IL VIAGGIO, DECIMA PUNTATA

Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.

NONA PUNTATA: IL PONTE SUL TEVERE

Quando riuscirono a vedere bene, notarono una decina di camion militari fermi sulla strada, di questi, uno si era portato nel piazzale davanti allo spaccio del paese. Intorno, una ventina di soldati che armeggiavano sul camion, forse a riparare un guasto. C’erano anche alcuni civili, probabilmente locali, che i tedeschi trattavano con modi bruschi e autoritari. Avevano aperto il cofano motore, da quello saliva del fumo bianco, i civili si alternavano a portare stracci ed acqua. Dopo circa un’ora il guasto sembrò essere stato riparato e la colonna militare si mise in viaggio verso Roma. Avrebbe ripercorso la strada che loro avevano calpestato poco prima.

Chi sa come sarebbe andato l’incontro se non avessero avuto il tempo di tagliare per la campagna? Davide, a quel pensiero sentì correre un brivido lungo la schiena. Ma forse non sarebbe successo nulla. Quei soldati sembrava avessero fretta, magari, poveracci anche loro, correvano all’appuntamento con la morte. Probabilmente erano diretti al nuovo fronte che si era aperto in Italia contro gli anglo-americani e i loro alleati. Neozelandesi, australiani, canadesi, indiani, marocchini: quest’ultimi sarebbero diventati tristemente famosi.

Tutti a risalire la penisola verso il nord. I tedeschi dovevano anche fare i conti con la popolazione, con la sua reazione dinanzi all’invasione che stavano attuando. Si erano già verificate le prime sacche di resistenza ad opera di militari regolari, com’era accaduto nei giorni successivi all’armistizio. Il più drammatico e simbolico, la difesa di Roma consumatasi a Porta San Paolo. Sbarrarono il passo ai tedeschi che si accingevano ad entrare nella capitale. Cosa li avrà spinti al gesto eroico, destinato all’insuccesso, isolati e abbandonati dagli alti comandi, dal re, e dal nuovo governo presieduto da Badoglio? Loro lì per obbedienza alla bandiera e all’onore, e quegli altri fuggiti a Brindisi. Dicevano per organizzare il nuovo stato, o forse e più semplicemente, per salvare la pelle.

Quelle mura erano state violate una sola volta nella millenaria storia di Roma, ad opera di Brenno e dei suoi Galli Senoni, la volta successiva dopo ottocento anni erano stati i Visigoti di Alarico a penetrare nella città e porre fine all’impero romano di Romolo Augustolo. Poi ci sarebbero stati tutti gli altri da Totila a Carlo V, sino all’ultimo, il nonno del Savoia fuggito a Brindisi. Come redivivi centurioni romani, i granatieri e i loro commilitoni si opposero all’ex alleato, senza più la forza di gettare oltre le linee l’insegna per sbaragliare gli attaccanti nel tentativo di riprenderla. Ma il gesto servì per salvare l’onore di un popolo sconfitto e sbandato.

Ma Zeno ebbe un moto di commozione anche per quei soldati tedeschi, alcuni dai visi ancora imberbi. Questi erano stati i più arroganti con i civili costretti ad aiutarli: chi sa perché? Forse l’educazione ferrea di quel regime dispotico li aveva resi fanatici, oppure il timore di non essere all’altezza di un compito non adatto alla loro età, di più la paura inconfessata della morte. Loro non avrebbero saputo dire, non potevano, e poi non avrebbero avuto tempo e modo: sarebbero caduti i più, sui campi di battaglia che avrebbero ancora calcato prima dell’armistizio finale. Non sapevano che la storia li avrebbe condannati all’ignominia, al marchio di torturatori, tutti, anche quei ragazzi imberbi, anche quelli, che due anni dopo si sarebbero opposti, adolescenti, ancora più imberbi, alle armate russe che avanzavano nel centro di Berlino.

