Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
SESTA PUNTATA, L’INCONTRO CON IL GIOVANE FASCISTA
Lasciata la località “La Rosta” il treno proseguì la corsa, arrivando dopo pochi chilometri a Castelnuovo di Porto. Lì una nuova fermata, e di nuovo in marcia sino a Morlupo. Erano salite altre persone in quelle stazioni e sulla loro carrozza accanto ai due saliti con loro a Sacrofano, ora sedevano una donna e davanti un ragazzo, ciascuno estraneo all’altro. Sulla giacca del ragazzo troneggiava un gagliardetto fascista. Il giovane, appariva tranquillo, seduto composto, un po’ lontano ma di fronte a Zeno e Silvio. Portava con sé uno zaino pesante a giudicare dall’impegno che aveva messo nel toglierselo e deporlo nel sedile accanto. Faceva pensare ad un viaggio importante, forse lontano, con la necessità di portare con sé il necessario per una autonomia di non pochi giorni, come di uno che tenta altrove la fortuna della vita.
Ma gli abiti indosso puliti, i calzoni stirati certamente da mano femminile, probabilmente una madre premurosa, i capelli ben pettinati, con una riga da un lato, sì che quelli della parte più lunga scendevano morbidi sul viso e lui ogni tanto li aggiustava con un movimento della mano, come una carezza delicata. Tutto parlava di una buona condizione familiare, di sentimenti con quelli di casa. Dunque dove era diretto da solo, con quello zaino pesante che sapeva di cosa dissonante da tutto ciò che traspariva dalla sua persona? Una donna da raggiungere, un lavoro lontano da Roma, una sede universitaria, un viaggio? Sedeva davanti alla donna che era salita come lui nella stazione di Morlupo.
Lei era una signora di mezza età, che si rivelò da subito chiacchierina. Infatti cominciò a dire ad alta voce, del tempo, della pioggia, dei brutti momenti che si stavano vivendo, dei… La carrozza era piccola, erano in sei persone lì dentro, anche se in scompartimenti diversi, così le parole erano un invito ad una risposta da parte degli altri, ma solo il ragazzo che le era seduto davanti si sentì obbligato a rispondere con segni del viso atteggiato a contenuti sorrisi e ad un leggero fastidio che l’educazione non permetteva di palesarsi oltre il consentito. Cosi appariva.
Silvio e Zeno se ne rimasero tra di loro, così gli altri due, ascoltavano senza parlare. Lei raccontava che doveva recarsi a Viterbo da una figlia, sposata lì con il maresciallo dei carabinieri della stazione locale. La figlia aspettava un bambino e lei andava ad assisterla per il parto imminente. Ebbe sorrisi di partecipazione anche da parte degli altri, ma evidentemente non bastavano alla sua necessità di rapporto e avendo davanti a sé il ragazzo cominciò a chiedergli dove fosse diretto lui, così giovane con quello zaino. Non disse niente del gagliardetto sulla giacca che forse non aveva nemmeno notato e che invece i nostri avevano subito visto e la cosa li aveva resi più guardinghi.
Alle domande della donna, all’inizio il ragazzo rispose educato, ma a mezza bocca, poi dietro le insistenze di lei rispose ad alta voce udibile da tutti: “vado a raggiungere Mussolini a Salò”. Scese il gelo nella carrozza, Silvio e Zeno fecero finta di non aver sentito, così gli altri due, la donna fece un volto preoccupato e rimase in silenzio. Lui continuò come parlando tra sé, come una confessione, anche se a seguito della domanda della donna. “Vede cara signora, sono diretto a Civita Castellana, mi devo incontrare con un gruppo di amici tutti provenienti dal Liceo Visconti che frequentiamo a Roma. Ognuno con mezzi diversi e da soli per evitare di dover rendere conto a chicchessia. Confluiamo lì e poi andremo al nord dove il duce dopo la liberazione dalla prigione del Gran Sasso, ha ricostituito il partito fascista e ha fondato la Repubblica Sociale.” Continuava a parlare pacatamente, come una dichiarazione rivolta ai presenti che era ad un tempo riconferma per sé della decisione presa.
Ma il viso era triste, non c’era fanatismo o entusiasmo, come se quel passo fosse frutto di una scelta razionale, più che del cuore. Una cosa che andava fatta anche se non ci si credeva fino in fondo, come una scelta morale, ideale, senza un fine, senza la speranza di cambiare le sorti del conflitto.
Continuò rivolto alla donna che lo ascoltava un po’ sgomenta senza la forza di dire alcunché. “Vede signora noi siamo stati educati ai valori della famiglia, della patria, dell’onore, del coraggio. Abbiamo visto con emozione crescente il nome e la fortuna d’Italia tornare in alto al pari delle altre nazioni: queste finalmente ci rispettavano. Abbiamo allargato i confini del paese, la gente ha cominciato ad emigrare di meno in giro per il mondo, spinti dal bisogno e dalla povertà. I contadini hanno potuto coltivare nuove terre sottratte al all’abbandono e alla malaria, oppure in quelle vergini d’Africa. È cresciuta una nuova gioventù, con più entusiasmo, e fiducia nel domani. Poi è arrivata la guerra e le cose sono arrivate a questo punto. È crollato tutto, gli americani ci bombardano e ci invadono, i tedeschi stanno occupando da nord il paese, il re ha tradito ed è fuggito al sud a chiedere protezione a coloro con cui eravamo in guerra. La gente sta perdendo tutto: le cose, i valori, la dignità, la vita.
