IL VIAGGIO: 31ESIMA PUNTATA

Verso Foligno

La fabbrica Macchi di Foligno rappresentava un bersaglio privilegiato, ancora non era accaduto nulla, ma non sarebbe durato a lungo. Forse il treno invece di portare materiale, andava a prelevarne, per spostarlo a Varese che era più lontana, e magari ancora meno esposta ai bombardamenti. Così dicevano tra loro i nostri. Nel frattempo la locomotiva cominciò a sbuffare e lentamente il treno si mosse, raggiunse la velocità di un procedere tranquillo, quasi a camuffarsi per quanto possibile nella notte intorno. Loro, stretti l’uno a l’altro, avvertivano il calore dei corpi che contrastava l’aria fredda proveniente dalle aperture senza vetri dell’abitacolo. Nel buio vedevano correre a sinistra in direzione di Spoleto, la vasta campagna che trascinava con sé i monti Martani dietro Montefalco; a destra incombevano da presso i contrafforti preappenninici. Su questo lato, dopo una manciata di minuti, apparve la sagoma scura di Trevi. Il paese era adagiato, come intento a scalarlo, su un rilievo collinare. Sì che le prime case erano in pianura e le ultime, sormontate dalla torre civica e dal campanile della cattedrale, in alto sulla sommità della collina.

Somigliava ad un albero di Natale, come quello che costruiscono gli eugubini per le feste di fine anno sul monte Ingino, dove sorge il santuario di S. Ubaldo, il loro santo patrono; o come la grande stella che gli abitanti di Papigno approntano per Natale sulla collina in prossimità delle acciaierie di Terni. Entrambi, l’albero di Gubbio e la stella di Papigno, fatti di luci, questo di Trevi di case, che quella sera erano buie per via della guerra, escluse alcune che permettevano di dare un nome a quella macchia scura che appariva ai viaggiatori.

Si ricordò Zeno di due commilitoni che aveva incontrato nel breve tempo trascorso in Albania, prima che fosse richiamato in patria per la morte del fratello, erano ufficiali, entrambi di Trevi e appartenenti a due famiglie importanti della cittadina, le più blasonate, forse nobili, non sapeva. Ma quelli parlando tra di loro e con gli altri, raccontavano dei loro palazzi e terre sulla montagna e in pianura che erano patrimonio delle famiglie da tempo immemore.

Si chiamavano Bartolini l’uno e Valenti l’altro, e Zeno aveva preso confidenza, quasi amicizia con Francesco il primo dei due. “Chi sa che ne sarà di loro?” pensò “Saranno tornati a casa come stava facendo lui, o incappati in qualcosa di brutto nella campagna di Grecia o dopo con i tedeschi?”. Ignorare la sorte di persone incontrate per caso, ma che ci hanno ispirato un sentimento, un senso di comunione, causa un vuoto, una mancanza che vorremmo colmare con notizie rassicuranti sulla loro sorte, magari per riannodare il rapporto o solo per rispondere a quell’afflato di bene che ci aveva unito, anche se solo per un breve passaggio della vita. Il timore che non ce l’abbiano fatta, accanto al dolore, induce inconfessata, la soddisfazione di averla scampata, di essere sopravvissuti, e nuova energia per proseguire.

Pietà per gli altri colpiti dalla sventura e sollievo per la propria salvezza, sentimenti contrastanti, divergenti, ma quanto reali! Non è sempre così, talvolta la prevalenza dell’un sentimento sull’altro può portare al disinteresse esecrabile per la sorte degli altri, o all’opposto all’incapacità di vivere la vita che ci è stata risparmiata, tormentati dal pensiero di chi non ce l’ha fatta, sino al volontario sacrificio della propria. Estremi di una curva gaussiana che illustra bene le condizioni di normalità e di eccessi deplorevoli o virtuosi che legittimano l’aspirazione al giusto mezzo. Il treno andava piano, ma la distanza tra Trevi e Foligno era poca cosa, circa dieci chilometri, così dopo poco tempo apparvero le prime case dell’antica Forum Flamini, la città cui il console costruttore della strada aveva dato il suo nome a perenne ricordo di sé. In questo caso la località con il nome del console segnava il punto di mezzo del percorso, che per la Flaminia era di 210 miglia romane (attuali 310 chilometri) tra Roma e Fano, la Fanum Fortunae di allora. Prima della città sfilarono a destra il paese di S. Eraclio, e a sinistra la pista dell’aeroporto con annessi gli edifici della scuola di volo e gli hangar.

Entrarono nella stazione. La scarsa illuminazione lasciava comunque intravedere una vasta area dove correvano numerosi binari separati da pensiline. Si trattava di un grande nodo ferroviario, con la linea proveniente da Roma che lì si divideva in due tratte, la prima che proseguiva nelle Marche per raggiungere Ancona, la seconda che percorreva la pianura centrale umbra sino a raggiungere Perugia e da lì, lambito il lago Trasimeno, entrava in Toscana per raggiungere Firenze. L’importanza della stazione aveva comportato posti di lavoro per gli abitanti della città, direttamente impiegati come personale a terra o viaggiante e soprattutto assunti nella più grande fabbrica di Foligno, oltre la Macchi, quella che aveva nome di “Grandi officine riparazioni delle ferrovie dello stato”. Sul tratto di Flaminia che, uscita dalla città attraverso Porta Ancona, si impegnava in un lungo tratto rettilineo a lato del quale sorgeva la grande fabbrica ferroviaria, avevano costruito un lungo caseggiato che ospitava gli operai con le loro famiglie, tipo i caseggiati operai a schiera delle città inglesi, e che loro avevano visto anche a Terni in prossimità delle acciaierie.

