Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
SULLA GARITTA DEL TRENO MERCI
Seduti sul rialzo erboso del terreno che delimitava da un lato i binari, e dall’altro la palizzata fenestrata in cemento, del tipo di quelle che ancora oggi residuano per lunghi tratti delle stazioni d’Italia, aspettarono. La terra era umida per la pioggia del pomeriggio, speravano in cuor loro di non dover passare tutta la notte sul terreno. “Forse è meglio che saliamo sulla garitta!” si dissero, ma Silvio rifletté che fuori avrebbero avuto più facilità di movimento in caso di imprevisti. Così stesero i pastrani sull’erba e consumarono una parte del cibo che il padrone della locanda, su nascosto invito di Arduino, aveva preparato per il viaggio. Mangiarono in silenzio e un’atmosfera di malinconia scese su di loro. Il pensiero di casa, della famiglia d’origine e della nuova che avevano formato, per Zeno e Silvio contigue, ed ora conviventi per via della guerra, evocava l’immagine ansiosa dei cari in attesa di riabbracciarli.
Per Davide, separato forse per sempre, evocava l’immagine dei genitori nel porto di Rodi, mentre la nave lo allontanava da loro, la mano del padre agitata in aria nel saluto augurale, le mani giunte della madre nel gesto di una preghiera. La malinconia come un velo aleggiava sulla loro coscienza e li univa in comunione con quelli che li pensavano e da tutti si affacciava dal profondo, prepotente, una muta preghiera a Chi tutto poteva, perché fossero salvi, protetti da ogni avversità. Per alcuni il distacco da casa è una necessità, di lavoro come per Zeno e Silvio, o per fuggire un pericolo come per Davide, per altri è un desiderio di libertà, di affrancamento dalla famiglia, un correre dietro i miti e le suggestioni giovanili, ed è per tutti strappo doloroso, violento a volte.
Ma il mondo e le persone lasciate non svaniscono, rimangono in loro, traccia sottile o pregnante a seconda delle disposizioni degli individui. Nel viaggio della vita costoro creano altri legami con nuovi mondi e persone e se si fermano è per stanchezza, per mete sempre più nebbiose da raggiungere. Quando dopo l’ultima sosta avranno timore di perdersi, affacciati ad un vuoto di disperazione, se avranno ancora tempo, si fermeranno infine e ritraendosi dal baratro, volgeranno gli occhi indietro come a cercare il padre che non aveva mai perso la speranza del ritorno. E sarà un’ultima possibilità, o una luce che li accompagnerà nell’ultimo tragitto.
Partire e tornare disegna un cerchio che in vario modo tutti percorriamo e tra coloro che non intraprendono il viaggio e coloro che si allontanano magari sino alla rovina, emblemi assoluti della passività colpevole o della virtù eroica, c’è la molteplicità dei qualunque che in modi diversi recitano la parte che il destino ha assegnato loro. Gli avventurosi vanno avanti, distruggono e ricreano sino alla fine. Alcuni ritornano.
Silvio sentiva che il lavoro all’expo 42 non sarebbe ripreso per il momento, e forse mai. Tutto sarebbe andato in rovina, macerie di quella grande impresa che aveva tirato su monumenti e cattedrali nella campagna romana. Avrebbero voluto celebrare la gloria della nuova Roma, ma il sogno era svanito. Rimanevano statue e marmi abbandonati sul terreno, già ricoperti da erbacce, in parte sottratte dagli sciacalli di turno che vengono fuori dagli anfratti delle loro miserie non appena avvertono un odore di abbandono e di morte.
Il paese dopo la guerra, pensava Silvio, sarebbe andato da un’altra parte, sconfitti gli anacronistici disegni imperiali di una rigenerata romanità, avrebbe guardato ai bisogni elementari delle persone. Ci sarebbe stato bisogno di tutto, di nuove case al posto di quelle distrutte dai bombardamenti, di lavoro, di industria da ricostruire, di agricoltura da modernizzare, di denaro da trovare. Nuovi riferimenti e alleanze internazionali, probabilmente con i nemici di ieri, con i quali da alcune settimane eravamo diventati alleati. Forse sarebbe ripreso il confronto dei socialisti e popolari con i liberali, interrotto bruscamente con la marcia su Roma e la decisione del re di dare a Mussolini il governo della nazione. Che ne sarebbe stato di tutti i fascisti, maggioranza del paese, a giudicare dalle folle oceaniche alle manifestazioni del regime e dal consenso alla dittatura che si era andato consolidando negli anni?
Non nutriva dubbi, il popolo si sarebbe riciclato, o per riconquistato spirito democratico, o per la meno nobile necessità pratica di sopravvivenza. Gli entusiasti adoratori del duce lo avrebbero sconfessato e se possibile lapidato. Ma più del popolo, la classe dominante degli aristocratici monarchici e dei ricchi borghesi liberali, contigui al potere e che erano stati i fiancheggiatori, se non gli artefici del fascismo. Questi avrebbero aderito al nuovo corso, rivendicando una verginità farlocca, ma sbandierata come adamantina. Silvio percepiva che tutto questo non lo avrebbe riguardato, era stanco, sentiva che il lavoro di tutta una vita stava terminando con il cantiere interrotto dell’EUR. Era ora di tornare al paese. La sua famiglia e quella più grande dei Paci aveva bisogno di lui. Il padre Attilio era vecchio, non aveva più molto da vivere, occorreva qualcuno che lo sostituisse, non poteva che essere lui. Si vedeva, le sere d’estate, seduto sulle sedie, che come per incanto uscivano dai portoni dello stradone, come risposta ad un appuntamento di sempre.