Si sarebbero immolati nell’estremo sacrificio intorno al loro duce, asserragliato nel bunker della cancelleria. Di lì sarebbe uscito un’ultima volta per passarli in rassegna e gratificarli di una medaglia e di una carezza, per poi suicidarsi in modo da sfuggire alla cattura e uscire alla grande dal teatro della storia. Quell’epopea di lutto, distruzioni ed immani sofferenze avrebbe avuto il marchio del male assoluto, e in quella condanna non si sarebbe salvato nessuno, né i carnefici dei tanti olocausti, né i condottieri delle tante battaglie vinte, ma mai esauste. Ce n’era sempre un’altra da ingaggiare, senza fine, sino al delirio e alla catastrofe finale. “Got mit uns” recitavano i soldati tedeschi sui campi di battaglia d’Europa, d’Asia e d’Africa, e così in altra lingua e per un Dio diverso i camerati giapponesi dell’estremo Oriente.

Quella bestemmia cosmica avrebbe decretato la loro fine. Ma come sempre nella storia, l’assolutezza di quel delirio di conquista che aveva mutuato dal superomismo nicciano la sua linfa, ebbe termine nel Valhalla finale, punto d’arrivo di quella storia di morte e distruzione. Ma quel fuoco è destinato a propagare intorno un bagliore nefasto che non si dissolve, che suona condanna, ma diabolicamente esercita un fascino perverso che sta lì, pronto a storicizzarsi di nuovo, non si sa quando o dove. Perché potrà accadere che le conquiste e il benessere della ragione sarà offuscato dalla tormenta dell’indicibile, dell’irrazionale. Appariranno di nuovo angeli fiammeggianti in cielo ad invocare nuove vittime ed olocausti al dio della guerra.

Non così gli italiani, estranea loro, quella determinazione luciferina a rincorrere un’idea di onnipotenza e dominio sugli altri. Forse eredi di un passato glorioso, diluito e ammorbato dai secoli frapposti, senza più il vigore e la fame di chi si affaccia da breve tempo alla ribalta della storia. Appagati da tanta antica grandezza e frustrati dai tentativi infruttuosi di riproporla nei secoli a seguire. Ora il fascismo ci aveva di nuovo provato, ma usciti dal cortile di casa, le parole roboanti si erano scontrate con l’acciaio dei mezzi e degli uomini contrapposti, ed era stato disastro.

Zeno, Silvio e Davide, partiti i tedeschi, ripresero il viaggio. Circospetti scesero dalle mura del castello e raggiunsero il paese sottostante di Borghetto. Alcuni del posto avevano fatto un crocicchio nello spazio antistante lo spaccio di generi alimentari e merceria. Discutevano dei tedeschi di poco prima, c’era ancora paura mista a soddisfazione perché non era successo nulla di grave. Qualcuno azzardava dei commenti politici, visto che il pericolo era passato. Condanna per i nuovi invasori, ma non mancavano quelli che aderivano al partito del tradimento da parte nostra, che in qualche modo legittimava l’invasione. Zeno pensò che con quelle premesse si annunciavano tempi ancora più bui data la tendenza degli italiani a dividersi in fazioni spesso violente.

Tempi bui oltre la guerra in corso e i tedeschi.!! Nello spaccio trovarono un sapone e anche un pennello, Silvio aveva con sé un rasoio, dunque ora c’era l’occorrente per una rasatura al bisogno.
Di roba alimentare poco, presero del pane, un pezzo di lonza e mezza forma di formaggio pecorino che il negoziante tirò fuori da un cassetto e fece pagare con i prezzi della borsa nera.
C’era anche del vino sfuso con cui riempirono una borraccia. L’acqua non era mancata e non sarebbe mancata lungo il viaggio, perché lungo la Flaminia, oltre le case cantoniere, si trovavano ad intervalli quasi regolari, se le falde del terreno circostante consentivano, fontane di acqua sorgiva. Un piccolo monumento di grande utilità, realizzato del regime, di cui si fregiava con regolamentare fascio littorio e anno inciso sulla pietra bianca a partire dalla rivoluzione fascista.

