Dopo due anni di Governo Meloni
Sedici/A Hermes Storie di geopolitica – Italia
Salvatore Sechi
Docente universitario di storia contemporanea
Prosegue la discussione sul bilancio di due anni di Governo Meloni: dopo 24 mesi a Palazzo Chigi lo storico Salvatore Sechi si chiede se “Irrompe il nuovo o rimangono i vecchi mali strutturali?”
15 ottobre 2024
“In un orizzonte di legislatura, il Governo continuerà a lavorare per consolidare e validare i risultati raggiunti e per rispettare integralmente il patto programmatico sottoscritto con i cittadini”.
Questa è la conclusione sui due anni (inizio 22 ottobre 2022), del governo Meloni che si legge nel rapporto pubblicato alla vigilia del secondo anniversario sul sito dell’esecutivo e composto da 59 slide.
Si deve dire che questa dichiarazione è un’invenzione plateale sia in riferimento al 2022 sia alla situazione venutasi a creare con la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti.
Non è vero cioè che le realizzazioni corrispondano ai programmi classici dei partiti cosiddetti “sovranisti”. In Matteo Salvini e in Giorgia Meloni ci fu un animoso rifiuto dell’atlantismo (con un pregiudizio (favorevole nei confronti un leader estremista come Trump), della comunità europea (alla quale si è attribuita una subordinazione agli Stati Uniti), un poco ambiguo richiamo all’alleanza con la Russia di Putin.
L’opzione per l’atlantismo
I due anni del governo Meloni sono stati la negazione del programma di politica estera e di collocazione negli schieramenti internazionali offerto ai loro elettori.
Non ha senso fare oscura glossa dove è chiaro verbo. Giorgia Meloni non ha fatto mistero di trovarsi a proprio agio con gli esponenti dei paesi con regimi democratico-liberali. E si è trovata in sintonia, su molti dossier, con lo stesso presidente uscente degli Stati Uniti Joe Biden.
Con l’elezione di Trump ci sarà un ulteriore cambiamento. Si deve dire inevitabilmente, se sarà confermata la linea protezionistica, con dazi all’esportazione.
Questa politica commerciale colpirebbe frontalmente, per fare un esempio, una regione come il Veneto che è il principale produttore al mondo di scarponi da sci e soprattutto di un prodotto ancor più diffuso come il vino. Gli Stati Uniti assicurano, solo per la viticultura, circa 500 milioni di euro). E assorbono il 30 per cento della produzione di macchinari, trattori e satelliti. Per non parlare della moda e dell’industria del fashion, dei notissimi prodotti De Longhi, Luxottica e del biomedicale.
Una differenziazione molto forte tra Meloni e Trump riguarderebbe il proseguimento dei futuri rapporti con l’Ucraina. Il governo italiano ha sempre sostenuto, anche sul piano delle forniture militari, Kiev. Che cosa può succedere se Trump, per sostenere la Russia di Putin, chiedesse che gli venisse ceduto il Dombass o la Crimea? E se per fronteggiare l’attacco di Trump alla Nato (perché si autotuteli con risorse proprie), Roma fosse costretta ad aumentare le spese militare per i piani di difesa regionali dei membri dell’Alleanza portandole a oltre il 2 per cento del PIL?
È quanto ha precisato il neosegretario generale Mark Rutte, ma non si vede quanto Giorgia Meloni possa dirsi felice. Essendo buona amica di Viktor Orban (che è il principale esponente filorusso dell’Unione Europea), ha probabilmente messo nel conto di poter fare da ponte tra l’Europa liberal-democratica e Trump.
Al di là dei rapporti personali (non si possono scordare quelli incestuosi di Salvini con Putin e col prossimo inquilino della Casa Bianca) conterà pure qualcosa, agli occhi di Trump, un dato come quello che indica in 450 milioni i componenti del mercato rappresentato dall’Europa, cioè l’area produttiva più grande del mondo. Si può davvero pensare di assoggettarli ad una severa politica di dazi che potrebbe non indebolire, quando non distruggere, milioni di imprese e di imprenditori?
La politica commerciale: il caso del Veneto
La politica commerciale è fatta di vasi comunicanti, i dazi in entrata solleciteranno dazi anche in uscita. Pertanto, accreditare la volontà, ad opera di Trump, di isolare gli Stati Uniti dall’Europa, cioè di ignorare i legami fittissimi di interdipendenza stabilitisi da almeno due secoli tra i due continenti, è solo una previsione terroristica, ma priva cioè del minimo realismo.
