Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
NONA PUNTATA: IN MARCIA VERSO BORGHETTO
Il giovane che sedeva in fondo al tavolo fu invitato ad avvicinarsi a loro. Dopo i convenevoli di rito, rapidamente si instaurò un’atmosfera amichevole che diventò occasione di comunione. Così Davide, era il suo nome, prese a raccontarsi. Veniva da Rodi, era riuscito ad imbarcarsi sull’ultima nave, che riportava in patria parte della comunità italiana dell’isola. Questa constava di circa ventimila persone, oltre un terzo dell’intera popolazione. Gli italiani erano cominciati ad arrivare nel 1911 dopo la guerra vittoriosa con l’impero turco che assegnò all’Italia le isole del Dodecaneso oltre Rodi. Poi il regime fascista aveva promosso una campagna di italianizzazione che portò altra gente nelle isole e programmi di grande sviluppo agricolo e civile, con messa a cultura intensiva dei grandi latifondi sottratti ai turchi, eliminazione della malaria, riforma del catasto, scolarizzazione, ed altro.
Ora, diffusasi la notizia dell’armistizio dell’otto settembre, si temeva l’ostilità dell’alleato tedesco, così chi poté, s’imbarcò. Era rimasta una guarnigione militare, in attesa di ordini che all’inizio vennero contradditori e poi più nulla, come fu per i più numerosi commilitoni della divisione Aqui a Cefalonia, e per gli altri a Corfù e nelle altre isole. Tutti dovevano affrontare le medesime incognite. La sua famiglia ebrea aveva un commercio esclusivo di articoli per uffici e scuole e a seguito di questo privilegio o per sincera fede politica, erano sostenitori del regime fascista. Una condizione comune a molti della comunità ebrea locale e nazionale d’Italia, che si sentiva legata al paese per il quale aveva combattuto con sacrificio ed abnegazione nella “Grande Guerra”. Le leggi razziali del trentotto avevano solo scalfito la fede. Pensavano e dicevano tra di loro, che il Duce le aveva dovute fare per accontentare l’alleato, ma da noi non sarebbe successo niente per la gente comune. Sarebbe bastato comportarsi bene e non sarebbe successo nulla. Non era stato così: le scuole proibite, i professori allontanati, e infine le deportazioni.
Sopportarono tutto, d’altra parte cosa potevano altro fare? Molti pensarono che in fondo stavano peggio gli ebrei in Germania e negli altri paesi d’Europa, anche quelli francesi che se potevano fuggivano dai tedeschi e dai francesi di Vichy e riparavano in Italia, l’Italia fascista di Mussolini dove trovavano un riparo più sicuro. Raccontava queste cose Davide e aggiunse che era diretto ad Ancona, città di antica accoglienza per gli ebrei. Al tempo del Papato, quando fu deciso di raccogliere gli ebrei dello stato pontificio nei ghetti di Roma ed Ancona, alcuni della sua famiglia si erano stabiliti nelle Marche e lì erano rimasti. Dopo tanti secoli i discendenti di quella famiglia erano ancora in Ancona e lui intendeva raggiungerli per avere riparo.
Non era sposato, i suoi anziani genitori non avevano affrontato il viaggio, non se l’erano sentita. D’altra parte si pensava che data l‘età avanzata non avrebbero avuto a soffrire dai tedeschi se questi si fossero sostituiti agli italiani nell’isola e nelle altre del Dodecaneso. E poi gli alleati avrebbero vinto la guerra in poco tempo, quindi non c’era da temere molto. Comunque fosse andata il mondo nel quale lui era cresciuto era destinato a finire.
Chi sa che ne sarebbe stato degli italiani e dei loro privilegi in quelle isole? Era bene che Davide costruisse la vita altrove, i genitori lo avevano convinto a partire e raggiungere i parenti ad Ancona. Non doveva pensare a loro, se la sarebbero cavata in qualche modo.
Così gli dissero, ma altri foschi pensieri non diventarono parole. Ma in qualche modo arrivarono al cuore di Davide che salutandoli ebbe la certezza che non l’avrebbe più rivisti. Dominò la commozione e solo quando la nave si staccò dal molo e loro diventarono progressivamente due punti indistinti, si lasciò andare ad un pianto irrefrenabile.
Era sceso il buio sulla locanda, per quella giornata il viaggio era arrivato al termine, occorreva il riposo della notte per accumulare le energie per il giorno successivo. Zeno e Silvio si erano alzati all’alba avevano percorso a piedi, con il camioncino e il treno, un bel tratto di strada, ora erano stanchi ma contenti che tutto fosse andato bene. Chiesero all’oste un posto per dormire e cosi Davide.
Fu data loro una camera con tre lettini al piano di sopra. Andarono a dormire, si sarebbero alzati alle prime luci dell’alba.
Cantò il gallo quando era ancora buio, dopo, una pallida luce filtrò dalla finestra della camera. Era l’alba, Zeno era già sveglio, si accinse a svegliare gli altri. A turno raggiunsero il bagno in fondo al corridoio, c’era un lavandino e una specie di buiolo per i bisogni corporali. Uscirono di lì dopo essersi lavati il viso e rassettato i capelli. Controllarono che la barba non fosse troppo lunga da ingenerare sospetti in occasionali agenti di polizia o militari. D’altra parte si limitarono a constatare, perché non avevano nulla con loro di arnesi da barbiere. Vestiti, Zeno si affacciò dalla finestra. Silenzio intorno, cielo coperto, minaccia di pioggia, nessuno lungo la strada.