Gli uomini Paci, Aleandri, Parbuoni, e quelli delle altre famiglie sigillane che abitavano lì. A parlare del tempo, della giornata trascorsa, di politica, socialisti i più. Ancora lontana l’immigrazione massiccia dalle campagne bagnate dal fiume Chiascio e dai paesi del territorio eugubino, braccianti e contadini, da subito adepti del partito comunista che avrebbero fatto un loro quartiere fuori dal centro storico del paese, quasi a rimarcare la separazione.
In quelle sere d’estate, nella calma e serenità dell’età, della consapevolezza del dovere compiuto, Silvio avrebbe rivisto come fantasmi della mente, i volti e i gesti degli architetti che nella campagna romana disegnavano nell’aria il sogno della nuova Roma che si accingevano a costruire e sarebbero state le sue mani, le mani dei suoi, di Zeno tra gli altri, che avrebbero materializzati quei sogni. Quelle frequentazioni gli avevano fatto intravedere un mondo, oltre i bisogni quotidiani del vivere. Fantasie, desideri, che si proiettavano lontano. Avevano a che fare con gli studi e le conoscenze di quegli uomini colti, nel tentativo di renderli fatti, realtà storica.
Un altro modo di concepire la vita, oltre il presente, a rincorrere l’idea, conquistarla, perché fosse acquisizione di un uomo nuovo. In fondo era così anche per l’idea socialista, la lettura marxista della società industriale, del lavoro operaio, delle classi, fuori dalle dissertazioni accademiche, nella visione dello sfruttamento proletario, si era fatta carne, da cui la necessità di un’azione politica rivoluzionare atta a sovvertire l’ordine costituito, causa dello sfruttamento. Ma nel suo operare l’idea dimostrava una assolutezza coercitiva e violenta nei confronti degli individui, delle persone, che erano altra cosa dall’anonimato della massa. Sarebbe accaduto in Russia dove l’idea diventata assoluta avrebbe creato un regime iniquo ed oppressivo.
Il cielo era tornato sereno, si alzarono e si mossero per scrollarsi di dosso l’umidità che la pioggia caduta aveva sparso nell’aria e nel terreno dove erano seduti.
Dalla locomotiva usciva ancora fumo, segno di un fuoco non spento, in attesa di essere incrementato per rimettere in movimento gli ingranaggi che avrebbero comandato il movimento delle ruote. Tutto questo accadeva in ottemperanza alle leggi della termodinamica. Non si conoscevano quando le prime locomotive si misero in movimento, furono quelle macchine sbuffanti vapore a stimolarne lo studio e la scoperta, che avrebbe portato alle automobili di oggi e molto altro. Si aprì la porta del casotto e i due ferrovieri che vi erano entrati circa un’ora prima, ne uscirono e si diressero verso il treno. “Si riparte” si dissero i tre e precipitosamente salirono sulla garitta. Nel mezzo del sedile misero Davide che era il più magro e cosi avviluppati, ma non tanto scomodi da non godere il conforto di quella piccola casa, attesero la partenza.
Sentirono parlare i due macchinisti in procinto di salire. Nel silenzio della notte, se pur lontane, arrivarono parole che raccontavano della prossima sosta che sarebbe stata Foligno. Il treno, arrivato alla stazione, avrebbe preso un binario laterale, che dopo un centinaio di metri lo avrebbe portato dentro la grande fabbrica di aerei militari Macchi di via Piave. Una grande fabbrica che impiegava oltre duemila operai, la gran parte maestranze locali e una parte provenienti da Varese sede della fabbrica principale. Producevano su licenza aerei Marchetti-Savoia e nel periodo di direzione dell’ingegnere Troiani, reduce dalla sfortunata spedizione di Nobile sull’Artico a bordo del dirigibile Italia, a Foligno si produsse il prototipo di un nuovo aereo da caccia, tutto in metallo e armato sulle ali, in grado di competere con gli Spitfire inglesi e i Messerschmit tedeschi. Ma non ci fu tempo per passare alla produzione. Silvio e Zeno conoscevano la grande fabbrica, per via di loro compagni del paese, che vi lavoravano.
Era stata volontà del governo su progetto dell’ingegnere Macchi a volere quella fabbrica, gemella della più grande di Varese, al centro d’Italia, forse con lo scopo di occultarla in una località periferica, e/o anche per incrementare la trasformazione industriale dell’Umbria che oltre Terni era ancora regione ad economia prevalentemente agricola. Dallo sbarco in Sicilia in poi, i bombardamenti aerei degli alleati si erano andati intensificando, e ora che il re e Badoglio avevano dato vita ad un governo alleato ai passati nemici e contro l’alleato di ieri, si temeva il peggio, ovunque nelle città d’Italia. Le fortezze volanti cominciavano ad alzarsi in volo dagli aeroporti del Sud, con maggiore possibilità di colpire il territorio della repubblica con gli alleati tedeschi. Foligno era ancora parte di quello stato, e come era accaduto già a Terni, ci si aspettava un’incursione anche sulla città con la sua fabbrica aereonautica. In città c’era anche un aeroporto con annessa scuola di volo, vi era sceso con l’aereo da lui pilotato, Mussolini alcuni anni prima, in visita alla città e in particolare alla fabbrica Macchi di via Piave. Aveva fatto una comparsata nel Corso della città fermandosi per un caffè nel Gran Caffè Sassovivo, luogo d’incontro della borghesia cittadina. La passeggiata tra due ali di folla osannante che faceva ala al suo passaggio. Nel locale la tazzina dove aveva bevuto era stata appesa in una specie di bacheca. Chi sa quanto sarebbe durata ancora l’esposizione?
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