IL VIAGGIO, 35ESIMA PUNTATA

Sistemati sul furgone partirono.

Ai limiti del paese trovarono un assembramento di militari, Edmondo deviò immettendosi su una strada laterale che li avrebbe condotti, superato il Topino, a San Giovanni Profiamma. Lì avrebbero incrociato la via Flaminia primitiva, quella che viene da Bevagna e che si sarebbe ricongiunta più avanti con quella che li aveva portati a Vescia. Percorsi alcuni chilometri la raggiunsero in prossimità di una chiesa di epoca paleo-cristiana, proprio all’ingresso del paese di San Giovanni. Chiesa di grande importanza storica perché sede vescovile sin dall’inizio dell’era cristiana e luogo di culto di Forum Flaminii, la città edificata poco dopo la costruzione della strada dal console Flaminio medesimo a perpetua memoria, e posta nel punto di mezzo tra Roma e Fano. Passarono velocemente tra le case del paese, dopo avere costeggiato alcuni manufatti, parallelepipedi in opus cementizia, che erano tombe di epoca romana di viaggiatori deceduti sulla via. Ne rimaneva quella testimonianza muta, ormai senza più un nome che ne ricordasse l’identità. Oltre San Giovanni Profiamma, i due tratti della Flaminia si ricongiunsero in località Ponte Centesimo.