Come le case cantoniere, le fontane si riconoscevano a distanza, quelle per il colore rosso pompeiano, queste per il bianco della pietra. Alte come una persona, facevano bella mostra di sé in uno spazio ricavato a lato della carreggiata. Servivano per bere e rinfrescarsi dalla calura estiva, per le abluzioni e la toilette dei viandanti, per ripristinare l’acqua nel radiatore dei mezzi a motore, per le necessità degli animali. Lo sgorgare dell’acqua era perenne, non c’erano ancora quei fastidiosi bottoni che avrebbero messo anni dopo, per limitare lo spreco, avrebbero detto. Accadde quando l’acqua cominciò a servire per l’aumentata popolazione, per le attività dell’uomo, per le fabbriche e l’agricoltura intensiva, per le megalopoli razziatrici di beni di consumo, per le multinazionali che si accaparrarono le sorgenti, da cui la creazione del business delle acque minerali. Allora ancora no, risorsa di una natura benigna che dispensava agli umani con abbondanza, quanto serviva per i bisogni essenziali della vita. Oggi, come le case cantoniere, le fontane sopravvivono ignorate, spesso prosciugate, altre ancora orgogliosamente funzionanti a dispetto dei tempi e della loro supposta inutilità.

Ripresero il cammino, dopo qualche centinaio di metri la strada s’immetteva su un lungo ponte sospeso sul Tevere che in quel tratto disegnava grandi volute nell’ampia pianura circostante. Non case intorno, terreno propizio per le colture data la prossimità con il fiume e l’esposizione senza ostacoli ai raggi del sole dall’alba al tramonto. File di alberi delimitavano il corso del fiume lungo la vasta pianura delimitata ad est ed ovest da rilievi collinari boscosi. Oltre quei rilievi, a levante si scorgevano le alte cime degli Appennini. Un paesaggio assoluto, gli eventi geologici nei millenni lo avevano modellato a quel modo, sarebbero occorsi in futuro altri rivolgimenti della natura a stravolgerlo, ma quel giorno agli occhi dei tre uomini in cammino, quel mondo appariva concluso, immutabile nella sua soavità, come se i sovvertimenti passati fossero stati guidati ad un fine di bellezza ed armonia come in quel momento appariva loro.

Ancora sul ponte e subito dopo averlo attraversato si volsero ad ammirarne la fattura. Un manufatto antico di centinaia di anni con un’edicola nel punto di mezzo ricca di ornamenti in pietra sormontati dallo stemma pontificio con una scritta in latino che loro non erano in grado di tradurre. L’avevano costruito il ponte, in pietra e cotto, quel materiale bianco ed ocra innalzava muri tra i grandi spazi che i grandi quattro archi delimitavano. Sopra con due muretti laterali delimitavano la carreggiata costruita a schiena d’asino, sì che si andava in salita nel primo tratto, per poi ridiscendere superata la sommità. Ampio il passaggio da permettere il transito di carri e vetture, forse anche nel doppio senso se non si temeva di raschiare la spalletta laterale.

Lo ammirarono da addetti a quel mestiere, ma non sapevano che da lì a poco aerei della grande armata anglo-americana lo avrebbero bombardato, nel tentativo di ostacolare la ritirata dei tedeschi. Questi dopo la strenua resistenza a Cassino avrebbero cercato di raggiungere un punto più a nord della penisola italiana dove contendere al nemico l’avanzata verso la fortezza germanica. A nulla sarebbero servite le imponenti fortificazioni scavate sul monte Soratte, per ordine del generale Kesserling. La grande battaglia consumatasi a Cassino dove i germanici avrebbero sacrificato un’intera divisione di paracadutisti, li avrebbe spinti a ritirarsi dietro la linea gotica, per organizzare lì una nuova resistenza.


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