IL VIAGGIO, puntata XXVI

Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.

AL MERCATO DI SPOLETO

Vi trovarono gente, quanta non ne avevano vista nelle strade della città. Donne per lo più, che vagavano per i banchi del mercato a cercare prodotti che arricchissero quelli della tessera annonaria. Un mercato all’aperto che, seppero, si teneva una volta la settimana, di fatto illegale, anche se non decisamente un mercato nero, e che le autorità tolleravano, salvo rapsodiche incursioni che si concludevano con un sequestro delle merci. Sulla destinazione delle quali nessuno avrebbe giurato in quanto ad appropriatezza. Accanto al mercato, la stazione delle corriere, e in fondo ad un viale alberato si intravedeva la stazione ferroviaria. Il movimento e la vita della città si svolgeva per gran parte tutta in quella parte di Spoleto. Nella città dentro le mura c’erano gli uffici della vita istituzionale. Di lato all’edificio dove si compravano i biglietti per le corriere, un locale tipo osteria. I nostri vi entrarono e si sedettero a un tavolo. Intorno a loro era un fluire di persone che parlottavano, per poi andarsene e ricomparire più tardi. Molti dall’abbigliamento e dalla struttura corporea avevano l’aspetto di contadini. Silvio più anziano e smaliziato, pensò trattarsi di commerci in nero di prodotti della campagna, in minima parte esposti nei banchi e il resto nascosto e contrattato nell’osteria con anonimi acquirenti. Silvio era del 92, aveva scampato “la grande guerra” perché in quegli anni era impegnato in un cantiere appaltato dal Ministero della Guerra. La cosa aveva comportato una esenzione dal servizio al fronte per gli addetti a quel cantiere. Era stata una fortuna per sé, la sua famiglia e per tutta la grande famiglia dei Paci. Poté prodigarsi per tutti, secondo le necessità e le sue possibilità, con la presenza fisica, il sostegno materiale. Anche per questo aveva deciso di tornare al paese, sentiva che c’era bisogno di lui lassù. Aveva passato i cinquanta e con il lavoro duro che aveva fatto li dimostrava tutti, anche di più. Poi c’era quella cosa del fegato che lo preoccupava. Alcuni della famiglia in anni passati erano morti, per quanto se ne sapeva, a causa di una malattia di quell’organo. Non si sapeva quale, non erano tempi, quelli, di grandi sofisticazioni diagnostiche. Accadeva che chi era colpito, cominciava a mostrare un lieve colorito giallo agli occhi, che poteva rimanere così, senza altre conseguenze. In altri invece si accentuava con il tempo, sino alla comparsa di un’emorragia o di un’infezione che se li portava via. Lui stava bene, ma ogni tanto sentiva quel dolore a destra sotto le coste dove sapeva essere il fegato, lo stesso che Zeno gli aveva detto di sentire ogni tanto. Avvertiva quella cosa per sé e per quelli della famiglia come un’ombra che aleggiava su di loro. Scendeva ogni tanto su qualcuno, lo ghermiva, e lo conduceva nel suo regno, il regno delle ombre. Non c’era mezzo per sfuggirne, forse in futuro la scienza avrebbe permesso di capire e guarirne. Ma, al momento, bisognava cercare di non pensarci, e accettare la scelta capricciosa del destino che avrebbe potuto colpire a suo piacimento ora uno ora l’altro della famiglia. E comunque quel dolore poteva non entrarci con quella cosa: lo avevano detto i medici che aveva consultato. Perché nonostante tutto, il tentativo doveroso di vedere se c’era qualcosa da fare, Silvio lo aveva fatto. Era andato al Policlinico Umberto I a Roma, e al Policlinico Monteluce a Perugia, dove gli avevano segnalato specialisti della materia. Ne era venuta fuori un interrogatorio sulle abitudini degli uomini della famiglia, circa abusi alcoolici, dietetici, frequentazioni di postriboli, presenza di animali in casa. Un’anamnesi accurata come la definiscono i medici. Non risultarono abitudini diverse da quelle degli uomini della loro condizione sociale. I camici bianchi avevano snocciolato nomi di difficile comprensione che tentavano di incasellare quei sintomi in una delle possibili patologie evocate: echinococcosi, epatite, cirrosi. Ma in quanto a cure, poco o niente. A parte l’opzione chirurgica per l’echinococco. Raccomandavano diete e riposo per quanto era possibile, dato il loro mestiere. Tra il via vai di persone che si alternavano nella locanda, comparve un uomo di età oltre i cinquanta che si diresse verso l’angolo della stanza dove l’oste, dietro una specie di piccolo bancone serviva vino e cialde con rametti di rosmarino sopra, sorta di focacce schiacciate, che probabilmente qualche donna di casa preparava. L’uomo si fece servire un bicchiere di bianco e mentre lo stava sorseggiando, si volse verso la stanza, dove incrociò lo sguardo di Silvio. Si riconobbero! Lo attestò il sorriso che illuminò i volti e che li fece muovere in direzione l’uno dell’altro. Ne venne un abbraccio che sapeva di amicizia antica. Lui si chiamava