Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
DICIASETTESIMA PUNTATA
E in silenzio camminavano Silvio e Zeno. Era mattino inoltrato, il sole splendeva tra le nuvole che si erano andate diradando. Camminare in pianura tra i campi era quasi piacevole, la sosta e il pasto li avevano rinfrancati. Dopo alcuni chilometri cominciarono ad intravedere le case del borgo di Ponte San Lorenzo dove avrebbero raggiunto la Flaminia, e da lì avrebbero preso per Terni senza fermarsi più. La strada bianca finì in una piazzola circondata da case che era il centro del borgo. A lato correva la Flaminia. Gente in giro intenta alle faccende di ogni giorno, transito di persone e mezzi lungo la consolare. Sembrava un normale giorno di un qualsiasi anno, in uno sconosciuto luogo del mondo. Le donne preparavano per il pranzo, i bambini giocavano nella piazza, gli uomini andavano e tornavano dalla campagna, i vecchi chiacchieravano, seduti sulle sedie dello spaccio.
Il giorno prima erano passati in cielo gli aerei a bombardare Terni, ma lì non era successo niente. La giornata si srotolava apparentemente serena, dimentica di ieri e ignara del domani. Alcuni giovani erano tornati a casa dai fronti sconfitti della guerra e se ne stavano nascosti nel grembo della famiglia, che, come monade protettiva, si era chiusa su di loro. Lo stato, con le autorità e le istituzioni era frammentato, distrutto. In quel vuoto di certezze e riferimenti si riaffermavano le cose importanti dell’esistere. La famiglia, la terra, la casa, la gente conosciuta di sempre. C’era anche la chiesa in borgo San Lorenzo, minuta, adatta per la piccola comunità. E c’era anche il prete. Ci andava la gente in chiesa, la domenica e le feste comandate, come momento di festa. Per qualcuno era qualcosa di più, vi trovava un senso a quell’esistere, una speranza, la risposta a un perché. Imboccarono la Flaminia, rimaneva da percorrere una decina di chilometri per arrivare a Terni.
Continuando con quell’andatura in poco più di un’ora sarebbero arrivati a casa della Caterina, Zeno chiudeva la fila. Il passo gli era diventato faticoso, per questo si era messo dietro a Silvio che camminava lento data l’età. Davanti Davide rallentava quando si accorgeva di staccarli. Si era messo dietro Zeno perché gli era ricomparso quel dolore sotto il costato a destra, che ogni tanto lo prendeva e che ora rendeva faticoso il cammino. In passato quando si manifestava il dolore aveva imparato a darci sopra dei cazzotti per farlo sparire. Funzionava, il dolore provocato dai pugni copriva quello profondo, poi dopo un po’ sparivano entrambi.
Non sapeva cosa fosse, la madre in passato lo aveva curato con delle purghe che si pensavano, per la gente del popolo, risolutive di qualsiasi malanno addominale. Qualche vecchio della famiglia aveva raccontato di quel dolore e costoro nel tempo erano diventati gialli e ne erano morti. Ma lui era ancora giovane, aveva ancora tempo. E poi ricordava che quelli, per il lavoro che svolgevano, qualche bicchiere di troppo se lo concedevano, poteva essere anche quella la causa. Ne aveva parlato una volta con Raoul Braccini, suo compagno di banco alla scuola elementare, studente di Medicina alla Normale di Pisa, ed ora chirurgo a Foligno, di ritorno dalla Russia.
Lo aveva cercato anni prima a Pisa dove lui si era trattenuto alcuni mesi per un cantiere di lavoro. Raoul gli aveva detto che si poteva trattare del fegato. Dunque sì, doveva astenere dal bere alcoolici e dal mangiare schifezze grasse. Così da allora per quanto gli fu possibile, lui aveva seguito quelle raccomandazioni, era l’unica cosa che poteva fare. Stavano percorrendo l’ultimo tratto della strada, di lì a poco sarebbero arrivati a Terni. Qualche casolare prospiciente alla città mostrava i segni del bombardamento del giorno precedente. Si tenevano larghi gli angloamericani, nel far cadere le bombe dai loro aerei gracchianti nei cieli delle nostre città. Dovevano colpire obbiettivi militari e strategici, come strade e ponti, ma non disdegnavano di colpire obbiettivi civili.
Case e casolari e chiese con i civili dentro, gente che c’entrava poco con la guerra, innocenti come si direbbe oggi, per commemorare le vittime civili delle tante guerre, che dopo quella mondiale del 39-45 hanno continuato a deflagrare in giro per il mondo. A ricordarci se ce ne fosse bisogno che la violenza fa parte dell’uomo e la pace è solo una pausa nella lotta bestiale di sopraffazione dell’uno sull’altro, magari ammantata da nobili principi. Oppure potrebbe essere vero anche il contrario, i nobili fini hanno bisogno del sangue dell’uomo per affermarsi. Già, che non suoni blasfemo, ce lo testimoniò Cristo salvando l’umanità con il suo sangue.
Non c’era altro modo, oltre le parole, oltre l’onnipotenza, ci voleva quella violenza per ottenere lo scopo. Com’è delle donne che per diventare madri e generare hanno bisogno di quella prima violenza, di quel sangue, che segna il passaggio dall’adolescenza alla maturità. Così per i maschi semiti il violento, sanguinoso taglio del prepuzio segna l’ingresso nella comunità. E per estirpare il tumore annidato nei visceri bisogna violentare il corpo e far uscire sangue che lorda le mani del chirurgo. La strada che conduce a Utopia è lorda di sangue, come l’Essere che deve storicizzarsi e diventare materia per riconoscersi ed esistere. Ma gli anglo-americani non pensavano a queste cose, semplicemente uccidevano la popolazione perché avevano detto loro che serviva per vincere la guerra e tornare presto a casa.