Poiché ho citato il Veneto, vale la pena di ricordare i dati che citava il presidente Luca Zaia su Il Foglio per sminare di ogni credibilità il varo di una politica protezionistica, disastrosa per entrambe le parti.
Gli investimenti degli Stati Uniti nella regione veneta nel 2023 sono stati di oltre un miliardo di euro, con un incremento del 15 per cento di anno in anno. Oltre tre milioni di americani visitano il Veneto ogni 365 giorni ad un ritmo annuale del 26 per cento, per non parlare dei 600 studenti americani iscritti negli atenei della regione.
Questi dati valgono per il Lazio, la Toscana, il Piemonte e in generale per tutti i paesi europei.
Lo stesso atlantismo è a rischio di rottura, dal momento che l’appoggio incondizionato a Volodymyr Zelens’kyj in Europa non c’è più, come ha dimostrato l’andamento delle recenti votazioni nel nostro continente. Ad alimentare questa illusione è solo la vocazione a sinistra della Commissione, – voluta per favorire la propria riconferma come presidente – da parte di Ursula von der Leyen.
Del cosiddetto atlantismo fanno parte i diritti civili, e la bioetica, a cominciare dall’aborto che incidono sui costi della sanità. Il governo italiano non potrà assecondare fino in fondo l’ostilità trumpiana verso di essi. Si tratta di una molto scarsa sintonia che costituisce lo specchio del radicale conservatorismo repubblicano. Su questo tema rimando al bel saggio di Luca Ricolfi, Il follemente corretto[1].
Il documento del governo prima citato rivendica poi i risultati ottenuti nel contrasto all’immigrazione clandestina, la riforma per un sistema fiscale efficiente, i finanziamenti sempre più consistenti alla sanità e il primato per gli obiettivi raggiunti nel PNRR.
L’economia a zero virgola
Sull’economia con la legge di bilancio il governo rischia di invertire la tendenza alla crescita rivelatasi negli anni precedenti e regredire ai livelli di zero virgola. Il che, detto diversamente, significa innescare il pericolo peggiore, cioè quello di “perdere base produttiva”.
Questo esito sarebbe in connessione col mancato sostegno agli investimenti e alle imprese, condannando la nostra economia a ristagnare in uno stallo sostanziale.
A fotografare questo incubo è il dato riguardante l’andamento della produzione industriale che da 24 mesi è in caduta tra meno 7,4 per cento e meno 4 per cento. Le stime dell’Istat nell’ultimo trimestre parlano di una gelata che continua nell’industria, e in particolare nel settore auto, che si è dimezzato; di un segno meno nell’occupazione stabile e di un’accelerazione nel carrello della spesa.
Ma il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti ci rassicura, offrendoci la narrazione di uno scenario distante da quell’1 per cento del PIL che si può leggere nel bilancio. C’è poi una novità, che da un governo di destra nessuno poteva aspettarsi: una riduzione delle tasse attraverso la politica nuova di zecca del concordato fiscale, con l’obiettivo di fare cassa col recupero del gettito e dell’evasione.
Dunque, per la prima volta nell’establishment conservatore italiano appunto, insieme alla carota del concordato, la frusta (ma forse è solo un bastone) dei controlli per potere ridurre le tasse.
Ma chi sono gli eroi sventurati che le pagano in Italia? Itinerari previdenziali nel suo ultimo rapporto in cui ogni anno fotografa le dichiarazioni dei redditi ha scodellato pari pari, con la magnifica ruvidezza dei numeri, che a garantire il 64 per cento del gettito (per la scuola, la sanità e l’assistenza) è appena una minoranza degli italiani, ovvero solo il 15 per cento.
Sul quotidiano della Confindustria l’implacabile Lina Palmerini posa la dolcezza implacabile del suo sguardo su qualcosa che a Elly Schlein non passa neanche per la testa, cioè che
“a quel 15 per cento non si promettono certo trattamenti di favore come condoni, anzi, dai 75 mila euro in su ci sarà un taglio alle detrazioni”.[2]
E, intanto, sul piede di guerra, annunciando scioperi e proteste, sono già scesi i medici, gli insegnanti, gli addetti ai trasporti.
