IRAN AL VOTO

ESPORTARE LE TENSIONI PER CONTRASTARE LE VIOLENZE INTERNE

DEMOCRAZIA FUTURA
RICCARDO CRISTIANO Giornalista, collaboratore di Reset

Se esiste un Paese del quale si discute la politica internazionale senza mai connetterla in alcun modo con la sua situazione interna questo è l’Iran. La scelta sembra dipendere da due fattori: l’importanza dell’Iran sullo scacchiere mediorientale e non solo, anche centro asiatico, e l’impenetrabilità del suo confronto interno.

Ma forse qualcosa si può dire o intravvedere, visto che tra poco, a marzo 2024, si rinnova il Parlamento e le poche notizie che filtrano sembrano indicare una chiara volontà di non consentire ai diversi partiti del fronte riformista di poter presentare liste complete e competitive.

Il Consiglio dei Guardiani, incaricato di scegliere i candidabili tra chi presenta istanza di candidatura, ne ha già eliminati tanti e al momento il solo raggruppamento che potrebbe riuscire a mettere insieme i 30 candidati almeno per il distretto di Tehran sembra essere quello che si richiama all’ex presidente Hassan Rouhani. Più che riformista questo partito potrebbe essere pragmatico. I riformisti sono molto più indietro, un centinaio di loro non hanno ottenuto il disco verde.

Dunque quello che si profila è un Parlamento in larga parte vicino alle posizioni dei cosiddetti conservatori, o falchi. Si rafforzerebbe dunque la linea dell’ortodossia di regime, e probabilmente il presidente in carica, l’uomo dall’inquietante passato, Ebrahim Raisi.

Leggere questo in chiave di primato delle scelte internazionali del regime e dell’attuale deriva repressiva è corretto ma non sufficiente.

Infatti, al di là di ogni speculazione sulle sue reali condizioni di salute e le sue presunte malattie, Ali Khamenei ha indubbiamente 85 anni, governa dagli anni Ottanta, al massimo livello dalla morte di Khomeini. Il regime sa che non sarà eterno ma sa anche che la scomparsa di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani ha tolto di mezzo il vero king maker, e che l’unico possibile successore in questo ruolo, Kassem Soleimani, il potente capo dei pasdaran, è stato assassinato.

Clero e Pasdaran appaiono due centri di potere senza garanzie di raccordo tra di loro e la società è così ferita e distante che difficilmente garantirà al momento del passaggio dei poteri un contesto di tranquillità. Il crescente numero di pene capitali lo conferma.

I bombardamenti in Iraq, Pakistan e contro il nord della Siria e gli attacchi degli Houti yemeniti

Ecco allora che i recenti bombardamenti in Iraq e in Pakistan sembrano più scelte di contenimento dei timori che atti espansionisti. Si leggono meglio questi bombardamenti se li si capisce contro i curdi dell’Iraq e i beluci del Pakistan, perché tanto gli uni quanto gli altri sono presenti anche in Iran, e molto “irrequieti” verso un regime che li ha ferocemente repressi.

Il Beluchistan iraniano, come il Kurdistan iraniano, sono pentole di dissenso in piena ebollizione. Anche il terzo bombardamento di questi giorni, contro il nord della Siria, sembra allora un avvertimento alla Turchia, assai presente nelle zone colpite. E i turchi hanno buone relazioni con i curdi iracheni, ai quali hanno chiesto riparo i curdi iraniani.

Il modo migliore per contrastare le possibili violenze interne è sempre quello di esportare le tensioni. E questo forse spiega anche i motivi dell’effervescenza degli Houti yemeniti, filo iraniani e forse parafulmini di altre possibili pressioni militari sul Paese.

La cautela che il regime ha mostrato tramite i suoi fedelissimi miliziani libanesi di Hezbollah per non farsi coinvolgere nel conflitto di Gaza è evidente: Hamas è utile, ma Hezbollah è indispensabile per garantire Tehran da possibili attacchi, una tale forza non può essere messa a rischio per un’organizzazione utile ma non vincolata da un patto di fedeltà confessionale come Hamas.

Ecco allora che i ribelli yemeniti possono essere diventati la carta da usare per tenere sotto pressione gli americani senza rischiare troppo. Il loro protagonismo con gli attacchi al naviglio civile in navigazione verso il Mar Rosso inoltre preoccupa i sauditi, con i quali c’è da alzare il prezzo per la pacificazione dello Yemen.

I prossimi sviluppi della crisi mediorientale diranno quanto tema per sé Tehran, quanto punterà sulla destabilizzazione degli altri per stabilizzare sé stessa e quanto confidi in un negoziato regionale che le riconosca il peso regionale, imperiale, a cui ambisce.

Questo passa anche per la grande scommessa del nucleare, che Tehran persegue ancora con determinazione nonostante tutto.

La scommessa del nucleare e il peso preponderante dei pasdaran rispetto al clero

L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) in questi giorni ha ribadito che manca poco alla bomba dei mullah.

In questo modo però è chiaro che il peso dei pasdaran, che controllano tutti i veri strumenti vincenti del regime, cioè le milizie alleate in Yemen, Iraq, Siria, Libano, è preponderante rispetto a quello del clero, alle prese con una società insofferente verso la teocrazia.

Il regime che destabilizza gli altri ha un suo equilibrio interno? Se dovesse morire Khamenei i nuovi equilibri interni, anche economici, sarebbero delineati? E le nuove alleanze con Russia e Cina?

Tehran è debole dentro casa e forte fuori, la certezza di un’egemonia teocratica, cioè del clero, non si vede: i pasdaran potrebbero ragionare in proprio all’ombra di un sistema più nazionalista e imperiale che teocratico e imperiale.

Anche per questo il voto di Marzo è importantissimo, per capire come si ridefinisce il sistema più che per leggere i rapporti di forza nella società, assai distante.


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