Terrorizzata dalla paura la gente avrebbe fatto mancare il suo appoggio a coloro che resistevano. Il terrore, più forte della conquista della libertà, della democrazia e di tutte le altre amenità che si sono inventati per raccontare quella storia di violenza. Qualcuno di quei soldati ci metteva del suo perché aveva subito lutti a causa nostra, qualcun’altro obbediva malvolentieri non comprendendo quell’accanimento sui civili.
Terni era città industriale, non conservava nulla del borgo antico dei secoli passati, né dell’Interamna romana, florido municipio posto alla confluenza di due fiumi: il Nera e il Serra. Vi confluivano anche le acque del Velino attraverso un’opera che i romani avevano provveduto a rendere spettacolare con il deflusso dell’invaso reatino in quello ternano. E furono le cascate delle Marmore con i fantastici giochi di acque lungo la parete rocciosa. I nostri entrarono in città che si svolgeva lungo la via Flaminia che l’attraversava tutta da un capo all’altro sino alla porta spoletina da cui si usciva dall’abitato. Oltre gli edifici civili, religiosi, e pubblici c’erano enormi stabilimenti che occupavano la campagna circostante, in prossimità delle colline dove sorgeva Papigno. Acciaierie e fabbriche di armi che il regime aveva sviluppato per preparare la nazione alla politica di potenza a cui riteneva fosse destinata.
Ma le fabbriche avevano una storia più antica, risaliva alla seconda metà dell’Ottocento nel tempo della rivoluzione industriale d’Europa, che per l’Italia vide in Terni un primo importante centro. Per altro come tante città poste lungo il corso di fiumi e ricche dunque di acqua, anche nei secoli precedenti la città era stata sede di opifici che traevano l’energia dall’acqua. Ma oltre la vocazione industriale e mercantile che aveva fatto di Terni una città moderna, gli storici ricordano i fatti e gli uomini che hanno nobilitato la romana Interamna. Per tutti l’aver dato i natali all’imperatore Tacito, e forse lo storico senatore romano omonimo. Ma questa cosa non è certa. Procedevano lungo la strada, in una giornata che era diventata luminosa, bella a vedersi e a sentircisi dentro.
Il cuore si rallegrava, ma ad affliggere quello stato d’animo c’era il mare di macerie che si presentava ai loro occhi. Il giorno precedente le fortezze volanti avevano colpito duro, case distrutte, mattoni e pietre ancora fumanti. Grappoli di persone intorno alle macerie nel tentativo di recuperare quello che rimaneva delle cose della vita. Voragini sulle coperture dei grandi stabilimenti che si vedevano in lontananza. La gente parlava sommessa, come chi, scampato un pericolo mortale, apre l’animo al dolore che la vita conservata gli propone. I congiunti feriti o uccisi, la casa distrutta, la necessità di ricominciare a vivere. Ma come? Ognuno aveva un suo lutto, una sua difficoltà. Intanto si cominciava a mani nude a rovistare tra le macerie, non c’era altro da fare. Avrebbero trovato lì il senso e la prospettiva del domani. Udirono qualcuno che raccontava di un allarme scattato troppo tardi, che non aveva permesso a tutti il riparo nei rifugi.
Ne era seguita una strage di civili. Silvio e Zeno temettero per la Caterina. Lei abitava in una delle case a schiera lungo il tratto nord della Flaminia, quello più prospicente alle acciaierie, il timore che la sua casa potesse essere stata colpita era giustificato. Affrettarono il passo e quando giunsero in prossimità della casa, tirarono un sospiro di sollievo: quella e le altre intorno erano intatte. Le bombe lì non erano cadute. La casa di Caterina era parte di un lungo caseggiato a schiera, come accadeva di vedere nelle città industriali.
Alloggio dei lavoratori delle fabbriche, una contiguità del luogo del lavoro e della vita per massimizzare la produttività. Caratterizzava altresì l’appartenenza ad una classe distinta da quella dei borghesi abitanti del centro cittadino o nelle ville della campagna limitrofa. La transumanza delle classi, la rottura evidente degli seccati non si era ancora consumata, ma la cosa se pur segno di una sorta di ghettizzazione, creava anche una identità forte, da cui sarebbero nati sommovimenti sociali e nuovi equilibri.
Caterina abitava lì con il marito vigile del fuoco a Terni. Lo aveva conosciuto in occasione di un cantiere che il padre Umberto seguiva da assistente nella città. In quella occasione Umberto aveva portato con sé la famiglia. Il soggiorno ternano fu occasione d’incontro tra i due giovani, ne seguì il fidanzamento e poi il matrimonio. Zeno bussò alla porta, vi si arrivava percorrendo un minuscolo giardinetto che correva a ridosso della strada diviso da questa tramite un basso muretto di mattoni rosa. Le case erano basse: un piano terra e un primo piano sopra a cui si accedeva da una scala interna.
Quelle poste all’inizio e alla fina della schiera avevano la scala esterna a riproporre il modulo delle case contadine della campagna umbra. Come memoria di ciò che si era prima della modernità: riscatto e nostalgia ad un tempo. Dentro: la cucina, il bagno e una stanza d’ingresso al piano terra, e al primo piano le stanze da letto. Zeno bussò ancora e da dentro si sentì una voce femminile rispondere: “chi è?”. “Sono tuo fratello Zeno, Caterina ci apri”?
CONTINUA …