Se questi elementi nostrani vengono sommati alla crisi tedesca, cominciata proprio dal settore dell’auto, si vedrà generare una paura vera e propria che scuote ormai l’Unione Europea.
A farla scemare, in assenza di sostegni e investimenti per le imprese, non sembra sia sufficiente quanto Giorgetti ha proposto. Si tratta di correzioni e raffreddamenti come la proroga e il ri-finanziamento del credito d’imposta.
La stessa riduzione strutturale dell’imposizione fiscale per i redditi da lavoro dipendente fino a 40 mila euro rischia di essere vanificata dal riordino parallelo degli oneri detraibili che è stato previsto per i contribuenti il cui reddito complessivo sia superiore a 75 mila euro.
L’accordo con l’Albania e la politica estera come tentativo di legittimare l’immagine della Meloni
Sul piano della politica estera, chiuso nel 2023, l’accordo con l’Albania dovrebbe consentire di trasportare nell’area di Gjadër nel comune di Alessio i migranti messi in salvo nel Mediterraneo dalle navi italiane. Le diverse centinaia di milioni per realizzare due strutture a carico dall’Italia in territorio albanese a regime dovrebbero reggere un flusso annuale di 36-39 mila persone. In realtà finora hanno dato ospitalità solo ad alcune decine. Dunque, un costo enorme per un esito irrisorio, ma l’investimento pare volto a coprire solo il tentativo di legittimazione sul piano internazionale dell’immagine della Meloni.
Le politiche per l’occupazione. Dati in crescita ma ancora lontani dai tassi europei
Sull’occupazione, il governo sembra contare un successo. Ad agosto 2024 il tasso di occupazione è salito al 62,3 per cento. E si può parlare di un vero e proprio record degli occupati, attestati oltre 24 milioni. Per la verità esso in Italia resta lontano dai tassi di occupazione europei.
Mentre il PIL è rimasto stabile, nel terzo trimestre si registrano palesemente livelli record negli impieghi. Tutta occupazione fragile, povera, fatta di lavoretti e di bassi salari, e instabile? Per la prima volta dopo 13 anni, la percentuale di lavoratori poveri nella crescita dell’occupazione è sotto il 10 per cento (nel 2022 era dell’11,5 per cento). Anche se resta ancora molto elevata ed esposta alle fiammate dell’inflazione (che falcidia il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti).
Si tratta di un aumento di occupati nei settori della ristorazione, del commercio e dei trasporti (dove tradizionalmente si annida il lavoro povero e precario)? No, ma del settore delle attività immobiliari, nelle professioni (tecniche e scientifiche) e nei servizi di comunicazione e informazione. In una parola, nei settori a valore aggiunto che si suole definire medio-alto.
Un’analisi più specifica induce a rilevare che nel nostro mercato del lavoro (soprattutto nel Sud l’occupazione è cresciuta più della media nazionale, anche se gli squilibri col Nord permangono), il numero dei disoccupati è diminuito del 5,6 per cento (pari a meno 97 mila unità), gli inattivi (cioè coloro che non cercano un lavoro) sono aumentati dello 0,6 per cento (pari a più 68 mila unità).
Questa discrepanza fra il dato sugli occupati e le condizioni reali del mercato del lavoro italiano la si può rinvenire anche sul fronte femminile. Se si evita il riferimento alla media europea (pari al 70,8 per cento), il tasso di occupazione femminile è salito al 53,5 per cento, con 10 milioni di donne occupate, un livello mai raggiunto finora. Ha ragione, dunque, il governo Meloni a parlare di miglioramento.
I dati del PIL, del saldo commerciale, dell’inflazione e degli sbarchi sulle coste italiane
Lo stesso giudizio positivo, sempre a prescindere dalla comparazione con Francia e Germania, non si può negare per il Prodotto Interno Lordo (più 0.2 per cento e più 0,6 rispetto al quarto trimestre del 2022) né per il saldo commerciale del 2023 – con un avanzo di 34,5 miliardi di euro, rispetto al saldo negativo di 34 miliardi del 2022 – .
Anche l’inflazione in Italia è al di sotto di quella dei paesi dell’Eurozona – secondo il report Eurostat di settembre, reso noto il 1° ottobre 2024[3] – avrebbe registrato un tasso tendenziale dello 0,7 per cento, più alto solo di quello di Irlanda, Lituania e Slovenia e ben al di sotto della media dell’Eurozona dell’1,7 per cento.
