Masoud Pezeshkian, “il Gorbaciov di Teheran”
Quindici/A Hermes Storie di geopolitica – Mondo
Riccardo Cristiano
Giornalista, collaboratore di Reset
Pur con le dovute cautele Riccardo Cristiano formula l’ipotesi che con l’elezione di Masoud Pezeshkian dopo l’assassinio dell’ex presidente Raisi, l’Iran stia vivendo una stagione di svolta paragonabile a quella in Unione Sovietica con l’arrivo al vertice di Gorbaciov. Al posto di Raisi che occorre ricordarlo era stato un sostenitore dei pogrom del 7 ottobre 2023 perpetrati da Hamas, con il concorso sia del Guardiano Supremo Ali Khamenei sia dei Psdaran, sarebbe stato eletto un Presidente, Pezeshkian, che spinge al dialogo con Washington. Per Cristiano “Il significato dell’elezione di Pezeshkian è chiaro: l’Iran ha scelto il negoziato. La scelta del negoziato non la immagina solo ma soprattutto sul nucleare, e su questo trova l’attenzione del petro-monarchi del Golfo, determinati a favorire l’Iran in cambio di minor espansionismo per ottenere quella stabilità regionale che gli serve per portare avanti la trasformazione economica che perseguono e che nell’instabilità non sarà possibile. Questa scelta sarà strategica se l’eliminazione di Raisi fosse stata una scelta interna, sarebbe tattica se questa eliminazione fosse stata operata da forze esterne. Certo però la scelta, tattica o strategica, è stata compiuta, l’intervento dei battaglioni dei mullah in Libano non c’è, anzi secondo alcune fonti libanesi si profila una scelta tanto pericolosa quanto importante: il trasferimento della popolazione sciita nel sud del Libano verso il nord ovest della Valle della Bekaa, lontana dal confine israeliano ormai considerato perduto ma vicina a quello siriano”.
Per l’ex inviato della Rai in Medio Oriente “la svolta iraniana sembrerebbe implicare una scelta enorme: rinunciare all’attrito diretto con Israele, almeno per la fase corrente, e unire la popolazione fedele a una Siria dell’alawita Assad, federato con la Bekaa sciita”.
1 ottobre 2024
Per parlare dell’Iran occorre partire da una premessa, per onestà: cosa realmente stia accendo in Iran lo sanno in pochi, e forse neanche questi pochi hanno il quadro preciso. Ma c’è una frase apparsa sui giornali degli ultraconservatori, l’ala dogmatica e intransigente del regime teocratico iraniano, che ci può aiutare a guardare un po’ in quel mondo con il poco che ne sappiamo o che riusciamo a capire dalle nostre fonti. Questa frase è a noi accessibile e definisce il nuovo presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, “il Gorbaciov di Teheran”.
Questo lo possiamo capire perché sappiamo chi sia stato Gorbaciov, cosa abbia fatto e che scelta abbia significato per il suo partito, per il suo Paese e per il mondo pure. Sappiamo anche che Gorbaciov era ritenuto all’inizio un uomo della corrente riformatrice guidata dall’ex capo del Kgb, Jurij Andropov. Sappiamo anche che Andropov era considerato un riformatore più gradualista rispetto a Gorbaciov. Ma chi sarebbe l’Andropov di Pezeshkian non lo sappiamo. Non c’è? Per rispondere bisognerebbe capire i moti e le correnti interne.
Da Raisi sostenitore dei pogrom del 7 ottobre a Pezeshkian che spinge al dialogo con Washington
Certo, Pezeshkian è balzato in modo inatteso alla guida del suo Paese dopo un delitto rimosso, non spiegato, non indagato e quindi non decifrabile: l’eliminazione del suo predecessore, Ebrahim Raisi. Fu un colpo da dentro o da fuori? Chi può dirlo? Certo la svolta non casuale, non per “scelta del popolo”, ma determinata da chi decide è stata radicale: dal Raisi che applaudiva al pogrom del 7 ottobre, sposando un’estrema, si è passati a Pezeshkian, “l’americano” per molta stampa conservatrice, che parla di dialogo soprattutto con Washington, ora accolto anche da Trump. Pezeshkian in queste ore ha tentato di far entrare nel suo governo un sunnita iraniano, un fatto senza precedenti. È stato bloccato dagli ultraconservatori ma intanto ha spostato l’asticella, non si discute più del ritorno sulla ribalta del ministro che firmò gli accordi sul nucleare, Zariff, e io credo che tornerà alla carica anche sul ministro sunnita.
