ROMANZO A PUNTATE DI
Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
IL PONTE DI AUGUSTO A NARNI
Quanto meno c’era da temere che sarebbe stato trattenuto per essere arruolato nelle forze armate della Repubblica che si stavano organizzando al Nord. Tutto dipendeva dal comportamento che avrebbero tenuto quei militi, del loro essere fanatici esecutori di ordini o interpreti svogliati degli stessi. Mano a mano che si avvicinavano, Silvio notò che si trattava di ragazzi dall’aspetto non aggressivo, o così li volle vedere. Arrivati, quelli intimarono l’alt. Silvio si fece avanti e raccontò di loro due quanto aveva precedentemente pensato e in cui percorrendo quei cento metri si era confermato. Di Davide disse che si trattava di un loro nipote che i genitori avevano mandato per far visita ai parenti nel paese d’origine. Parlò tranquillo, con calma, abbozzando un sorriso che sapeva di paterno nei confronti di quei ragazzi vestiti da soldati, e il sorriso non era una finta. Quasi il timore per sé e i suoi configgeva con la pena che sentiva per quelli, intrappolati in un’uniforme che prometteva sciagure, per loro e gli altri.
Mentre si accingeva a mostrare i documenti che avrebbero convalidato il racconto che aveva fatto, gli balenò improvviso in mente il ricordo delle armi che Zeno portava con sé nella tasca del pastrano. Lo portava sulle spalle il pastrano con atteggiamento disinvolto, forse sarebbe stata la prima cosa che avrebbero perquisito se avessero deciso di non fidarsi. Fu atterrito dal pensiero, dunque decise che si trattava di sviarli da quell’ulteriore verifica, dopo i documenti e le parole. Così prese a cianciare del tempo, della campagna, dei meravigliosi monumenti che avevano costruito a Roma, della bella città di Narni che stavano attraversando.
E per trasformali da uditori in colloquianti, il che avrebbe catturato più la loro attenzione e sviato la mente da altri pensieri, per loro pericolosi, chiese se erano di Narni o erano venuti lì da fuori. Quelli risposero. Dissero che venivano da Terni. Lì dopo lo shock di settembre era stata riaperta la Casa del Fascio e molti ragazzi della loro età erano stati arruolati, chi nell’esercito che si stava ricostituendo al Nord, chi nella Milizia a livello locale: a loro era toccata questa. A parte uno che appariva più determinato, gli altri sembravano essere non molto entusiasti di quell’arruolamento, come se non avessero potuto sottrarvisi. La cosa non si metteva malissimo, fu il pensiero che prese corpo nella mente dei nostri.
Quei ragazzi sembravano ben disposti, c’era una ragionevole speranza che non avrebbe effettuato controlli severi, probabilmente si sarebbero accontentati dei documenti. Nel mentre che in testa giravano quei pensieri, che fluivano parole da una parte e dall’altra, e nell’attesa di un via libera, o peggio di altro che pervicacemente avevano eliminato dalla mente, si avvertì il rombo di aerei che si stavano avvicinando. Un rombo spaventoso e in un attimo li videro passare sopra di loro, bassi quasi da vedere la carlinga e le eliche girare. Venivano da sud. erano decine e decine, forse centinaia.
Ci fu un fuggi-fuggi di tutti, della poca gente in giro, dei militi, di loro per i quali il fuggire diventò liberarsi dal controllo, e guadagnare il passaggio della porta. Corsero fuori della città fino a fermarsi accanto ad un imponente momento ai caduti della grande guerra, che sembrava offrire un rifugio dagli aerei e dagli uomini. Attesero la fine del passaggio degli aerei che grazie a Dio non avevano Narni come destinazione. La meta era Terni con le sue acciaierie e le altre industrie. Se ne accorsero perché udirono prima, e poi videro dall’alto dove si trovavano, le bombe cadere sulla città. Erano rumori e bagliori delle esplosioni e poi fiamme quando ad essere colpiti erano i depositi di benzina e di altro materiale infiammabile.
Nel mentre che il bombardamento su Terni andava avanti e la gente di Narni cominciava ad uscire dalle case, ormai tranquilla di averla scampata, e con la segreta voglia di assistere allo spettacolo, i nostri decisero di lasciare il rifugio e proseguire il viaggio. Presero giù per la strada che con ampie curve abbandonava il colle su cui si ergeva la città, sino ad arrivare ad un bivio.
A destra si impegnava in un lungo rettilineo che dopo una decina di chilometri arrivava a Terni, a sinistra voltava per raggiungere Narni scalo, un gruppo di case sorte intorno alla ferrovia dove era posta la stazione della città. Per arrivarci si trattava di attraversare un lungo ponte sospeso sopra il Nera. Il ponte mostrava segni di un recente bombardamento, ma appariva ancora solido e percorribile. Accanto si ergeva il ponte romano detto di Augusto crollato nella parte centrale, con le enormi volute laterali ancora intatte. Non erano state le bombe a farlo crollare, ma il tempo, con i terremoti e le altre avversità della natura, poi gli uomini avevano fatto il resto con l’incuria e la depredazione del materiale.
