In occasione della Festa nazionale dell’Avanti 2024, presso il Centro sociale Giorgio Costa di Bologna, Gaia Bertotti intervista Nino Galloni, economista post-keynesiano, già direttore generale del Ministero del Lavoro, attualmente Rettore dell’Università HETG di Ginevra e autore di numerosi saggi di economia.
GB: L’Europa si sta aprendo a un modello lavorativo che aspira alla riduzione delle ore di lavoro a parità di stipendio, è un’utopia?
NG: No, non è un’utopia, ma una necessità. La meccanizzazione, l’industria 4.0, la robotizzazione spingono verso una riduzione della quantità di lavoro vivo. Ovviamente questa situazione può aprire vari scenari. Bisogna cavalcare l’onda della riduzione della domanda di lavoro vivo resistendo sulla questione delle retribuzioni, ma non c’è dubbio che nella società futura, non lontanissima, lavoreremo di meno e paradossalmente dovremo trovare un modo di guadagnare di più. Nell’ambito dell’economia, della macroeconomia questo sarà l’indicatore di benessere più importante, cioè il tempo che possiamo dedicare alle cose che amiamo, il nostro tempo libero. Tutto il processo di robotizzazione che viene demonizzato va invece cavalcato, va sfruttato per ridurre l’orario di lavoro, mantenere o aumentare addirittura le retribuzioni e far crescere e sviluppare tutte quelle attività che sono produzioni di beni immateriali, servizi di cura delle persone, dell’ambiente, del patrimonio esistente, che fanno la differenza tra una società in cui si pensa solo a morire di fatica e di lavoro e una società in cui si vive bene.
Quindi ha un’opinione positiva dell’intelligenza artificiale?
L’intelligenza artificiale, se messa al servizio del miglioramento delle nostre vite, è un progresso. Ovviamente non lo è se invece serve per metterci nei ghetti, confinarci nelle città dei 15 minuti e massacrarci. Il problema tecnologia è chi la guida, chi la controlla. In una democrazia i cittadini devono essere messi in condizioni di guidare, di vigilare che l’introduzione dell’IA serva a migliorare le nostre vite. Se vengono introdotte tecnologie che peggiorano la nostra vita, come a volte succede, è perché ci affidiamo esclusivamente ai tecnici, nella migliore delle ipotesi; invece dobbiamo affidarci a una politica sana.
Parliamo di economia, il Suo settore di maggiore competenza. In questi giorni, durante la conferenza stampa di presentazione del suo Rapporto sul Futuro della Competitività europea, Draghi ha dichiarato che “serve un cambiamento radicale, urgente, concreto; ne va dell’esistenza dell’UE”. L’ex premier invita a maggiori investimenti.
Draghi ha ripetuto in termini bellici quanto aveva detto in termini sanitari: indebitiamoci, affrontiamo l’emergenza, poi cancelliamo il debito. Questa non è la soluzione ai nostri problemi, ma un modo per uscire dalle emergenze. Draghi conosce bene la moneta e sa che esiste la moneta non a debito, ma il discorso è un altro: lui vuole semplicemente indebitarci per finanziare la guerra. Ma anche se dovessimo indebitarci per finanziare cose buone, ciò comunque non risolverebbe i problemi. Non dobbiamo più indebitarci, dobbiamo cambiare paradigma economico e immettere moneta non a debito. Immettere moneta non a debito, Draghi lo sa benissimo, significa indebolire le banche, e lui è l’uomo delle banche.
Certo, andrebbe contro i suoi stessi interessi. Quale futuro vede allora per l’Europa?
Per quest’Europa non vedo alcun futuro, soprattutto dopo che ha sponsorizzato e appoggiato l’Ucraina contro la Russia. Se la sinistra riuscisse ad appropriarsi e a non lasciare alla destra tutta la tematica del sovranismo, potremmo pensare ad un’Europa che si allarga ad est in termini pacifici: dove ciascun Paese si fa rispettare, fa rispettare la propria sovranità, ma poi arriva a degli accordi sull’economia, sui mercati, sugli scambi, sulla crescita, sulla pace, tali per cui avremmo un’Europa confederale, non cioè gli Stati Uniti d’Europa, ma un’Europa in cui si ragiona e ci si rispetta.