Il ruolo esercitato da Ali Khamenei e dai Pasdaran.
Chi lo ha portato alla presidenza, facendo emergere contro di lui un rivale tanto ultraconservatore quanto improponibile? Qui il pensiero non può che andare ai soggetti che decidono: Ali Khamenei e i Pasdaran.
Khamenei non è un uomo, è un complesso di consigli, uffici e ambienti che ne fanno la guida suprema della rivoluzione, lui compatta e orienta il blocco egemone nel comando iraniano.
I pasdaran sono i guardiani della rivoluzione, gli ex ragazzi che salvarono il Paese dall’attacco iracheno negli anni Ottanta che oggi riassumono in sé la sicurezza e il potere economico, lecito e soprattutto illecito, del sistema iraniano. Ma non esiste un solo pensiero tra i “guardiani”, soprattutto da quando è stato eliminato il loro uomo forte e simbolico, Qasem Soleimani. Lui ha incarnato l’epoca del primato dei pasdaran dell’estero, quelli che hanno costruito il “fronte della resistenza”, le milizie filoiraniane in Yemen, Libano, Siria e Iraq. La sua leadership è stata la leadership di un campo, all’ombra del quale però sono cresciuti gli altri, i pasdaran dell’interno, quelli che reprimono il dissenso interno ma che oggi preferiscono dedicarsi alla gestione dell’economia nazionale e quindi hanno un pensiero diverso.
Probabilmente proprio il potere e la ricchezza hanno “bucato” sia Hezbollah sia i pasdaran, che entrati in contatto con ambienti profondi di tutti i mondi criminali, dal narcotraffico al commercio d’armi al riciclaggio sono diventati penetrabili, perdendo la sicurezza dell’intelligence a favore del nemico. Ma i buchi di intelligence, per Hezbollah i cercapersona caduti nella rete avversaria e per i pasdaran l’assassinio del capo di Hamas, Islamil hanyeh, in un albergo di Tehran, sono successivi alla grande svolta, l’elezione di Pezeshkian.
La scelta per il negoziato
Allora non son questi infortuni e ciò che hanno comportato a determinare il riposizionamento di Khamenei. E quale può essere stata la svolta? Solo l’assassinio di Raisi. Diversità di veduta sul 7 ottobre, e quindi assassinio interno, o primo “buco” dell’intelligence che ha consentito un simile colpo dall’esterno? Non lo sapremo mai, ma evidentemente accade lì qualcosa e questa incertezza tra le uniche due ipotesi – l’incidente non regge proprio – determina l’incertezza sulla natura della scelta compiuta, non sul suo significato.
Il significato dell’elezione di Pezeshkian è chiaro: l’Iran ha scelto il negoziato. La scelta del negoziato non la immagina solo ma soprattutto sul nucleare, e su questo trova l’attenzione del petro-monarchi del Golfo, determinati a favorire l’Iran in cambio di minor espansionismo per ottenere quella stabilità regionale che gli serve per portare avanti la trasformazione economica che perseguono e che nell’instabilità non sarà possibile. Questa scelta sarà strategica se l’eliminazione di Raisi fosse stata una scelta interna, sarebbe tattica se questa eliminazione fosse stata operata da forze esterne.
Certo però la scelta, tattica o strategica, è stata compiuta, l’intervento dei battaglioni dei mullah in Libano non c’è, anzi secondo alcune fonti libanesi si profila una scelta tanto pericolosa quanto importante: il trasferimento della popolazione sciita nel sud del Libano verso il nord ovest della Valle della Bekaa, lontana dal confine israeliano ormai considerato perduto ma vicina a quello siriano.
Potrebbe essere anche il tentativo di superare l’unità territoriale libanese avvicinando la Beqaa alla Siria dell’amico Assad. L’identitarismo cristiano che punta a un suo ghetto, un piccolo Libano tutto cristiano sul Monte Libano e parte di Beirut, non avrebbe nulla in contrario, anzi, vedrebbe avvicinarsi il suo sogno suicida. La speranza di difesa del Libano, bastione mai difeso di pluralismo cosmopolita, resterebbe in mano all’altra componente cristiana e ai sunniti.
