Nel calcio di altri tempi c’era un giocatore che occupava un ruolo importante, che nei moduli di oggi (gruppi di numeri la cui somma deve fare sempre 10: 4-3-3 3-5-2…) non trova più spazio: era il libero. Ci sono liberi che sono passati alla storia del calcio come Picchi, Scirea, Bruscolotti, Wilson, Baresi… erano quelli, giocatori che potevano stare dove gli pareva, fare quello che volevano, stare dietro a tutti, o anche andare avanti a tutti. Liberi di nome e di fatto, forse gli ultimi veri liberi in un gioco diventato una “prigione” fatta di regole, di tattiche, di moduli, di comportamento anche fuori dal campo.
Ecco, Gianni Minà, se avesse giocato al calcio e non fare il giornalista, sarebbe stato un libero. Libero di spaziare contro tutte le regole del giornalismo, libero di abbordare la notizia e soprattutto i personaggi famosi, prendendoli di petto, stabilendo con loro una confidenza, che i grandi personaggi non riservavano ai giornalisti, che anzi tenevano a distanza. Minà invece entrava negli spogliatoi, aspettava i giocatori a bordo campo alla fine della partita, intratteneva Panatta in un cambio campo durante una finale di un torneo importante. Maradona era un suo amico al quale si permise di chiedere, nel momento della crisi che lo portò a uscire dall’Italia e anche dal calcio “Diego che ti succede?”. Minà otteneva di entrare sul set milionario di un film interrompendo le riprese, per intervistare il regista Sergio Leone insieme al grande divo americano Robert De Niro. Quando si trovava a Cuba faceva una telefonata a Fidel Castro che lo raggiungeva in un ristorante per mangiare insieme. Faceva finta di essere picchiato scherzosamente dal campione del mondo Mohamed Alì.
Potrei stare ore a parlare di Gianni Minà ma per farla breve mi basta dire che lui è l’unico giornalista non solo italiano ma mondiale, ad essere fotografato in compagnia di Gabriel Garcia Marquez, il grande scrittore Premio Nobel, Mohamed Alì, Sergio Leone e Robert De Niro, riuniti in un allegro conviviale in una trattoria di Roma.
Minà mostrava queste cose (anzi le faceva ma non le mostrava affatto), come se fossero cose naturali, di tutti i giorni per tutti i giornalisti, cose che invece lui faceva con tanta naturalezza, con quel suo sorriso che portava sempre stampato sulle sue labbra quel sorriso che era diventato il suo segno distintivo.
Forse è stato proprio per quel sorriso che non è stato da molti, in Rai, preso sul serio, perché dava l’aria di divertirsi, Chi si diverte non lavora, pensavano questi antipatizzanti, mossi da una forte di invidia, e il povero Minà è rimasto abbandonato e ignorato per 25 anni, salvo poi essere riscoperto nel giorno della morte in cui si è dato fondo alle Teche. Senza però offrire ai telespettatori più giovani un ragionamento serio e articolato su di lui, tranne un bel documentario di Leonardo Metalli che può dire di essere stato suo allievo. Mandato in onda in ore antelucane.
E ora, a un anno di distanza dalla morte, non gli hanno dedicato neppure il ricordo che non si nega a nessuno. Verrebbe da dire: ingrata patria!
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