunno, a ridosso di filari di pioppi e salici. Sull’acqua si estendeva una coperta d foglie che cadevano dagli alberi, e sotto, il fiume correva veloce mandando bagliori intermittenti. Incontrarono anziani intenti a pescare con l’amo e la bilancia.
Cibo prezioso in tempi di magra, proteine nobili, mattoni per la resistenza del corpo e la speranza dell’anima. Fatte alcune centinaia di metri, arrivarono. Davide ebbe un moto di entusiasmo a vedere il laghetto da cui prendeva origine il fiume. Era una radura coperta d’acqua, che fuoriusciva dal terreno in prossimità della Flaminia. Se ne vedeva l’emersione dalla presenza di polle che facevano salienza sulla superficie. Grandi pioppi cinerini e salici emergevano da isolotti sparsi nella distesa liquida. Un ambiente ombroso con cigni e papere che navigavano pigramente nell’acqua. Il tutto suggeriva pensieri e stati d’animo di armonia e pace. Si comprendeva l’incanto che generava in animi sensibili e nei poeti, che da sempre lo avevano celebrato. Zeno e Silvio conoscevano quel luogo, più volte vi erano passati accanto, nel loro trascorrere la consolare per raggiungere i cantieri del lavoro. Però non si erano mai fermati, non erano viaggi da turisti i loro e d’altra parte in quel tempo non lo erano per nessuno.
Ed ora dinanzi alla meraviglia di Davide che si espresse in parole entusiaste, anche loro parteciparono all’emozione, ma con la moderazione che si addice a chi ha altre priorità nella vita. Così era per Silvio, pensava che le emozioni e i trasalimenti estetici erano per coloro che non avevano da combattere la battaglia della sopravvivenza. Ma nonostante questo valesse anche per Zeno, in lui le parole di Davide trovavano una rispondenza, un eco. Era una parte di sé che girava a quel modo. Ne aveva coscienza anche nello svolgersi del proprio lavoro. Gli accadeva che, al di là dei canoni stabiliti con i quali tirare su un muro o far girare una volta, sentiva la necessità, la voglia di andare oltre, di metterci del suo, qualcosa di nuovo. Era dar corpo con la pietra o i mattoni a sentimenti ed emozioni. Variazioni nella disposizione del materiale, decori, profondità delle lesene sulle facciate, variazioni delle coperture, altro. Raccontavano l’anima dell’artigiano che dava vita alle cose, le affrancava dalla loro dimensione di necessità.
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