Arduino Calabresi ed era stato compagno di lavoro di Silvio nei cantieri dell’impresa Costanzi. Fu fatto sedere al tavolo e presentato a Davide e Zeno in modo che anche loro potessero godere del piacere dell’incontro con i racconti che da subito iniziarono. Ricordarono i due i tanti cantieri dove avevano lavorato insieme, grandi cantieri in giro per l’Italia e anche nelle colonie d’Africa, ma in quest’ultime era andato Arduino e non Silvio. Il nome desueto di Arduino era singolare e motivo di sfottò da parte dei colleghi di lavoro, glie lo ricordò Silvio, come pure ricordò che lui se ne vantava, ne era orgoglioso e ne rivendicava le origini. Lui era di Spoleto e il suo nome che anche altri portavano in città, era segno dell’origine longobarda degli abitanti. E a differenza dei tanti della città che ne ignoravano la storia, la famiglia e lui ne erano cultori, il nome Arduino ne era testimonianza. Disse queste cose rivolto a tutti, poi continuò, abbassando la voce, rivolto a Silvio. Gli altri compresero che si stava entrando nel territorio delle confidenze tra amici, e si fecero come da parte, nell’atteggiamento del non ascoltare nonostante la contiguità. Disse di un brutto incidente occorsogli alcuni anni prima e di cui Silvio non poteva sapere nulla perché da tempo impegnati in cantieri diversi. Dopo un breve periodo di vacanza a casa, era stato di nuovo chiamato dall’impresa, che era tornata dalla Libia, dove aveva portato a termine la costruzione della Balbia, la litoranea voluta dal governatore Italo Balbo, di cui portava il nome. I compagni di lavoro gli raccontavano di un’impresa ciclopica, una strada lunga quasi duemila chilometri, da Tripoli all’Egitto. Turni di lavoro di dieci ore, riuscendo a fare ogni giorno un tratto di venti chilometri. Dunque terminata a tempi record. L’impresa, tornata in Italia, doveva andare a Taranto per lavori al porto, e lui era chiamato a far parte delle maestranze. Si trovò nel posto e nel momento sbagliato. Era il dicembre del 40. Di notte aereo-siluranti inglesi, partite dalle due portaerei che la Royal Navy aveva nel Mediterraneo, entrarono nel “mar piccolo” dove era alla rada la flotta italiana. Affondarono gran parte delle navi alla sonda, assestando un colpo mortale alla marina italiana che era l’unica arma in grado di competere con gli inglesi, e con quell’azione all’inizio della guerra si assicurarono il dominio del Mediterraneo. Nell’incursione furono bombardati anche gli alloggi delle maestranze e lui rimase ferito gravemente. Gli ci vollero alcuni mesi di interventi e cure, alla fine guarì, ma fu dichiarato inidoneo al lavoro. Ebbe una pensione di guerra. Con quel supporto, dando fondo ai risparmi, aveva acquistato un casolare con un po’ di terra intorno a Campello sul Clitunno e vi si era trasferito con la famiglia. Da muratore a contadino con l’aiuto di quelli di casa, moglie e figli. Era contento, nonostante la salute compromessa. Le sere d’estate dopo il lavoro, si riposava seduto nell’aia davanti casa, in lontananza sull’orizzonte si innalzava la Rocca, gli pareva quasi di poterla toccare, nonostante la lontananza. Pensava in quei momenti che aveva trovato un buon posto dove vivere e morire: la famiglia accanto, Spoleto della giovinezza a un passo, nella mente e nel cuore i posti del lavoro in giro per il mondo. Ed ora quell’incontro con Silvio li aveva di nuovo resi presenti e vivi. Poi chiese di lui, di loro. Informato di tutto, rimase in silenzio per un po’. Poi disse: “vi porto io sino a Campello. Dopo si vedrà.” Uscirono dalla locanda e si diressero, con Arduino davanti che tracciava il percorso tra banchi e persone, verso un angolo del piazzale un po’ discosto, dove era fermo un autocarro malandato, forse un Fiat 626, magari reduce di qualche campo di battaglia, abbandonato in una caserma dismessa. Aveva pensato questo al momento dell’acquisto del casolare, Arduino, quando se l’era ritrovato in mezzo all’aia e il vecchio proprietario, assente da tempo da quella proprietà, non aveva saputo dire il perché, il come e il quando di quella presenza. Chi sa che storia c’era dietro quell’automezzo, ma poi non era così importante. Comunque era stata una benedizione, ché se pur malandato permetteva gli spostamenti, soprattutto al mercato di Spoleto, dove Arduino doveva recarsi spesso per i suoi commerci, la vendita dei prodotti della terra, l’acquisto di mezzi e strumenti agricoli. Un arnese che lui era riuscito a riparare e ora bastevole per la funzione che doveva svolgere.


Commenti

Una risposta a “IL VIAGGIO, puntata XXVI”

  1. Avatar Soragni Barbarai
    Soragni Barbarai

    In questo capitolo si intrecciano tanti momenti di questo viaggio: descrizione del luogo in cui i tre uomini sono arrivati, momenti di vita quotidiana come un mercato rionale, incontro con un caro amico che come una benedizione dal cielo, aiuta per il proseguimento del viaggio.