Ne soffrì Goethe alla fine del settecento, in viaggio per l’Italia a vedere, disegnare, raccontare la romanità. Ne soffrì perché era tra i ponti più maestosi che aveva incontrato. Se pur diruto lo fece ritrarre ugualmente dal pittore che lo accompagnava nel viaggio. Quel ponte franato stava lì anche per rinfocolare le polemiche tra i cultori di cose romane, in particolare sulla consolare Flaminia. Il ponte di Augusto era la chiave di volta per decidere sulla querel riguardo la primogenicita’ tra i due tracciati. Quello che tira dritto verso Terni e l’altro che impegnandosi sul ponte quando era in piedi, andava verso ovest. La maestà del ponte ci stava per assegnare la priorità a quello diretto ad ovest, ma l’importanza delle città che attraversava, Spoleto in primis, ci stava con l’altro. E comunque entrambi i tracciati si ricongiungevano all’altezza di Foligno.
Dunque una questione di lana caprina? Forse, ma di queste cose vive la ricerca storica e non solo quella. Alla fine i soliti accademici tedeschi avevano concluso che la strada primitiva era quella che attraversava il ponte di Augusto e non a caso l’imperatore lo aveva fatto restaurare con la tassa che impose all’aristocrazia romana in favore dei ponti della Flaminia. Da lì la strada si inoltra nella campagna umbra attraversando località che ancora oggi ne conservano memoria come Carsulae a poca distanza da Narni e dopo circa quaranta chilometri Bevagna, la splendida città romana Mevania circondata da mura ancora oggi intatte. Poi dopo altri dieci chilometri arrivava a Foligno dove si ricongiungeva con l’altro tracciato. Quest’ultimo finì per prendere la supremazia nei secoli, perché sul suo percorso attraversava Terni, e scollinando sul rilievo della Somma arrivava a Spoleto importante città romana e poi longobarda.
Attraversarono il ponte nuovo e dopo circa un chilometro arrivarono in prossimità della stazione di Narni-scalo. La piccola stazione era pressoché deserta, i tre si sedettero su una panchina sotto la pensilina. Si era fatta quasi sera, il sole se n’era andato dietro i monti che nascondevano Amelia, rimaneva una luce ottobrina che muoveva il cuore alla dolcezza. Annunciava tenebre che sarebbero scese su una natura gravida di vita matura, destinata presto a corrompersi, come per i frutti degli alberi ormai pronti per la raccolta, doverosa, perché altrimenti, caduti a terra, sarebbero diventati natura marcescente. Di lì a poco anche le foglie, ancora verdi ma screziate di marrone e giallo, sarebbero cadute, annunciando l’incedere dell’inverno.
La misteriosa macchina nascosta nelle viscere della pianta che trasformava anidride carbonica in ossigeno rallentava la sua corsa, si placava il flusso di linfa lungo le arterie, che trasportava cibo ed acqua dalla terra sino alle foglie. L’albero si sarebbe addormentato, ritratto in sé stesso, con rami scheletriti, a difendersi, a resistere all’acqua, al vento, ai fulmini, alle ferite inferte dagli uomini.
Avrebbe sopportato tutto nell’attesa del nuovo sole. Ma ogni anno per lui e gli altri dei boschi la vita diventava più difficile, anche a causa dell’uomo. Millenni prima lo avevano visto arrivare con curiosità. Benevolmente gli avevano offerto protezione sui rami, tra le fronde, a riparo dalle bestie feroci che lo attentavano. Avevano tollerato il sacrificio di qualche compagno: legna per i fuochi, e per la fabbricazione degli utensili. Ma poi gli uomini erano diventati sempre più numerosi e arroganti. E gli alberi e gli animali con loro, avevano dovuto sopportarne la prepotenza. Una convivenza difficile e molti avevano cominciato a lasciarsi morire nelle città degli uomini. Troppo asfalto e cemento a coprire le radici, a cingere il fusto. E quell’aria ammorbata dai fumi, le esalazioni, i miasmi dell’inarrestabile progresso. Non era vita quella, lontani dai boschi dove erano sempre stati. E prima di morire si producevano in un’ultima rigogliosa gettata di boccioli e foglie: quasi un ultimo atto vitale, un grido al mondo, prima di precipitare nel nulla.
Ce n’erano due di alberi ai lati della stazione, due grandi platani che con i rami e le foglie davano ombra durante il giorno alla pensilina. Più di lato due pini dalla chioma sempre verde, che mandavano un odore di resina intorno, e per loro il ciclo delle stagioni sembrava non esistere.
Si erano alzati presto il mattino in quella locanda a Sassacci, avevano percorso il tragitto solo a piedi, ad occhio saranno stati tra i trenta-quaranta chilometri, con varie pause e pericoli. Era andata bene, ora si trattava di trovare da dormire per riposare, dopo aver mangiato qualcosa. Di lato alla stazione passava la strada diretta ad Acquasparta, si trattava del primitivo tragitto della Flaminia, loro non l’avrebbero percorsa l’indomani. Erano venuti lì per la presenza della stazione, per vedere se avessero potuto prendere qualche treno in sicurezza. Sarebbe stata preoccupazione della mattina. Se non il treno, avrebbero di nuovo guadagnato il bivio prima del ponte e si sarebbero diretti verso Terni. Pensavano di trovare più possibilità, anche se più pericolo. Ma l’altra strada era un buco nero, non la percorreva più nessuno, dunque meno pericolosa, ma di contro con meno risorse, come il cibo che avevano quasi esaurito, e anche mezzi di fortuna con cui procedere più agevolmente. La scelta era fatta, quella stazione per la notte e dopo, se non il treno, verso Terni di nuovo a piedi o con qualche mezzo.