IL VIAGGIO, 33ESIMA PUNTATA

ALLA VOLTA DI VESCIA

Si alzarono dopo la notte ristoratrice, si vestirono, poi uscirono in giardino, e aperto il cancello si trovarono in Via Piave. Stava facendo giorno, il chiarore era tutto dietro il monte di Pale che nascondeva ad est la montagna folignate con il valico di Colfiorito sulla sommità, dopo quindici chilometri circa da dove si trovavano. Da lì si scende nel territorio marchigiano del Maceratese. Si, perché via Piave era il tratto cittadino della statale Val di Chienti che prendeva origine dalla Flaminia poco dopo l’uscita di questa da Foligno attraverso porta Ancona. Dopo venti metri dal suo inizio, Via Piave-Statale Val di Chienti incontrava il passaggio a livello che avevano attraversato la sera. Quindi costeggiava la fabbrica Macchi e poi la casa dove avevano pernottato. Da lì, subito in salita, la strada per circa cento metri era separata dalla campagna intorno da una doppia fila di villini in stile liberty. Poi una curva a sinistra, e un’ultima casa con la scritta sul muro dell’altitudine e del limite della città dalla campagna collinare circostante. Proseguendo, la strada attraversava paesi via via di altitudine maggiore, sino agli oltre ottocento metri dell’altopiano di Colfiorito. La strada era stata uno dei percorsi seguiti dai viaggiatori del gran tour nell’Ottocento, che scrissero pagine toccanti nel descrivere la meraviglia all’apparire dall’alto della grande pianura umbra.

Ci passavano anche i marchigiani diretti a Roma e Leopardi tra loro, che soggiornò a Foligno, una volta raggiunta la Flaminia e forse dormì nello stesso albergo dove pochi anni prima aveva riposato Goethe, non riportandone una grande impressione. Una località amena, l’altopiano che racchiudeva una palude, meta di sosta degli uccelli migratori, e un paese, residenza estiva delle famiglie borghesi della città, trasferite lì per godere della frescura e dell’amenità del posto. Luogo anche di memorie storiche, che la tradizione suffragata da ritrovamenti archeologici e testimonianze storiche, rimandava ad una civiltà preromana databile sin dal III millennio a.C. con insediamenti stabili, poi evoluta in una società strutturata dal IX secolo a formare un popolo umbro, i plestini, sembradi origine filistea.

Inserito nel territorio romano fu teatro, durante la seconda guerra punica, di uno scontro tra la cavalleria romana, reduce dalla battaglia del lago Trasimeno con quattromila uomini condotti dal pretore Caio Centenio, e le truppe cartaginesi di Maarbale. Anche la toponomastica del territorio circostante conferma il fatto d’armi, come con il nome di un paese del vicino agro nocerino: Africa. Fa pensare all’altro paese sul Trasimeno che ricorda quella battaglia dal nome suggestivo di Ossaia. Ricordo dell’immane tragedia dei soldati romani trucidati dai cartaginesi.

A loro però della statale Val di Chienti e di tutte quelle storie, ancorché sconosciute, non interessava molto, perché dovevano riguadagnare il passaggio a livello e immettersi sulla Flaminia per continuare il viaggio alla volta di Vescia, il primo paese che si incontrava uscendo da Foligno da porta Ancona. Da lì, per un miglio la strada sarebbe corsa diritta sino ad arrivare alla chiesa di San Paolo che la divideva in un troncone principale, e in un diverticolo detto la “corta di colle” che raggiungeva la statale Val di Chienti, eliminando tutte le giravolte del primo tratto, da cui il nome di “corta”. Ce n’erano altre tre di porte in città, ognuna prendeva il nome della località dove era diretta la strada che lì prendeva origine: Firenze, Roma, Todi e ognuna, dopo un miglio, aveva una chiesa a cui si arrivava percorrendo un rettifilo. Ricordavano il miglio aureo che a Roma segna le consolari, dopo l’origine dal Foro. Per la Flaminia forse la porta Fontinalis o Ratumena sulle mura serviane, che i nostri avevano designato come luogo dell’appuntamento per il viaggio da intraprendere.

Arrivati al bivio si girarono a guardare la città alle spalle. Videro Porta Ancona chiusa, con della gente davanti che ne attendeva l’apertura. Erano uomini della campagna e delle colline intorno, con asini al fianco, carichi dei prodotti autunnali della terra da portare al mercato di piazza dell’Erba. Volsero il cammino dall’altra parte in direzione della chiesetta di San Paolo che si intravedeva in fondo al viale. A destra costeggiarono le mura delle Grandi Officine Ferroviarie, a sinistra un lungo caseggiato, abitazione degli operai con le loro famiglie. Oltre, rare case lungo la via che non sapevano più di città. Niente traffico di mezzi o uomini, esclusi alcuni ritardatari all’appuntamento con il mercato. Non faceva freddo, camminavano senza parlare sotto un cielo nuvoloso, in fila sul ciglio della strada, al limitare di un canale dove scorreva un rivo copioso d’acqua.

Era una diramazione del fiume Menotre, che veniva giù dalla montagna, precipitando da una cascata ai margini del paese di Pale, dopo aver messo in movimento le macchine della cartiera Sordini. Il paese era ai piedi dell’omonima montagna che vedevano, davanti a loro e un po’ a destra, ergersi alta e aguzza verso il cielo. A sinistra la grande gobba del Subasio con la visione di sghembo di Spello e in parte di Assisi, “ove Subasio frange più sua rattezza” che si affacciavano sulla grande pianura. Ancora a destra sulle prime colline vedevano il colle che ospitava il convento dei frati cappuccini, su un colle vicino il convento di San Bartolomeo dei frati dell’Ordine fondato nel XIV secolo dal beato Paoluccio Trinci. Più lontano ed in alto la monumentale Abbazia benedettina di Sassovivo.