Le ragioni del riposizionamento
Ma al di là di queste ipotesi che oggi sarebbero in discussione, la svolta iraniana sembrerebbe implicare una scelta enorme: rinunciare all’attrito diretto con Israele, almeno per la fase corrente, e unire la popolazione fedele a una Siria dell’alawita Assad, federato con la Bekaa sciita. Perché una scelta del genere?
Il primo motivo per il riposizionamento iraniano oggi sarebbe la necessità di curare le falle apertisi di tutta evidenza nel sistema delle intelligence amiche. Ma il motivo di fondo potrebbe essere un altro: il prevalere dei nazionalisti in Iran, che non condividono la teologia apocalittica che univa Khomeini, Soleimani e Nasrallah? L’approccio apocalittico si base su una teologia dell’Apocalisse per cui compito dei rivoluzionari e dei combattenti sarebbe quello di avvicinare l’ora della vittoria finale del bene sul male, cioè dell’Apocalisse, con il superamento della visione lineare del tempo, sostituita da una visione fratturata, per cui il cammino verso la fine del mondo scorre tra urti e il compito del rivoluzionari è determinare scontri sempre più forti, scontri fatti di azioni forti e reazioni fortissime, sempre di più, avvicinando così l’Ora. Questa linea non necessariamente oltranzista, può anche contemplare momenti di riorganizzazione nei quali tatticamente riprepararsi all’azione, ma mai la rinuncia. L’altra corrente quella nazionalista, sarebbe per alcuni versi preoccupata per la tenuta del regime su questa linea, troppo sgradita all’interno dell’Iran e caldeggerebbe un approccio che sostituisse l’islamismo apocalittico con il nazionalismo, sacrificando anche alcune perle della corona, ma straniere. Se ci sono dei prezzi da pagare li pagano gli alleati, ma arabi, non noi persiani, questo, per capirsi, il possibile discorso.
Favoriscono il grande negoziato? Da quanto emerge dall’Iran è molto difficile dedurlo, chi non è convinto sostiene che le sanzioni sono state la loro vera mangiatoia, quella che gli hanno consentito di gestire un’economia grigia e molto redditizia. Ritengono il nazionalismo, non il velo, una frontiera con la quale recuperare consenso e presa.
Restituire fascino e unità al discorso islamico
Dunque, dov’è il cuore concreto che ha spinto verso la svolta? E questa svolta, siamo sicuri che ci sia? Un indizio dice di sì. All’inizio della grande offensiva israeliana contro Hezbollah, Ali Khamenei ha pronunciato un discorso di grande rilievo. Ha detto che il mondo islamico deve valorizzare il suo soft power contro i suoi eterni nemici.
Viene attaccata duramente Hezbollah, saltano i cercapersona di tutto il gioiello dell’hard power iraniano, e Khamenei si appella al soft power. Un soft power che sarebbe costituito, per quanto lui ha detto, da intellettuali, scrittori, artisti, poeti, e che dovrebbe restituire fascino e unità al discorso islamico contro i suoi inguaribili avversari. La svolta è evidente.
Che poi sia tattica o strategica chi scrive non lo sa, ma chi non guarda alle sfumature e crede che i fatti modifichino le idee, cioè la Riyadh di bin Salman, dimostra di accontentarsi della svolta in sé e dimostra anche di voler andar avanti.
Che poi pensi di poter portare Teheran fino ad accettare la sua proposta forte, la creazione di uno Stato palestinese sovrano ma accanto a Israele nessuno lo ha detto, ma senza questo l’attuale bin Salman (sempre disposto a cambiare) non firma accordi, perché stabilizzare il Medio Oriente, cioè rendere possibile la sua agenda di trasformazione economica, attirando investitori e turisti, senza risolvere la questione palestinese per lui non sarebbe possibile.
La fase finale del lungo regno di Khamenei è da decifrare senza forzature legate a schemi rigidi e forse superati, ma anche senza certezze sulle vere intenzioni profonde.
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