Scesero da basso, l’oste preparò per loro del formaggio e del latte, a parte, un orzo scuro appena filtrato con i fondi galleggianti nella tazza. Pagarono il conto, ognuno di alcune decine di lire, uscirono in strada. Poche case intorno, basse, ad un piano, ognuna con un giardinetto davanti e un orto dietro. Presero a camminare. Dopo cento metri trovarono una deviazione che indicava un raccordo con la Cassia, proseguirono lungo la loro strada.
La pioggia fine prese a scendere e progressivamente rese il selciato fangoso, gli scarponi si ricoprirono ben presto di un induito grigiastro dato dalla terra bagnata.
Si coprirono il capo con un cappellaccio che tirarono fuori dallo zaino.
Di lato alla strada incontravano, ad intervalli irregolari, dei capanni, grandi come un’edicola, che l’Anas aveva approntato come deposito di materiali. Si riparavano e sostavano lì per un po’, quando la pioggia si faceva più fitta. Giusto il tempo per accendere un fuoco in un angolo del locale adibito a braciere, per asciugare loro e gli abiti prima di riprendere il cammino. Invece a più lunghi e regolari intervalli, avevano incontrato il giorno precedente e anche quella mattina, subito dopo aver lasciato Sassacci, le case cantoniere con le mura dall’intonaco rosso.
“Si cominciavano a vedere già a distanza le case cantoniere, e i colori di rosso pompeiano e bianco travertino riecheggiavano passate grandezze, forse anche per questo erano stati scelti quei colori. Sovente, sul davanti, pini alti con una larga chioma, di quelli che si vedono nei parchi di Roma, accanto, un garage per il riparo dei mezzi meccanici. Dietro la casa, un forno, un orto e un pollaio per gli animali da cortile. Servivano alla vita del cantoniere che con la sua famiglia viveva lì, quella era la sua casa. Stavano lungo le strade d’Italia le case cantoniere.
Sul muro era disegnato un rettangolo bianco dove si leggeva il nome della strada, il numero della statale cui quella corrispondeva, la distanza in chilometri da Roma. Su tutto troneggiava la scritta Anas, l’ente che sovraintendeva la gestione delle strade statali e che aveva eretto quella costruzione. La semplicità della forma e l’assolutezza del colore comunicavano un senso di forza, di sicurezza, di autorità severa, ma anche vigile e protettiva. Rimandava al viaggio di uomini affrancati dalla barbarie, che nella loro scoperta di sé e del mondo, trovavano sul cammino i segni di altri precedenti passaggi: pietre accatastate per delimitare uno spazio di sosta o di preghiera o per porre fine al viaggio con un ultimo respiro. Un testimone, qualunque significato esso avesse, che dava a quelli che sarebbero seguiti, forza per proseguire il cammino, e placare l’angoscia dell’inconosciuto.
Lo avevano raccolto quel testimone generazioni dopo generazioni e lo avevano portato oltre. Le case cantoniere raccontavano tutto questo e anche altre infinite cose, quante albergano nella mente e nel cuore degli uomini. Prima delle attuali c’erano state le mansiones e le mutationes romane. Anche allora c’era un ente che governava le strade dell’Impero. Dalla Gran Bretagna al deserto libico, dal Portogallo all’Armenia e a tutte le terre poste dai romani sotto l’impero del diritto e della civiltà. Tutto era cominciato all’alba della nostra storia con le strade che partendo dal Foro raggiungevano le città della Sabina, poi dell’Italia, infine del mondo conosciuto.
La Flaminia, l’Appia, la Cassia, l’Aurelia, l’Emilia, la Valeria, e tutte le altre, pavimentate le più, con pietre di basalto, levigate dai passi dei legionari e delle genti, con profondi solchi ai lati per l’infinito passaggio dei carri. Le case cantoniere raccontano anche questo, e accarezzano il desiderio di fermarsi per rinfrancarsi, prima di riprendere il viaggio della vita. Ora giacciono abbandonate e cadenti su strade non più percorse. La vita è esplosa altrove. Nei momenti di stanchezza del vivere ripercorriamole, ci racconteranno le favole delle veglie notturne nascoste in qualche parte della memoria.”
Dopo circa un’ora di cammino arrivarono in prossimità della località Borghetto, la strada era in leggera discesa e abbandonato il bosco di querce nel quale era immersa, si apriva ad una grande pianura dove scorreva magnifico il Tevere. ll paese di Borghetto sorgeva ai margini della pianura dove finiva il rilievo boscoso. Quasi a giustificare una funzione di guardia della strada e di quanto accadeva in lontananza nella pianura. Sull’ultima asprezza della collina, a dominare il paese e la strada si ergeva una rocca in rovina, ma con le mura perimetrali intatte e che secoli addietro doveva apparire maestosa e un po’ sinistra. Forse nella fantasia dei viaggiatori avrebbe potuto evocare la dimora dell’Innominato di quella parte del Lazio.
Il paese sottostante, una decina di case in tutto, delimitava a destra la strada che a sinistra aveva, in alto sulla rupe, la rocca. I tre stavano quasi arrivando alla prima casa, quando, dietro la curva, videro, non visti, soldati tedeschi. Tornarono indietro e decisero di salire per un tratturo, nascosto tra le piante, sulla rocca.
Si appollaiarono dietro un muro che presentava delle fenditure, dalla più piccola di queste, in modo da guardare e non essere visti, scrutarono cosa succedeva sulla strada e nel paese.
Prima di riuscire a rendersi conto della situazione pensarono che poteva trattarsi di un posto di blocco, o di truppe di passaggio che si erano fermate nello spaccio per fare provviste.
SEGNALIAMO
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IN VIAGGIO, NONA PUNTATA
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Commenti
Una risposta a “IN VIAGGIO, NONA PUNTATA”
Sempre avvincenti questi episodi di difficile avvicinamento ai nostri luoghi: complimenti, Marcello e un caro saluto. Grazie.