Ma non si incontra nessuno in strada? Certo è ancora presto, ma sembra che la gente sia tutta in casa, senza voglia di uscire!… C’è la guerra, si va in giro solo per necessità, si temono bombardamenti aerei degli alleati, fascisti e tedeschi minacciano vendette per il tradimento del re e di Badoglio….. Timore di una guerra civile fratricida tra italiani, dentro la più grande tra tedeschi e alleati. Giovani uomini vanno in montagna per evitare l’arruolamento nell’esercito di Graziani a fianco dei tedeschi, e anche stanchi di questa guerra che dura da troppo e non se ne può più di tutte le feluche, le parate militari, i discorsi roboanti, la patria, l’impero …. Era tutto troppo grande, sbagliato per noi, per l’Italietta che siamo, da duemila anni, da quando è sparita la gloria di Roma. Averla riproposta, illudendosi che fosse possibile riattualizzarla, forse è stato un bel sogno, ma solo un sogno. Ci hanno pensato da subito le montagne della Grecia, il deserto africano, le steppe della Russia a far crollare il castello di menzogne, figlie di ignoranza e sciatteria di chi le aveva cavalcate, degli stessi che in quei giorni in massa andavano ad affollare le schiere dei pochi che avevano da tempo denunciato l’inganno….

Qualcuno che avesse riflettuto sugli accadimenti di quegli anni e del tempo attuale avrebbe potuto avere questi pensieri che giravano nell’aria, ma assoluto dominava il desiderio di salvarsi, di farsi i fatti propri. Poi ci avrebbe pensato la storia ufficiale a decretare il campo del bene e del male, a seconda di come andava a finire.

Si sarebbe detto che si era rivendicato l’onore d’Italia che non aveva tradito l’alleanza con i tedeschi, o invece che si era riscattato combattendoli a fianco dei passati nemici. Si sarebbero scomodate le grandi idee per giustificare le scelte di campo, estranee ai più nei momenti di pericolo della vita, patrimonio quelle solo di minoranze, come degli irriducibili ancora in galera perché comunisti e comunque antifascisti, o quelli dell’altra parte che in quei giorni stavano confluendo nei battaglioni Nembo, Barbarigo, e nella X Mas a rinforzare le truppe germaniche sul settore tirrenico della zona di Roma, dove si sarebbe verificato da lì a poco lo sbarco degli alleati. Quell’ottobre del 1943 stava finendo in un’atmosfera sospesa, gravida di temuti lutti incombenti. Se ne percepiva la minaccia, e la vita nelle strade delle città non era più quella dei mesi precedenti, quando si era in guerra, ma ancora lontana. Ora si annunciava in casa. Quei pensieri giravano per la testa della gente e anche dei nostri che se ne facevano cenno nel loro camminare alla volta di Vescia. Davide tra loro era il meno preparato a raccapezzarsi in quel bailamme nel quale l’Italia era precipitata e con essa il mondo. Era cresciuto lontano dalla patria, in una periferia privilegiata dell’italianità. Si era sentito parte di quel disegno di grandezza che il regime aveva proposto, avvertiva che lui come altri della sua età avevano trattato spocchiosi i nativi di Rodi, come fossero gente da civilizzare, da evangelizzare al nuovo credo politico. Ora dinanzi al pericolo dei tedeschi aveva lasciato Rodi, e con l’isola e i suoi aveva lasciato lì anche i miti della sua età. Il dolore dell’abbandono attenuato dalla sfida dell’avventura, per un giovane che si apriva alle prove della vita. E quello che vedeva intorno, e i discorsi dei suoi compagni finivano per distruggere le ultime certezze se ancora ce n’erano. Se tutto fosse andato bene sarebbe arrivato ad Ancona da quei parenti di cui aveva solo sentito parlare, senza averli mai incontrati. Erano il suo riferimento ma più passavano i giorni, più non era entusiasta di quella cosa. Non era più lo stesso giovane di prima, della sua vita a Rodi, avvertiva in sé un cambiamento, come un’attesa di cose che lo avrebbero preso.

Percorso circa un chilometro oltre la chiesa di San Paolo cominciarono ad intravedere le case di Vescia. Per tutto quel tratto di strada, a destra della via si estendeva la grande tenuta agricola dei Morotti, una famiglia benestante di Foligno che aveva un palazzo nobiliare in città. La proprietà era delimitata da un basso muro che non nascondeva agli occhi dei passanti la grande villa padronale. Ci si arrivava per uno stradino che partiva dall’ingresso della tenuta. Lungo il percorso, gruppi di cipressi graziosamente disposti come in un disegno d’artista. La campagna coltivata intorno, nella pianura e sui primi contrafforti collinari, che in alto confinava con la più grande tenuta dei Clarici estendentesi verso la montagna a comprendere il territorio della Abbazia benedettina di Sassovivo, di cui la famiglia possedeva una parte. Al tempo del potere temporale dei Papi il convento non era solamente un gioiello architettonico, dominava una moltitudine di comunità religiose e territori, anche nella capitale come la chiesa dei Santi Quattro Coronati. Napoleone e poi i Savoia ne decretarono il declino con lo smembramento della proprietà e la divisione in tre parti del monumento: al demanio, ai Clarici, al vescovo di Foligno. Tutto intorno il secolare bosco di lecci sopravvisse in parte, circondato da un immenso uliveto. La proprietà dei Morotti invece era agricoltura nella pianura e ulivi e frutteti sulle colline con casolari sparsi che ne facevano un quadro pittorico suggestivo da cartolina turistica o disegno di viaggiatori del gran tour.


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