IN MORTE DEL TERRORISMO

Dunque.

Muore una famosa militante delle Brigate Rosse, mai ufficialmente “pentita” né dissociata, condannata all’ergastolo.

Si scatena intorno al suo cadavere il rituale di necrofagia che sembra essere ormai diventato consueto.

La morte rende per un momento “popolare” questa persona e molte altre persone viventi si affannano a definirsi in funzione, nel bene come nel male, dei suoi atti.

Nel mondo dei social, pervaso da messaggi di molti verso molti, si cerca di agganciarsi a quello che in quel momento sembra tirare.

Ciò sarebbe anche tollerabile se servisse a definire e capire quella persona e la sua esperienza di vita.

Nella realtà, però, l’occasione viene sfruttata per raccontare sé stessi collocandosi strumentalmente per succhiare la ruota rispetto a quanto avvenuto e temporaneamente oggetto di attenzione.

Insomma, un’altra occasione perduta.

Nell’arco di tempo che scorre tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80 un grandissimo numero di persone, soprattutto giovani, conobbero e in qualche maniera “fiancheggiarono” le organizzazioni terroristiche sia di destra che di sinistra.

Non commisero, si badi bene, alcun reato.

Espressero in tal modo un peculiare disagio e una qualche forma di “non riconoscimento” nelle Istituzioni e nelle formazioni politiche tradizionali.

Pensarono di essere disponibili a ospitare per qualche ora un Compagno, o un Camerata, in fuga davanti alla Polizia di Stato.

Lessero, senza inorridire o condannare esplicitamente, documenti e giornali che invitavano alla lotta armata e prevedevano una rivoluzione sanguinosa da attuarsi a brevissimo.

Accettarono e vissero abbastanza tranquillamente lo scontro fisico con i loro avversari politici che vennero catalogati come nemici da ridurre comunque al silenzio.

Considerarono le frequenti cariche di polizia, precedute dai rituali tre squilli di tromba e comandate da un funzionario con fascia tricolore, come normali episodi di contrapposizione con uno Stato che, come recitavano gli slogan, “si abbatte e non si cambia”.

Appariva già curioso allora come questo rabbioso malessere (che, come ripeto, non configurava a questo livello veri reati) si manifestasse soprattutto tra giovani appartenenti soprattutto a ceti privilegiati che erano in contatto fra loro in virtù del comune percorso di studio.

Non convincenti apparvero immediatamente i tentativi di riportare quanto avveniva alle fisiologiche intemperanze giovanili che non trovavano più nella Goliardia la possibilità di esprimersi e scaricarsi.

In Italia, e in parte in Germania, l’insofferenza assunse immediatamente un aspetto di lotta politica generando attorno a sé una vastissima e tecnicamente incolpevole area di consenso accanto alla scelta più radicale di chi decideva di passare alla lotta armata in qualcuna delle molte forme che assunse.

Come molte cose della Storia d’Italia anche questa venne rimossa e non elaborata.

La fine, sul piano militare, degli episodi di lotta armata non determinò minimamente una riflessione di carattere collettivo sul livello di diffuso consenso che alcune posizioni estremistiche avevano raggiunto nella popolazione giovanile dell’epoca.

L’Italia uscì da quel buio periodo con la placida indifferenza con cui si esce di casa quando finalmente spiove.

Certo, alcuni individui (come per esempio Francesco Cossiga) continuarono a interrogarsi su quanto era successo. Generalmente, però, lo fecero in riferimento alle ricadute drammatiche che quel periodo aveva determinato nella loro vita.

Legittimamente ci si doveva aspettare che almeno due forze politiche, portatrici di forti identità e schierate all’opposizione contro gli assetti politici al potere, avrebbero sentito il dovere e anche la necessità di elaborare quanto era avvenuto.

Ma ciò non avvenne.

Il Partito Comunista catalogò come “oggettivamente fascista” ogni movimento, pur di sinistra, nella società italiana e risolse così la faccenda.

Provvide inoltre internamente a sterilizzare qualunque possibile adesione che si potesse manifestare nella base.

