ROMANZO A PUNTATE
Direzione Ponte Centesimo
Arrivati in paese, la prima casa che si trovarono davanti fu un edificio alto, quasi un grattacielo rispetto alle altre case, le più solo pianoterra, alcune ad un piano. Una bella costruzione dalla tinteggiatura celestina che non a caso era chiamato dalla gente il “Casone”. Loro erano diretti lì, sin dall’inizio del viaggio vi avevano stabilito una sosta, ed ora erano arrivati. Lì, perché era casa di parenti stretti, vi abitava un ramo della famiglia Paci. Più esattamente un fratello di Attilio (il padre di Silvio), Francesco detto Checco, da Sigillo vi si era trasferito anni prima, quando lo sviluppo industriale di Foligno aveva promosso una attività edilizia importante. C’era bisogno di artigiani validi e lui Mastro Checco, capomastro come il fratello Mastro Attilio, vi aveva messo in piedi una impresa edile. La dimora invece, in quel paese vicino alla città, un posto tranquillo simile a quello lasciato, di lato alla strada che lo avrebbe riportato a Sigillo, se le cose non fossero andate. Era come dare corpo, materia, ai pensieri: la via Flaminia davanti il portone, sarebbe bastato ripercorrerla nella direzione del ritorno, c’era la casa di sempre che aspettava. Forse anche per questo la dimora non era in città, si sarebbe potuto dire una mancanza di determinazione a causa di radici e vissuti che confliggevano con il nuovo.
E sarà stato anche per questo che agli inizi del secolo, la grande emigrazione in America di giovani di quei paesi appenninici non aveva coinvolto i ragazzi della famiglia, eccetto uno. Dunque dimora a Vescia, un paese dal nome impronunciabile ma in quella bella casa che Francesco aveva messo a posto e fatta più bella. Con lui la moglie e i figli: Edmondo ed Euro e Luigi, Adriano, Luigi, Giuliana. I più grandi, arruolati nel lavoro della muratura, e gli altri contigui ad essa, come Elio falegname, in qualche modo Adriano contabile, e poi Giuliana l’unica femmina, e da ognuno nuove famiglie e quindi figli, e ad infoltire il tutto anche Dante un nipote, fratello di Silvio.
Questi bussò alla porta, da dentro aprirono, comparve lo zio. Furono espressioni di gioia ed affetto, poi entrati in casa fu un accorrere degli altri presenti a casa. Cugini e cugine che chiedevano che ci facessero lì, li sapevano a Roma, e giù Zeno e lui a raccontare di loro, del compagno di viaggio, e di rimando loro. Poche notizie da Sigillo, ma proprio in quei giorni si stava ragionando di mandare i piccoli su in paese per allontanarli dai pericoli dei bombardamenti che si temevano in città. Avevano scritto allo zio Attilio in questo senso e si era fatto vivo Umberto che stava predisponendo dove alloggiare i ragazzi. Prepararono per loro una lauta colazione che era quasi un pranzo. Tra discorsi e mangiare e riposo si fermarono a lungo.
Oltre a mastro Checco e le donne di casa c’erano i figli più giovani, gli altri erano in giro per cantieri ancora attivi in città nonostante la guerra, lavori per lo più di manutenzione, non nuovi progetti, dati i tempi. Mattina piena di materia e sentimenti, ma ora si trattava di ripartire. “Ma come?” Si preoccuparono i parenti. “Di nuovo a piedi?” I tre che lo davano per scontato chiesero se loro avessero alternative da suggerire. Intervenne Edmondo, il primogenito che era rientrato da poco in casa a prendere il furgone del lavoro. “Qui accanto c’è la stazione ferroviaria di Scanzano, vi si fermano i treni merci per caricare i prodotti dello scatolificio militare.” disse. Si trattava di un grande complesso situato fuori del paese sulla strada che andava a Belfiore, strada che come la corta di Colle fungeva da scorciatoia per la statale val di Chienti dove si immetteva all’altezza del paese di Pale. Belfiore come certifica il nome si presentava al visitatore con un aspetto gradevole ed edifici importanti tra i quali il grande convento dei padri somaschi, restaurato pochi anni prima ad opera di un’impresa dove aveva lavorato come assistente Zeno.
Se si passa l’impropria similitudine Belfiore appariva come un vecchio signore dai tratti aristocratici. Popoloso e antico aveva la dignità che gli veniva da una storia di laboriosità e la presenza di individualità che guardavano oltre la dimensione locale. Come fu per un figlio illustre, socialista della prima ora, che fu senatore del regno e antifascista irriducibile da meritarsi il confino. In quei giorni si sapeva di un suo coinvolgimento nella costituzione del CLN, il comitato di liberazione nazionale. Veniva da una famiglia di proprietari terrieri ed industriali cartari, che avevano in paese la fabbrica. E non era la sola attività manifatturiera presente nel paese, a giustificare la spocchia e superiorità con cui i belfioresi si relazionavano con i vicini vesciani, senza storia questi e con una attività economica fatta principalmente di commerci legati al transito sulla via Flaminia.