Tornando a livello nazionale, un altro tema politicamente importante è quello della sanità. In che misura la sanità continua ad essere un buco nero nelle regioni italiane?
È un cane che si morde la coda: per risolvere i problemi finanziari della sanità si è preteso che essa avesse degli obiettivi di profitto, e così sono stati aziendalizzati ospedali, unità sanitarie, pronto soccorso, eccetera. Il risultato finale è che spingendo sul versante del fatturato quest’ultimo aumenta perché non si persegue la guarigione o la salute dei cittadini, ma la malattia, cure disastrose e il fatto di rendere i cittadini sempre più dipendenti dai farmaci e dagli interventi. Questi ultimi rappresentano, infatti, un elemento di fatturato per l’azienda: una vendita che, da un lato, serve a dimostrare un bilancio che fa profitto ma che, dall’altro, è un costo del sistema complessivo che viene pagato con la fiscalità generale. Quindi si ottiene tutto il contrario di quanto si desideri.
Bisognerebbe centralizzare?
Bisognerebbe liberare la sanità dall’obiettivo del profitto, cioè sganciare tutto ciò che appartiene alla sfera della salute dalla remunerazione del medico. In questo modo, il medico non ha più l’incentivo a vendere farmaci o a fare operazioni e analisi inutili. Lo scopo del medico deve essere primariamente quello di tenere in salute i cittadini e poi quello di portarli alla guarigione. Quando infatti le due cose sono connesse, il guadagno cade sulla vendita dei farmaci e su interventi meno intrusivi nella vita delle persone. Insomma, il sistema sanitario è tutto da rifare.
Ultimo argomento che desidero affrontare con Lei: lavoro e giovani.
Penso che il futuro di una società felice – perché anche la felicità deve avere il suo spazio – dipenda dalla possibilità che le persone facciano ciò che desiderano. Bisogna quindi fare uno screening, una programmazione delle professioni, perché non si può ottenere solo quello che si desidera. Bisogna trovare un giusto mix, anche sfruttando il discorso delle fasce d’età: non è detto cioè che tutta la vita si debba fare lo stesso lavoro. Ad esempio, quando io ero direttore al Ministero del Lavoro, mi sono occupato di sportivi e artisti: in una prima fase della loro vita si esprimono come professionisti del campo e dopo continuano come formatori. C’è un’età in cui si impara, un’età in cui si svolgono delle mansioni e un’età in cui si insegna ai giovani.
A proposito di giovani e futuro, esisteranno le pensioni per le nuove generazioni?
Chi avrà un lavoro precario e un reddito basso, non avrà una pensione sufficiente. La mia proposta è quella di dare un reddito dopo i 65 anni a tutti ed eliminare la previdenza obbligatoria. Quest’ultima è stata un grande progresso anni fa, ma oggi non è più sostenibile perché si è scelto di flessibilizzare troppo e di precarizzare i giovani. Guardiamo cosa è successo nel lavoro pubblico: quando ero all’Inpdap, dal 2002 al 2010, facevamo avanzi di 10/20 miliardi, facevamo noi le finanziarie, ma a un certo punto hanno bloccato le assunzioni nella pubblica amministrazione. E il risultato è stato che non ci sono più stati i versamenti dei giovani. Adesso, nella pubblica amministrazione, l’età media va verso i 60 anni, perché appunto sono mancate nuove assunzioni. Da una parte abbiamo un disavanzo strutturale e dall’altra giovani che non avranno pensioni adeguate. Dobbiamo quindi cambiare sistema. Nel sistema tedesco, ad esempio, lo Stato mette a reddito i suoi cespiti patrimoniali e con quel reddito finanzia per tutti l’integrazione pensionistica. Questa mi sembra una strada interessante per l’Italia che è un Paese ricco dal punto di vista culturale, archeologico, paesaggistico. Se lo Stato mettesse a profitto delle sue proprietà, potrebbe destinare questi stessi profitti ad implementare le pensioni dei giovani.
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