Il treno non si fermò del tutto, continuò un procedere sempre più lento, raggiungendo, per via di scambi inseriti rumorosamente, il binario ultimo verso est che conduceva dentro lo stabilimento aeronautico. C’era un portone in ferro all’ingresso che qualcuno da dentro si incaricò di aprire, costringendo per pochi istanti la locomotiva ad un fermo, che dette ai nostri occasione per scendere dalla garitta. Scesi si ritrovarono sull’ultima pensilina a vedere il treno entrare dentro la fabbrica, perdendosi oltre il grande portone in ferro. Prima che questo venisse richiuso, riuscirono ad intravedere fioche luci che illuminavano un ininterrotto lavoro notturno fatto di fumi e rumori metallici, e in uno spazio aperto, fuori dagli opifici, apparvero alcuni velivoli, pronti per essere trasportati all’aeroporto per la prova del decollo. Poi non si vide più nulla, un clangore metallico perso nel buio della notte, raccontava il lavoro indefesso di mani e intelligenze, chiamate a fornire illusioni di un riscatto militare che appariva tragicamente chimerico.

Si ritrovarono soli nella grande stazione, non treni in transito, né persone in attesa, solo una locomotiva vagante tra i binari ad agganciare vagoni che poi spingeva in un binario laterale, raccolti come ad un convivio che sapeva di cessazione di ogni attività, tutti sovrastati e annichiliti da una aura di distruzione e morte che incombeva nell’aria come un’attesa minacciosa.

Di lì a poco avrebbe avuto la forma di grossi e sgraziati mostri metallici sempre più grandi e terrificanti nel loro progressivo avvicinarsi alla città. Era già accaduto a Terni, quando sarebbe stata la volta di Foligno? Avrebbero potuto quei piccoli aerei che avevano visto sul piazzale della fabbrica contrastare la missione di guerra dei bombardieri americani? Si mossero lungo l’ultimo binario in direzione di una strada che li attraversava tutti. C’erano due sbarre ai lati che si abbassavano e alzavano in relazione al passaggio dei treni e un casotto dove viveva il casellante con la sua famiglia, addetto a quella funzione. In quel momento le sbarre erano alzate.

Raggiunta la strada, abbandonarono la stazione e si ritrovarono in via Piave lungo la quale su un lato correva l’alto muro di cinta della fabbrica, interrotto dopo una diecina di metri dall’ingresso per mezzi e maestranze. In prossimità si innalzava una torretta che ospitava la sirena per il cambio dei turni di lavoro, in alto ben visibile la scritta” Credere Obbedire Combattere”. Proseguendo, la strada era contornata sui due lati da case a due piani in stile liberty, ognuna con un giardinetto intorno, che, essendo la strada in salita, suggerivano l’idea di residenze agiate per una borghesia cittadina alla ricerca di aria salubre, discoste dal centro cittadino dove dominava un clima umido e nebbioso d’inverno e caldo d’estate.

La presenza del fiume Topino che lambiva le mura della città e con un ramo le attraversava, non aiutava, pur avendo il pregio di essere la piscina all’aperto degli sportivi e la riserva di pesce per le mense della città. Invece le case di via Piave erano immerse in una campagna che iniziava a cedere spazio ai boschi e agli uliveti dei primi rilievi montuosi che avrebbero terminato la loro ascesa nell’altopiano di Colfiorito. Poi era arrivata la fabbrica, le abitazioni avevano conservato l’impronta gentile ma ne avevano un po’ risentito come salubrità e quiete bucolica. Alcune erano la residenza di tecnici varesotti che lavoravano nella fabbrica, come il motorista Sonzini nella casa al civico 20. Non a caso i nostri avevano preso la strada nella direzione che andava in salita, invece di scendere per ricongiungersi alla Flaminia che avrebbero dovuto tornare a percorrere per proseguire il viaggio.

Quel Sonzini era fratello di un geometra, collega di lavoro dei nostri nel cantiere dell’Expo 42 ed entrato presto in amicizia con loro. Quando Silvio gli aveva detto dell’Umbria da cui venivano, il geometra aveva raccontato del fratello che da Varese era stato trasferito nello stabilimento di Foligno. L’ultima volta che si erano visti, il geometra li aveva pregati di passare a trovarlo, fornendo loro l’indirizzo. Da un po’ di tempo non aveva ricevuto sue notizie e oramai anche lui, il geometra, sarebbe tornato a Varese per via della chiusura del cantiere. Dunque le comunicazioni con Foligno sarebbero state più difficili. Si era molto raccomandato con loro e da ultimo a Silvio erano tornate in mente quelle parole quando si erano approssimati a Foligno.

Però, “chi sa dove sarà Via Piave”? aveva pensato, e loro non erano nella condizione di mettersi a girare per la città di notte per cercare una strada e portare dei saluti. Non sapevano che la fabbrica Macchi fosse in via Piave e quando uscendo dalla stazione avevano vista la scritta sul muro in prossimità del passaggio a livello, nella mente si accese, accanto all’impegno di rispettare una promessa, la possibilità di chiedere un aiuto per la notte. L’ora non era tarda, non era ancora mezzanotte, forse potevano rischiare un tentativo. Arrivarono in prossimità della casa, l’ingresso principale si apriva su via Piave, uno secondario su via Monte Grappa che lambiva la facciata laterale dell’abitazione, le altre due erano a confine delle case limitrofe. Un giardino ingentiliva il terreno che si estendeva intorno alla casa, più ampio sul davanti e dietro, meno esteso ai lati. Il confine era delimitato da un basso muretto, sopra una siepe di edera sostenuta da paletti che disegnava il limite tra il sé e il resto del mondo. Due piani con finestre incorniciate da elementi.


Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *