Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
SETTIMA PUNTATA, ALLA STAZIONE DI SANT’ORESTE
C’era un viottolo immerso nella vegetazione che si dipartiva dalla pensilina. Si capiva che era parte della stazione, conduceva ad un servizio per le necessità dei viaggiatori, di quelli scesi o in attesa. Non cattivi odori, grande civiltà, nonostante l’essenzialità della cosa. Si trattava di un casotto, che aveva un fermino metallico sulla porta all’interno, per l’intimità della persona. Una turca sulla parete in fondo, con un rubinetto che immetteva acqua per la pulizia dopo i bisogni. Un sacco con polvere di soda bianca forse, o altro, per cospargere il pavimento da usare dagli addetti. Oppure da viaggiatori educati. Fatto sta che l’ambiente era pulito e non maleodorante. La luce proveniva da una mini finestrella chiusa, sopra la porta.
Un’altra senza vetri, in prossimità della turca, permetteva all’aria di circolare nell’ambiente. Fuori una vaschetta ad altezza d’uomo con un rubinetto per lavare le mani, reduci da faccende necessarie, ma non celebrabili. Davanti al casotto, ma ad opportuna distanza, un elegante tavolo in pietra con intorno sedili sempre in pietra. Sopra, un pergolato da cui pendevano grappoli d’uva nera. A pensarci l’eden non doveva essere molto diverso da quel luogo, nascosto in un anfratto, immerso nel verde della natura, di lato ad un’anonima stazione di campagna. Anche se molti, tutti, avrebbero detto, se gli fosse occorso di vederlo, che si stava parlando semplicemente di un cesso.
Lo avevano percorso, quel viottolo, Zeno e Silvio, seguiti dal giovane, intuendo che alla fine della stradina avrebbero trovato qualcosa, che aveva a che fare con l’astinenza dal mattino dei bisogni corporali. Dopo, si sedettero sul tavolo di pietra per ragionare e godere l’amenità del posto e il cibo gratuito che i grappoli pendenti sulla testa garantivano. Tirarono fuori dalle gavette ciò che era rimasto del cibo, l’acqua la presero dal rubinetto a lato. Colsero l’uva e misero tutto sulla giacca di Silvio posta a mo’ di tovaglia sulla pietra.
Il giovane che li aveva seguiti con discrezione, chiese di sedersi con loro e si presentò: “mi chiamo Domenico Ettorre, sono studente di Medicina a Roma, la mia famiglia è di Leonessa di Rieti, ho uno zio vescovo a Nocera Umbra, sto andando da lui.” Raccontò che lo zio oltre che essere vescovo, era, o meglio era stato, un personaggio importante della Chiesa, segretario dell’azione cattolica nazionale, intimo di alti prelati del Vaticano, esponente di una famiglia benestante. Nella sua missione o carriera, se si vuole, era incappato nelle conseguenze del Concordato tra Stato e Chiesa, che aveva inaugurato un nuovo rapporto tra l’Italia e il Vaticano, sino ad allora in conflitto. Era nota al regime la sua vicinanza ai circoli antifascisti curiali, e la contiguità con il partito popolare di don Sturzo.
Fu chiesta dal governo la sua testa, il cardinale Gasparri la concesse e zio Ettorre decadde dalle sue cariche, in particolare da quella di segretario generale della azione cattolica, che di fatto fu soppressa.
Fu esiliato in periferia a ricoprire il ruolo di vescovo nella diocesi di Nocera Umbra. Nella nuova sede comunque continuò a segnalarsi per la coerenza con i suoi principi che lo avevano allontanato da Roma. Domenico era diretto lì, fuggiasco da una cartolina precetto che era arrivata a casa dei genitori. Gli ingiungeva di presentarsi al distretto militare di Rieti per essere arruolato. “Ma dove?” si era chiesto Domenico” in quale esercito mi manderanno, in questo momento in cui si sta sfaldando tutto? Arrivano i tedeschi dal nord, gli alleati dal sud, il re fuggito con tutto lo stato maggiore a Brindisi, Mussolini a Salò con la Repubblica Sociale.”
Così aveva deciso di raggiungere lo zio vescovo a Nocera a chiedergli consiglio e intanto a farsi nascondere nell’episcopio, sino a quando fosse più chiaro cosa era bene fare. Era salito sul treno a Tor di Quinto e dopo quel tratto di strada aveva deciso di scendere a s. Oreste e proseguire a piedi. Era stato anche troppo imprudente, non si fidava a continuare a farsi vedere sui mezzi pubblici, temeva che qualcuno lo denunciasse, era un renitente alla leva. Sapeva che in tempi di guerra poteva incorrere nella pena di morte.
Si sarebbe tenuto anche lontano dalle strade, aveva con sé nello zaino delle provviste bastevoli per alcuni giorni, quanti ce ne sarebbero voluti per raggiungere a piedi o con qualche mezzo di fortuna Nocera. La fatica non lo spaventava, né le avversità del tempo. Era giovane, si sentiva forte, d’estate amava camminare per i monti dell’Appennino. Dunque: si poteva fare! Si era confidato con loro disse, perché avevano l’aspetto di brave persone e anche loro gli sembravano in fuga da qualcosa. Gli offrirono di proseguire insieme, perché la strada da percorrere era la stessa, ma egli declinò l’invito.
Pensò che il suo passo era più celere rispetto al loro, lo stare insieme lo avrebbe rallentato, e da solo avrebbe fuggito meglio eventuali pericoli. Forse avrebbe dato anche meno nell’occhio. Queste cose pensava e dopo essere rimasto a consumare il pasto, prese congedo e se ne andò. Zeno e Silvio finirono di mangiare, stettero ancora un po’, poi decisero anche loro di rimettersi in marcia. Zeno si voltò ad imprimere nella mente quel luogo, vi aveva provato un senso di pace, come una pausa dai pensieri che si agitavano nella mente: i pericoli del viaggio, il cibo da procurare, i posti dove dormire.
E una volta arrivati a casa, se tutto fosse andato bene, cosa avrebbe trovato? Negli ultimi mesi aveva potuto dare e ricevere poche notizie. Per certo sapeva che in paese si era costituito un presidio di tedeschi. I giovani in età da cartolina di precetto si nascondevano per evitare di essere arruolati e inviati a Nord nel costituendo esercito della Repubblica di Salò. In paese si aspettava l’arrivo degli americani che insieme agli alleati stavano risalendo la penisola da Sud. Venivano dalla Sicilia dove erano sbarcati alcuni mesi prima, quando Mussolini era ancora al comando, e da Salerno dove erano sbarcati il giorno della dichiarazione dell’armistizio.
Infine aveva saputo che la gente del paese era in animo di sfollare in montagna per evitare bombardamenti e rappresaglie. Ma in quel breve momento di sosta si era dissolto tutto. Loro due, quel giovane con loro, il pergolato che offriva riparo dal sole e cibo per il corpo, quel tavolo di pietra che sapeva di solidità resistente al tempo, come messaggio di immortalità, avrebbe detto un filosofo o un poeta. Cambiava colore e temperatura al volgere delle ore, come avesse una sua vita, da quando qualcuno lo aveva tirato fuori dal fianco della montagna che lo conteneva. Quella fatica dell’uomo era poi diventata arte nel sagomarlo e imbellirlo, togliendone le impurità.
Fu come averlo sottratto al mondo inorganico e consegnato al mondo dei viventi. Inserito in quel minimo angolo di mondo, nascosto ai più, era come un gioiello che ingentiliva la natura intorno. Zeno, come in altre rare circostanze, aveva sentito dentro di sé come un dissolvimento dei nodi interiori, al loro posto una sensazione di benessere, quasi una pausa del vivere quotidiano, con il cuore che si placa e, cede al bisogno di lasciarsi andare al ritmo biologico dell’esistere. Era stato così al primo incontro con la sua Regina, o nell’abbraccio con i compagni di sventura, salvi da una granata esplosa sulla scatola di latta che era il loro carro armato, o quando aveva issato per la prima volta il tricolore sul tetto della casa costruita. A Zeno frullavano in testa quei pensieri, appena abbozzati, non aveva gli strumenti per descriverli compiutamente.
Aveva fatto studi sino alla sesta che era una specie di scuola media di tempi successivi. Era stato bravo, intelligente, il migliore di tutti, aveva compreso che c’era un mondo di idee e sapere che lo attirava, ma estraneo alla sua vita, alla sua condizione. Ciononostante la sua mente era pronta a ricevere suggestioni, a cimentarsi con quelle, ad entrarci dentro percorrendo tragitti propri. Dunque si chiedeva se la sensazione provata in quel luogo e le altre simili della sua vita erano semplicemente uno stato di soddisfazione, la felicità di un momento, la liberazione da uno scampato pericolo. Avvertiva che si trattava di qualcosa di più, come un uscire
dalle faccende della vita di ogni giorno, diventare altro da sé. Non più schiacciato dalla gravità sulla terra, quasi a riscoprire il patto dimenticato con il cosmo, con l’amore che tutto muove. Intuire che oltre la ragione, quella era la via ultima della conoscenza.
Commenti
Una risposta a “IL VIAGGIO, SETTIMA PUNTATA”
Racconto molto bello.
Con eccellenti descrizioni di ambienti e personaggi.
Emozionante perché coinvolgente.