Non diversamente si comportò il Movimento Sociale. Il Partito della destra italiana aveva certamente ospitato e nutrito anche quei sentimenti che si manifestavano in forma estrema ma ora li vedeva in contrapposizione dannosa con le strategie politiche e la ricerca del consenso.

Occorreva, dunque, allontanarli o allontanarsene.

In sintesi, le due aree politiche che avrebbero dovuto (e forse potuto) recepire e dare una forma politica e parlamentare al malessere e al non riconoscimento diffuso nella società italiana si guardarono invece bene dal farlo.

Nella loro presuntuosa indifferenza venata di paura evitarono di svolgere il compito che una democrazia assegna in particolare alle forze che in un determinato momento stanno all’opposizione.

Nel vuoto politico e culturale che così si determinava ebbero facile gioco e si insediarono posizioni estremistiche con valori contrapposti fra loro.

Occorrerebbe tenere presente che altre volte l’Italia ha dovuto affrontare nodi del genere.

Ci volle la capacità politica ed elaborativa di Aldo Moro, alla fine degli anni ’50, per affidare consapevolmente alla Democrazia Cristiana il compito di mantenere nell’ambito democratico vaste aree di non riconoscimento nello Stato che si collocavano soprattutto nel Meridione,

Ma, insomma, quello era Aldo Moro.

In questa assenza di prospettiva politica si formò e crebbe quella che venne con disprezzo chiamata “l’acqua in cui nuotano i terroristi”, vale a dire un tessuto di silenziosa connivenza e talvolta persino di comprensione.

In questa area poteva risultare anche troppo facile il passaggio dalla semplice “comprensione” alla vera e propria azione armata.

Molti che furono giovani in quegli anni possono definirsi fortunati a non aver mai attraversato quel labile confine che separava la loro protesta dalla decisione di impugnare un’arma.

Un passaggio che, una volta compiuto, si sarebbe rivelato irreversibile.

Queste riflessioni possono apparire inutili o scioccamente romantiche.

Esse, tuttavia, ci conducono a un pensiero sull’oggi di natura non secondaria.

Se assumiamo come stabile principio che tutto ciò che si muove nella società civile deve trovare una forma espressiva che permetta il dialogo con il resto delle opzioni presenti in un determinato momento non ci possiamo illudere sulla situazione attuale.

La crisi di rappresentatività della politica (perfettamente esposta nei numeri della astensione) non può essere curata o corretta dall’uso delle chat e degli altri strumenti di comunicazione interpersonale. Né, tantomeno, dai talk show televisivi.

Sinora, fortunatamente, non è successo nulla di veramente grave.

Ma la battaglia degli agricoltori, italiani e non, ha mostrato l’esistere di una sofferenza diffusa che nessuno si era preso la briga di portare alla luce per presentarne le ragioni.

Si profilano, più vicine dell’orizzonte, gravi situazioni di crisi in quel che resta dell’apparato industriale italiano.

Per fortuna le Organizzazioni Sindacali si stanno dimostrando decise a governarle dal punto di vista dei loro rappresentati.

Non sarà un compito facile.

Ancora: è certamente ben vero che un giovane italiano (laureato o meno che sia) può oggi facilmente sottrarsi al disagio scegliendo di cambiare Paese di residenza.

Ma per quanto tempo ciò potrà ancora avvenire?

La società intorno a noi appare molto più disaggregata di quella in cui nacque, nelle sue diverse forme ed appartenenze, il terrorismo politico e questo sembra tranquillizzante.

Ma è anche percorsa da una miriade di canali di comunicazione diretta che certamente non possono essere catalogati e controllati.

Chiunque percorra oggi le strade italiane, a piedi come in auto, non può non sentire intorno a sé un contesto pieno di rabbia e di frustrazione che può sfogarsi in qualunque direzione.

Non possiamo permetterci che di nuovo nessuno ascolti ed esprima i borborigmi provenienti dalla pancia della società contemporanea.

Sarebbe, ancora una volta, sciocco e pericoloso.


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Commenti

Una risposta a “IN MORTE DEL TERRORISMO”

  1. Avatar Luigi
    Luigi

    Beppe, sono d’accordo sulla analisi e chiarezza psicologica. Anche più del solito, come collega e vecchio amico di Carole Beebe Tarantelli
    Luigi

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