Lì doveva fermarsi Edmondo per risanare il tetto di una casa colonica, di proprietà di Fiordi Ottavio che oltre la casa aveva un terreno di piccole dimensioni, circa un ettaro, da cui, come contadino, tirava fuori a stento di che vivere per sé e la famiglia. Per questo motivo integrava il bilancio familiare con il lavoro a giornata di manovale nell’impresa di Edmondo. Ora questi lo avrebbe aiutato nel lavoro del tetto probabilmente senza pretendere compensi, a giudicaredall’affetto con cui Edmondo ne parlava. In vista della casa il furgone si fermò e loro scesero, saluti e abbracci, e ultime raccomandazioni. “ Continuate ad essere prudenti, la zona da Foligno a Nocera non è tranquilla, tedeschi e fascisti si stanno riorganizzando con presidi nel territorio per mantenere l’ordine e combattere i movimenti ancora isolati che si vanno costituendo in montagna. Si sente parlare di imminenti rastrellamenti per catturare in particolare i fuoriusciti dal campo di concentramento di Colfiorito, slavi in primis che vengono descritti particolarmente determinati e feroci, mentre gli inglesi hanno solo desiderio di raggiungere la linea del fronte per ricongiungersi con i loro. D’altra parte i tedeschi devono concentrarsi nei combattimenti con gli alleati e hanno necessità di una retrovia che non crei problemi. Di più hanno bisogno di uomini da inviare in Germania per il lavoro coatto e di giovani per le armi, da utilizzare al fronte, i fascisti sono il loro braccio esecutivo. Ecco che farsi trovare in giro senza validi motivi è molto, molto rischioso”. Così sentenziò Edmondo con eloquio e movenze da aspirante patriarca. Ne aveva l’aspetto, bell’uomo, alto, signorile, se non fosse stato per le mani callose che ne denunciavano il mestiere materico, modi che sarebbero stati ancora più raffinati se sostenuti da frequentazioni adatte, che comunque in qualche modo ricercava, se si voleva dare un significato alla sua non saltuaria presenza nel teatro Piermarini al Corso di Foligno dove si davano commedie o nel Cinema Impero dove si davano le opere liriche. Si salutarono dunque, lui alla volta del casolare posto su un coppo a sinistra della strada, loro che presero a procedere in direzione di Valtopina, il comune successivo che avrebbero incontrato dopo alcuni chilometri. La strada svoltava bruscamente a sinistra, più a ridosso della collina, proprio all’altezza dei resti del ponte deruto. Ponte Centesimo una volta crollato, probabilmente dopo la fine dell’Impero, tramontata anche la capacità costruttiva e tutto il resto, non fu ricostruito causando l’interruzione della strada. Di conseguenza deviarono la strada a ridosso della collina dove da allora corre. Forse per questa ragione quella curva innaturale della via. Percorsi circa cento metri, al bordo della strada notarono due cipressi che delimitavano una lapide in pietra con una scritta: il nome di un cantoniere dell’Anas, lì’ caduto sul lavoro. Lessero e rimasero sbalorditi, si trattava di uno del paese, in qualche modo lontano parente, come si è tutti nelle piccole comunità. Si chiamava Alessio Gambini, non altrettanto bene si leggeva la data dell’infausto giorno, ma doveva essere recente se loro non ne avevano saputo nulla. Rimasero alcuni momenti in silenzio come una muta preghiera. All’altezza dell’edicola si distaccava una via che scendeva ad un livello inferiore del terreno, dove scorreva il fiume e dove sorgeva un agglomerato di case. Proseguendo, la strada dopo alcuni chilometri avrebbe condotto al paese di Capodacqua, e da lì, su per la montagna a raggiungere il piano di Colfiorito. Ce n’erano in giro per l’Umbria di posti con quel nome, tutti avevano a che fare con luoghi di confluenza di corsi d’acqua, magari imbrigliata e raccolta per la distribuzione verso le grandi città. La sciarono la Flaminia e imboccarono quella via laterale, per raggiungere la stazione ferroviaria di Pieve Fanonica poco distante. Si diressero lì per vedere se c’era qualche possibilità alternativa alla marcia.Si trattava di una piccola stazione che serviva le persone dei paesi intorno: Capodacqua, Afrile, Cupacci, e di altri sulle colline, più lontani. Si era fatto mattino inoltrato, il cielo nuvoloso senza annunci di pioggia, la temperatura mite. Non erano stanchi, avevano camminato quasi niente rispetto ai giorni trascorsi: quel breve tratto da Foligno a Vescia. Poi, rifocillati nel corpo e nell’anima in casa dei parenti, via con il furgone sino a Ponte Centesimo. Calcolarono che non rimaneva tanta distanza per la conclusione del viaggio: circa quaranta chilometri per loro. Per Davide era diverso, proseguire alla volta di Ancona per lui avrebbe comportato salutarli prima di Sigillo, nella zona di Fossato di Vico, località Osteria del Gatto. Lì un diverticolo si distaccava dalla Flaminia per raggiungere il paese di Fossato e poi su per la montagna sino al valico dove si scavalcavano gli Appennini per scendere a Fabriano nelle Marche e proseguendo si raggiungeva Ancona. Il sedersi sulla panca della piccola e disadorna sala d’aspetto aveva il senso non di un riposo, piuttosto era la necessità di una pausa della mente,tanto più incombente da far loro dimenticare la prudenza che avevano manifestato per tutto il viaggio. Erano entrati senza curarsi della presenza di altri, magari di militari!! Quello stare lì a dispetto delle regole che si erano imposti e che Edmondo poco prima aveva rafforzato con il suo saluto, era dovuto ad un languore stanco che non aveva a che fare con i muscoli e le ossa. Qualcosa dentro, inconsapevolmente, imponeva quella pausa, forse per ritrovare il senso di quell’andare che era il viaggio intrapreso. Sì, tornavano a casa, nei luoghi e tra le persone della vita, ora spinti dalla guerra in atto, ieri dalle pause del lavoro, ma se si liberava l’azione in atto, l’impresa, il divenire che avevano messo in moto, dalla dimensione del tempo, dello spazio, delle motivazioni, avrebbero intuito che quell’andare conservava una sua interna necessità, che avrebbe voluto essere esplorata per ritrovare e confermare il senso del proseguire, altrimenti le cose e l’agire entravano in una dimensione surreale. Uno studioso, un cultore della materia, avrebbe parlato di comportamenti ancestrali, tramandati da sempre, diventati determinanti genetici. Come l’andare dell’uomo preistorico, mosso dalla pulsione degli istinti, dalla necessità di soddisfarli, per sopravvivere,per perpetuare la specie. Per poi, costruiti i villaggi e le città, quasi appagato, fermarsi. Ma dentro, un senso di mancanza, il bisogno di ripartire spinto da nuove necessità, non più istinti, ma costruzioni della mente. E da allora sempre così, con la vita che si consuma in tutto questo fermarsi e ripartire, giorno dopo giorno, con accidenti che turbano l’acquisito, e di nuovo a ricreare l’equilibrio distrutto. Un pendolo continuo tra stasi e movimento, conservazione e avventura, comportamenti indotti e libertà, obbedienza e rivolta, paura e coraggio. Come in quei giorni coloro che abbandonavano i sicuri rifugi della casa e della famiglia, per correre a Salò a cercare la bella morte, o gli altri che sulle montagne si preparavano a sacrificare la vita, per non aspettare che gli americani sbrigassero la pratica.Mentre gli altri, i più, rimanevano avvinghiati a casa per difenderla e difendersi, ad aspettare che passasse la buriana, per rincominciare domani la stessa vita di ieri, di sempre. Pensieri autonomi che avevano una vita propria e prendevano vigore nel percepire in loro quel momento di stanchezza e riflessione che li rendeva ricettivi. Così calavano in loro, si univano con quelli della loro mente e amalgamati formavano la nuova consapevolezza di sé e delle cose. Così funziona e così giorno dopo giorno nel volgere della vita si matura la coscienza dell’uomo desto, nel tentativo sempre frustrato e sempre riproposto di capirci qualcosa sul senso della vita, prima che sia troppo tardi. Intorno non c’era nessuno, sui binari non passavano treni, non segni di pericoli all’orizzonte. Si sentirono sollevati,dominava la sensazione di piacere che dava loro il ricordare il cammino di quei giorni. Quello che dovevano ancora fare incuteva meno preoccupazione. In fondo compresero che il loro andare su quella strada che era stata e ancora oggi continuava ad essere la strada della vita,era come un destino che nel percorrerlo, strada e destino, li appagava. Tornare al paese e ripartirne per guadagnare il pane per sé e la famiglia, sempre su quella strada vecchia di duemila anni. Nel trascorrerla era compagna la storia, infiniti uomini l’avevano percorsa, anche quelli i cui nomi erano finiti nei libri della storia maggiore. Cesare era passato di lì a conquistare il mondo e gli imperatori dopo di lui, e i Papi, e i re barbari che posero fine al sogno di Roma. Lì era passata tutta la storia anche quella minimalista e loro ne facevano parte. Percorrerla aveva il sapore di una funzione religiosa, alla quale loro stavano partecipando con quell’andare che riassumeva in sé il senso della vita, procedere oltre e indipendentemente dalla meta contingente, come mossi dal destino, come atto afinalistico necessario e indispensabile, il cui significato era conchiuso in sé stesso.
Si fermarono ancora un pò, poi visto che non c’erano notizie di treni merci in arrivo, nessuno parcheggiato sui binari, e il primo per viaggiatori, come era scritto sulla bacheca, sarebbe arrivato da Foligno dopo oltre un’ora, uscirono dalla stazione e presero a camminare nei pressi.


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