Analogamente, sulle coste italiane si sarebbe registrato un meno 61 per cento di sbarchi tra il 1° gennaio 2024 e il 21 ottobre 2024 Purtroppo, però, gli sbarchi clandestini, se sono diminuiti per l’Italia, sono aumentati per la Grecia e per la Spagna.
A cosa serve l’elevato valore del risparmio in Italia
Non è stato affrontato, al di là delle solite celebrazioni, il problema del valore del risparmio e della sua valutazione. Come mai le autorità di politica economica riescono a incidere poco su di esso. Detto diversamente come mai non si è capaci di trasformarlo in investimenti produttivi?
La destinazione continua ad essere la solita, duplice: da una parte viene impiegato per finanziare il debito pubblico (capace solo in minima parte di alimentare investimenti pubblici); per un altro verso viene investito per finanziare investimenti e consumi di altri Paesi, cioè all’estero.
Occorre che in seno al governo abbia un seguito, una risposta coraggiosa, il recente rilievo del governatore della Banca d’Italia secondo cui una politica monetaria restrittiva (per frenare l’aumento dei prezzi col contenimento della domanda, che determinerebbe, a sua volta, un rallentamento dell’economia) diventa dannosa.
Dunque, occorre attivare una politica fiscale come quella delineata dall’ex ministro professor Giovanni Tria, cioè che riduca il sostegno ai consumi – con il contenimento del deficit e del debito pubblico – e destini la spesa pubblica verso gli investimenti produttivi:
”La politica fiscale dovrebbe quindi cooperare a liberare il risparmio in direzione degli investimenti, assorbendone meno per coprire i propri disavanzi di parte corrente, e al tempo stesso, contribuendo a sostenere la domanda di risparmio sia direttamente attraverso la propria spesa per investimenti, sia indirettamente con politiche fiscali di sostegno agli investimenti privati”[4].
C’è in questa proposta l’intento assai positivo di frenare l’inflazione con una politica di bilancio non espansiva al fine di realizzare una certa equità. Gli effetti negativi dell’inflazione si scaricano sempre sui ceti più poveri o con redditi fissi. Con la politica fiscale piuttosto che con una politica monetaria pare sia possibile una più equa distribuzione dei sacrifici necessari a bloccare l‘inflazione.
Come bloccare l’inflazione e rilanciare gli investimenti.
Il governo con gli obiettivi di bilancio indicati sembra aver scelto questa strada. Ma troverà a ritardarla – e anche ostacolarla – l’emergere di conflitti di interesse particolari, che una coalizione con troppe “anime” non sarà in grado di mediare efficacemente. Il dato da cui partire è la frenata (con crescita zero) del PIL nel terzo trimestre del 2024. Che fare? Privilegiare unicamente i conti pubblici o sostenere più incisivamente la base produttiva. Il che significa, come ha spiegato il direttore generale della Confindustria, Maurizio Tarquini, consolidare la politica industriale e dare più impulso agli investimenti.
Ma esiste un’altra, e diversa, lettura di questo debolissimo risultato congiunturale. Sarebbe la dimostrazione che il primato della nostra crescita in Europa di qualche anno fa era un effetto ottico drogato dal debito, la cui fine avrebbe portata nel 2024 al rallentamento dell’economia e al riemergere tumultuosamente in superficie i mali strutturali, cioè di sempre. Dunque, una competitività sempre in perdita, una crescita e una produttività da fanalino di coda.
Uno stereotipo o una realtà?
È finito il boom edilizio e l’industria manifatturiera è in flessione, ma stiamo vivendo una sorta di intensissimo duello – impensabile anche solo dieci anni fa – col Giappone e con la Corea del Sud per aggiudicarci il quarto posto nell’export internazionale.
Questo grande successo è attribuito (non solo per il caso italiano) non certo alla produttività del lavoro o del capitale, ma all’aumento e alla “produttività” dei debiti pubblici. È stato calcolato da Marco Fortis che per ogni miliardo di debito pubblico, l’Italia ha generato 2,4 miliardi di PIL nominale in più. Molto più, dunque, della Germania, della Spagna e della Francia e degli Stati Uniti, in più dei debiti pubblici[5].