Credo che sia il tempo per i giovani di prendere coscienza di quanto accade e di scelte radicali. Noi abbiamo fatto un giuramento di fedeltà e coerenza, non ce la sentiamo di rinnegare quello in cui ci hanno educato e in cui abbiamo creduto, di abbandonare quest’uomo che ci ha guidato nel bene e nel male, osannato fino a ieri da tutti, ed ora da tutti vilipeso, noi restiamo fedeli alla parola data. Altri nostri compagni di scuola hanno fatto la scelta di andare sui monti e combattere dalla parte degli alleati, hanno scelto così e a loro va il nostro rispetto, ci troveremo gli uni contro gli altri ed eravamo tutti fratelli”. Disse queste cose con tristezza, come consapevole della inevitabilità di una scelta qualunque fosse.
Per lui era di andare dalla parte che ogni giorno che passava, si mostrava perdente, ma a vent’anni si va a cercar la bella morte se quello è il nostro destino. Scese un’atmosfera pesante nella carrozza, nessuno si azzardò a dire nulla, più di tutti la donna dirimpettaio che appariva quasi sconvolta, nemmeno il suo cuore di mamma poteva muoverla a dire, così fu per gli altri. Il treno intanto continuava il suo percorso alternando i tratti di contiguità con la strada a quelli di inabissamento nei boschi circostanti.
Arrivati in prossimità di Rignano Flaminio riapparve il nastro d’asfalto con a lato, per lungo tratto, il lastricato di pietre della originaria via Flaminia, e l’asfalto spesso debordava a ricoprire quelle sante testimonianze.
Quasi metafora dei nuovi barbari che dal cielo e dal mare del sud gli uni, dal Brennero gli altri, stavano invadendo il nuovo ed effimero impero orgogliosamente e infelicemente ricostituito, e di cui le parate militari di via dei fori imperiali avevano celebrato i trionfi. La stazione successiva sarebbe stata S. Oreste, poco oltre l’abitato. Da lì il treno dopo una decina di chilometri sarebbe arrivato a Civita Castellana, il posto dell’incontro dei giovani fascisti.
Nei pressi della città la Flaminia incrociava la Cassia. Probabilmente quei ragazzi l’avrebbero percorsa per raggiungere la Toscana e da lì il Nord. Zeno e Silvio pensarono che avrebbero potuto trovare molta gente in quella stazione. Ritennero che fosse più prudente scendere a S. Oreste e una volta scesi ragionare su come procedere. Così fecero e con loro il giovane pallido che era salito con loro a Sacrofano.
Quando il treno ripartì, loro ancora sotto la pensilina, videro lo sguardo del giovane fascista che li fissava, come un saluto. A Zeno sembrò di vedervi espresso un dubbio, come un ripensamento, forse il pensiero che sarebbe potuto scendere con loro e poi tornare a casa.
Dopo Civita Castellana non ci sarebbe stato più tempo per tornare. Zeno pensò, mosso dalla pietà per quel giovane, che aveva sbagliato a stare zitto, avrebbe dovuto dire parole, tentare di scalfire quella determinazione che non poteva essere granitica. Magari era solo una infatuazione giovanile, una fascinazione che avrebbe avuto vita breve. Ma non lo aveva fatto, aveva avuto timore di non riuscire ad entrare in sintonia con quel ragazzo così diverso da lui per educazione e censo e tante altre cose. Era andata così, ormai non si poteva fare più niente. Provò nel cuore una pena tenace, pensò che non si sarebbe dissolta. Il terreno era ancora bagnato, ma il sole riapparso tra le nuvole brillava i prati di luce.
Vicino si ergeva la mole massiccia del monte Soratte, di cui la stazione di S. Oreste era il riferimento ferroviario. Forse S. Oreste era il paese che si intravedeva in alto tra le falde della montagna. Intorno dominava la vista una campagna coltivata, a tratti collinare, in continuità d’aspetto con quella che avevano fin lì percorso.
La presenza dell’uomo era discreta, non invadente, come rispettosa del creato dove Qualcuno lo aveva posto. Non era ancora il tempo della liberazione dalla colpa di aver mangiato l’infausta mela. Quell’affrancamento sarebbe venuto dopo, ne avrebbe risentito anche quell’angolo di mondo.
Commenti
Una risposta a “IL VIAGGIO, SESTA PUNTATA”
toccante la figura tragica del giovane fascista che s’impone il sacrificio per qualcosa in cui in fondo non crede più.