Alterne fortune legate ai cambiamenti occorsi nella storia in termini di sovvertimenti politici, immigrazioni, invasioni, caduta di imperi e altro. Durante il Medioevo quando la strada di comunicazione più importante non era la Flaminia, come era sempre stata e sarebbe tornata ad essere, Vescia di fatto non esisteva. I traffici si svolgevano lungo via della Spina, una strada montana più sicura rispetto alla consolare che correva in pianura. Allora non c’era più la manutenzione stradale che Roma aveva garantito per secoli, e oltre a questo la Flaminia era teatro delle scorribande dei barbari, gli immigrati irregolari di allora. La via della Spina era così importante che i conti di Campello ancora oggi se ne fregiano sul loro stemma.
“Potrebbe essere una buona soluzione. Non è difficile trovare il modo di salire su un vagone. Però c’è il pericolo dell’incontro con i militari che controllano la fabbrica e la stazione, per paura di colpi di mano da parte delle bande che si vanno raccogliendo in montagna”. Continuò Edmondo, e raccontò che qualche giorno prima si era verificato qualcosa del genere. Dal territorio del monte Pennino era sceso a Nocera un gruppo di una ventina di persone che avevano attaccato la caserma dei carabinieri per prendere le armi, si era verificato uno scontro a fuoco, con alcuni partigiani e carabinieri feriti. I rivoltosi erano comandati da slavi evasi dal campo di concentramento di Colfiorito, ma c’erano anche giovani di Foligno tra i quali Antero Cantarelli, un cattolico impegnato in politica che era rimasto sfregiato in volto. “Intanto potreste venire con me” riprese Edmondo “devo andare in località Ponte Centesimo, una decina di chilometri da qui nella direzione del vostro cammino.
Vi sistemo sul furgone, uno accanto a me e gli altri due sul cassone dietro, tra gli attrezzi”. La località prendeva il nome da un ponte romano di cui rimaneva solo l’imposta e qualche pietra nel greto del fiume Topino sopra il quale era stato costruito. Zona di resti archeologici quella, oltre il ponte, il cui nome ricordava la distanza in miglia da Roma, ed era sostanzialmente corretta. Secondo altri indicava il centesimo ponte sulla Flaminia a partire dal Foro, e che si sappia nessuno aveva verificato la congruità della misura. Anche perché di tanti ponti non ci sarebbe stata più traccia, scomparsi nel corso dei secoli. Comunque oltre il ponte era stato riportato alla luce un viadotto della consolare primitiva che sormontava un chiavicotto per il drenaggio delle acque verso il prospicente Topino.
In prossimità, la chiesa di Santa Maria Assunta che nella parte inferiore della facciata mostrava blocchi di pietra di epoca romana con cui era stata costruita la precedente Abazia paleo-cristiana, punto di riferimento importante di tutto il territorio, come la qualifica di Pieve attestava. Nel territorio una comunità di cui parla anche Plinio il Vecchio nella “Naturalis Historia”, i “nucerini favonienses”, distinti dai “nucerini camellari” della vicina Nocera. La strada correva lungo la pianura nei pressi del fiume, poi caduta Roma, per i motivi già ricordati, la via fu spostata verso la collina dove corre ancora oggi e dove all’altezza della stazione ferroviaria di Pieve Fanonica, sulla collina antistante, si trova un’edicola del 1600 che ricorda lavori di manutenzione della strada danneggiata dalla piena del fiume Tinia, il Topino di oggi.
Il nome latino Tinia era stato preceduto dal termine umbro Supunna. Nomi diversi di lingue e civiltà diverse ad indicare il medesimo fiume. La natura appare immutabile in confronto alla variabilità della storia umana. Non lo è, ma occorrono tempi lunghi perché i cambiamenti occorrano, e se accadono improvvisamente, significa catastrofe. Per intanto, umbri e romani sono scomparsi e anche noi non stiamo bene. E il Topino continua a portare acqua dai monti di Nocera sino alla pianura umbra, magari un po’ meno del passato per il furto da parte dei signori di Perugia. E nei secoli Nocera ne ebbe grande lustro per la salubrità delle acque salvifiche. “Nocera delle acque” dove anche Francesco malato si recò a berne per riacquistare un po’ di salute compromessa dai digiuni, dalla vita errabonda, dall’ascesi. Chiedeva ancora un po’ di vita per continuare a lodare il Signore ed insegnare agli altri, in modo che fosse più lontano il tempo della dimenticanza. E dove anche un imprenditore milanese aveva portato la figlia malata. Ottenuta la guarigione mise su un’impresa per la captazione dell’acqua, l’imbottigliamento, e la commercializzazione sotto il simbolo del leone e la scritta “Acqua di Nocera Umbra Felice Bisleri”.
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