La politica economica del governo Meloni non ha inciso sui due fattori che impediscono all’Italia di diventare un competitor globale. Secondo lo studio presentato al Forum di Cernobbio dal Teha Club, sono due: il rallentamento costante (negli ultimi vent’anni) della produttività del lavoro e la struttura micro-dimensionale di oltre 20 mila imprese.
Nell’Unione Europea la crescita media è stata di più 25 per cento, in Italia è aumentata di appena l’1 per cento (una stagnazione che spiega perché non crescano né il PIL né i salari e quindi si sia di fronte ad un declino complessivo). Non meno impressionante è l’altro fattore critico, il predominio di piccole e medie imprese che non hanno economie di scala per competere in modo più efficace sui mercati globali.
L’inferno della sanità e le attese dal concordato fiscale.
Non ha senso occuparsi della sanità perché è esperienza comune, fonte di disagi e sofferenze inenarrabili la mancanza di medici e infermieri, l’affollamento di pronto soccorso e ospedali, l’impreparazione professionale, l’invecchiamento dei macchinari, la débâcle di un modello per il mondo intero degradata a un sistema in cui si ha paura di entrare. Perché ha cessato di curare, ospita solo chi è rassegnato a morirvi dentro.
L’inchiesta di Milena Gabanelli e Simona Ravazzi, Codice rosso[6] è un’indagine impietosa e incontestabile della trasformazione della sanità pubblica in un gigantesco affare privato. Quando Giorgia Meloni cerca di negarla, si vede che balbetta. Non è solo colpa sua, ma è chiaro che non sa dove mettere mano e chi colpire. Gabanelli e Ravizza mostrano come sia possibile un grande giornalismo d’inchiesta in un mondo dell’informazione che sa solo bofonchiare e urlare.
Come funziona il fisco, il concordato che il governo ha proposto per ridurre l’evasione. Vi hanno aderito oltre 500 mila cittadini per 1,3 miliardi di euro di incassi che si attendono nel biennio. Va detto subito che analoghe iniziative non ebbero un tale successo nel 2003-2004 quando vi aderirono la metà degli attuali contribuenti (cioè circa 200 mila).
Una spiegazione è facile trovarla subito, è un concordato molto generoso. Garantisce, infatti, che le imposte sostitutive sui maggiori redditi arrivino fino al 60-70 per cento di sconti. Non ha avuto una platea numericamente maggiore di adesioni perché il rischio di controlli, cioè di accertamenti, è un’eventualità non incombente. Ma un’efficacia nell’indurre all’emersione il concordato l’ha avuta. Il viceministro Maurizio Leo si è giustamente compiaciuto che merito dell’operazione sia stata di portare in superficie 8,5 miliardi di euro imponibile. Corrispondono, a dire il vero, a circa 20 mila euro di un incremento medio di reddito nel biennio. In altre parole, ogni contribuente, per effetto del patto fiscale, deve mediamente pagare poco più di 3220 euro per il biennio 2024-2025[7].
Sicuramente si può parlare, come ha fatto il governo, di un’operazione di tranquillità fiscale. Dunque, non sono cifre che giustifichino quanto compare nelle campagne pubblicitarie sul concordato, cioè “Paga il giusto”.
[1] Luca Ricolfi, Il follemente corretto. L’inclusione che esclude e l’ascesa della nuova élite, Milano, La nave di Teseo, 2024, 336 p.
[2] Lina Palmerini, “Il peso dell’economia nel voto Usa e i segnali all’Italia”, Il Sole-24 Ore, 2 novembre 2024, p. 9
[3]“Euro area annual inflation down to 1.8%, Euro indicators. Overview”, Eurostat, 1° ottobre 2024. Cfr.
https://ec.europa.eu/eurostat/web/products-euro-indicators/w/2-01102024-ap
[4] Giovanni Tria, “Una politica fiscale che diriga il risparmio verso gli investimenti”,Il Sole24 Ore, 2 novembre 2924, p. 12.
[5] Marco Fortis, “La frenata del Pil e la produttività del debito italiano”, Il Sole-24 Ore, 7 novembre 2024, p. 17.
[6] Milena Gabanelli e Simona Ravazzi, Codice rosso. Come la sanità pubblica è diventata un affare privato, Milano, Fuoriscena RCS, 2024, 256 p.
[7] Salvatore Padula, “Tutti i paradossi del patto con il fisco”, Il Sole24 Ore, 6 novembre 2024, p.11.
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