Che il Reality, inteso come format televisivo, sia morto e stia testardamente cercando di sopravvivere a se stesso è una osservazione quasi banale. Eppure, forse è proprio da lì che occorre partire per arrivare a preoccuparci di cose più serie.
Per la verità il Reality ha una origine, forse inconsapevole, ma decisamente nobile.
La prassi di collocare degli esseri umani in un contesto forzoso e non determinato da loro per verificarne i comportamenti è alla base di molte ed importanti ricerche delle più grandi Università, in particolare americane.
Una cinquantina di anni fa l’Università di Princeton comunicò individualmente a una selezione di studenti che avrebbero dovuto tenere una importante conferenza (in Aula Magna!) sulla parabola del Buon Samaritano.
Quello, per capirci, che per quanto disprezzato soccorre un bisognoso che invece è stato ignorato da Farisei e Leviti.
Si può presumere che ognuno si sia preparato al meglio per quella prestigiosa occasione.
Quel che nessuno sapeva era però che ognuno avrebbe trovato, recandosi all’Aula Magna, un uomo in gravi condizioni che invocava aiuto.
Il risultato dell’esperimento fu che quasi nessuno si fermò a soccorrerlo e quasi tutti accelerarono il passo, fingendo di non vederlo e di non sentirlo.
In altri termini, si dimostrò che l’avere studiato a fondo la dottrina della Carità e della Misericordia non era servito a nulla.
Di fronte al rischio di giungere in ritardo a quella manifestazione di vanità che li attendeva, quasi nessuno scelse di compiere quegli atti che andava a elogiare e valorizzare.
Quindi si può dire che “costringere” delle persone in una situazione peculiare non governata da esse permette di analizzare e capire gli atteggiamenti reali e le effettive convinzioni di ciascuno.
E, in effetti, le prime edizioni di “Il grande fratello” avevano questo fascino che si ribaltava sugli spettatori casalinghi.
Con la forza della “diretta televisiva”spingevano a interrogarsi su come ognuno si sarebbe comportato quando si fosse trovato nella stessa situazione.
Il voto per l’uno o per l’altro concorrente appariva dunque come un riconoscimento e e un consenso di natura strettamente personale.
Con il procedere delle edizioni questo valore veritiero si è venuto disperdendo.
I concorrenti hanno imparato (o qualcuno ha spiegato loro) come e cosa fare per guadagnare minuti di visibilità che risultano preziosi per attirare consensi.
L’iniziale livello di isolamento dei concorrenti si è progressivamente ma ineluttabilmente ridotto.
Gli staff di trucco, parrucco e costumi non appaiono ma ci sono ed inevitabilmente costituiscono un livello di socialità ulteriore.
Altrettanto inevitabilmente la conduzione e la regia del programma non possono non privilegiare (e di conseguenza sospingere) i personaggi e i comportamenti che sembrano funzionare maggiormente.
Questo percorso appare comune a tutti i format inizialmente presentatisi come Reality.
Che si tratti di isole “deserte” o di gare di ballo poco importa.
Il processo di distruzione dell’aspetto realistico dei programmi appare irresistibile.
Si giunge infine a fantasiose caserme, a non credibili collegi e offensivi conventi religiosi. E così via.
Si viene creando una sorta di parafrasi del mondo reale. In essa si agitano disperatamente centinaia di non – esseri che adottano quel luogo e quelle finte regole come ambito in cui cercare di qualificarsi verso un futuro meno deludente del loro triste presente.
Il Reality è diventato Irreality.
Chi vi vive per un periodo ha deciso di non essere se stesso ma aspira disperatamente a diventare ancora un altro, che sarà definito e creato da questa irreale macchina televisiva.
Comunque, si dirà, nulla di grave. In fondo già PierSilvio Berlusconi ha ordinato di eliminare le volgarità e le esibizioni para sessuali.
A un certo punto il format si estinguerà e andremo avanti senza.
Temo che non sia così semplice.
Nel 1791 Jeremy Bentham progettò il Panopticon: un carcere (o fabbrica, volendo) dove tutti potessero essere visti e seguiti in ogni momento da un unico punto di osservazione.
L’idea, positiva, che lo animava era che così le persone si sarebbero progressivamente rieducate da sole, sapendo di non poter sfuggire allo sguardo superiore.
Oggi noi ci stiamo abitando a vivere in una condizione non dissimile da quella prospettata dal filosofo. Sappiamo, cioè, di poter sempre essere trovati e visti.
Sappiamo ancora che questa condizione è destinata ad essere sempre più pervasiva in seguito agli inevitabili sviluppi tecnologici.
Ciò che è, imprevedibilmente, cambiato riguarda la maniera in cui la società (con gli individui che la compongono) vive questa nuova condizione.
In primo luogo l’essere visti e percepiti non è più vissuto come una scocciatura o comunque come una restrizione della libertà personale.
Anzi, se non si viene visti non si esiste.
In secondo luogo si è portati a ritenere che quel che si fa essendosi resi visibili sia automaticamente giustificato o comunque non sanzionabile.
In sintesi, tendiamo ad equiparare la nostra vita al format televisivo.
E rischiamo, come vedremo, di seguirne la sorte.
Il giovane tifoso romanista che si riprende mentre orina su un manifesto della Lazio ed espone il bel gesto sulla sua pagina di FacciaLibro sta cercando di attirare l’attenzione e il consenso di altri esseri a lui similari.
Fa, cioè, esattamente quello che fa il concorrente di un Reality per conquistare segnalazioni positive.
Il problema non è la volgarità o meno del gesto. Esso è identico nel caso del tifoso e in quello del distinto signore che si trasmette al mondo mentre è ricoverato in ospedale con la flebo infilata in vena.
I due, diversissimi come sono, hanno in comune il ritenere che la Realtà, l’esistenza in realtà, dipenda solo dall’essere visti.
Su un altro piano, invece, sta il ritenere legittimo qualunque comportamento purché scaricato in Rete.
Quei giovinastri che fanno cadere nella cunetta due contadini che tornano a casa in bicicletta e, dopo aver postato l’eroico atto, si stupiscono che la Polizia li venga a cercare sono il perfetto esempio di questo, per fortuna meno diffuso, atteggiamento.
Anche qui, però, prevale il tentativo di riduzione della vita alle regole e alle logiche del format.
Il parallelo rischia di farsi agghiacciante.
La possibilità di essere visti diventa, nel corso del tempo, necessità esistenziale di essere visti per testimoniare di esistere.
Colui che al ristorante fotografa il piatto di Amatriciana e lo “spamma” avidamente non sta facendo nulla di male o di dannoso.
Sta, semplicemente, togliendo energia al quel piatto gustoso e al suo buon appetito per trasferirla su un supporto immateriale.
In altri termini, il suo piacere per un buon piatto di pasta si forma e si determina anche (e sempre più) sulla base di quanti gli invieranno un commento o comunque un segno. Di amicizia, condivisione o invidia poco importa.
La trasformazione della realtà in irrealtà è iniziata.
Non ci stupiremo affatto di scoprire che quel piatto di pasta è stato fotografato due mesi fa e che ora esiste solo in quanto documento, in quanto realtà immateriale.
Non riusciremo nemmeno a chiederci quale profondo stato di disagio abbia spinto qualcuno a postarlo oggi.
Altri messaggi si stanno già accumulando sullo schermo del nostro telefonino e ci distraggono da possibili pensieri complessi.
Alla faccia di Jeremy Bentham, filosofo illuminista pieno di fiducia nell’Umanità.
Scoprirebbe, tragicamente, che neanche la possibilità di essere veduti ci migliora. Anzi.
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