1. Non totalizzabilità
Sono passati quasi cinquant’anni da quando Foucault istituiva il noto parallelismo tra l’inconoscibilità del mercato, resa icasticamente dalla metafora della mano invisibile smithiana, e la scoperta kantiana delle antinomie, secondo cui la totalità del mondo risultava inconoscibile (Cfr. M. Foucault, La nascita della biopolitica, Milano 2005, p. 232).
Se Smith aveva mostrato l’impossibilità di assumere un punto di vista sovrano rispetto alle dinamiche di mercato, Kant avrebbe mostrato l’impossibilità di totalizzare il mondo – ricordando le antinomie: non si può dire se il mondo abbia avuto inizio o esista da sempre; se sia finito o infinito; se sia tutto meccanicisticamente articolato o se vi sia spazio per la libertà, e così via. In maniera analoga, non vi è un “sovrano economico”: la costitutiva, ineliminabile “assenza di chiarezza” che ruota attorno al cosiddetto “bene comune”, la sua incalcolabilità, si abbina all’oscurità in cui versa, per definizione, ogni singolo operatore economico, poiché nessuno può pretendere di conseguire una piena intelligibilità del reale. Si noti, tuttavia, che tanto nel caso del “mondo” kantiano, quanto nel caso del “mercato” smithiano non è mai in questione la loro esistenza: la loro incomprensibilità non compromette il loro sussistere.
In altre parole, non sappiamo se il mondo sia finito o infinito, né se il mercato debba perseguire questo o quello come bene comune: nondimeno, in senso spinoziano, si potrebbe dire che il mondo e il mercato permangono nella loro ineludibile presenza sostanziale, in un modo o nell’altro. Parlare di una “non totalizzabilità” del mondo e del mercato equivale a porre il problema di una complessità irriducibile e tuttavia costantemente presente, inaggirabile – sul piano scientifico, economico e giuridico: non è per nulla casuale che questi tre ambiti, così decisivi nel configurarsi dell’età moderna, trovino qui, appunto in quella che Foucault ha chiamato la “non totalizzabilità”, il loro denominatore comune.
Per adoperare la terminologia presente in una tra le pagine più icastiche della Critica della ragione pura, la terra dell’analitica – del rigore scientifico, della “legalità” della natura – è circondata, come è noto, da quell’oceano vasto e tempestoso che prende il nome di dialettica. In tal senso si può anche azzardare che tramite questa grandiosa metafora Kant abbia anticipato, almeno per certi versi, quel che Nietzsche avrebbe presagito nelle pagine iniziali di uno dei suoi testi più celebri: «Potente nella parte, non nel tutto lo spirito della scienza» (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, Milano 20029, vol. I, p. 18). Il che non significa revocare in dubbio la scienza come tale; al contrario, se ne possono sfruttare tutte le potenzialità e le metodologie nell’indagine relativa a un certo elemento, a una certa porzione della natura, ma senza mai poter nemmeno lontanamente immaginare – in virtù di quelle stesse metodologie – la maniera in cui quelle varie parti si uniscano tra loro a comporre una totalità coerente e coesa. Lo stesso vale – mutatis mutandis – per il diritto, e lo stesso dicasi anche per l’economia: senza dubbio si possono analizzare dinamiche locali, e persino tendenze sul lungo periodo, ma nessuna “legge” può indicarci il funzionamento generale di quella macchina complessa che è il mercato.
Per adoperare una formula sintetica, forse nel binomio Kant-Smith noi vediamo la prima intuizione dell’abisso che si spalanca tra sapere e potere – probabilmente dovremmo aggiungere anche Hume, in modo da dare vita, se ci si passa l’espressione, a un “trinomio notevole” capace di sondare le fondamenta di quel progetto grandioso che è il moderno.
2. Soluzioni parziali
Si tratta, allora, di assumere una nuova postura critica anche nei confronti di alcune figure emblematiche del pensiero kantiano, che troppo spesso sono state assunte come “rimedi” da spendere con l’intento di reagire a questo stato di crescente indecidibilità, di costante perdita di un orizzonte di senso alla luce del quale inquadrare le singole operazioni e i singoli momenti all’interno di un certo contesto.
Il primo di questi rimedi risponde al nome di “Io penso”: proprio lui, quello che “deve poter accompagnare ogni nostra rappresentazione” (Cfr. I Kant, Critica della ragione pura, Milano 2001, p. 166). Sull’imbarazzo suscitato da questa stessa formulazione – “è necessario che possa accompagnare” – aveva già ironizzato lo stesso Schopenhauer: se è necessario, non ha senso inserire la possibilità, d’altra parte inserire un riferimento alla possibilità ha l’effetto di indebolire in qualche modo la necessità proclamata in prima battuta. Ma in realtà, forse, in questo passo Kant vuole suggerire proprio l’impotenza del “soggetto”. Come dire: è necessario che ce la faccia ad accompagnare tutte le mie rappresentazioni, perché altrimenti il soggetto avrebbe in sé rappresentazioni di cui non saprebbe nemmeno dire da dove siano sorte.
In realtà uno dei fattori che caratterizza lo sviluppo dell’età contemporanea è proprio l’impotenza – a volte addirittura la desolante assenza – di quell’operazione di sintesi, che costantemente cerca di trovare un filo conduttore all’interno dell’intreccio sterminato di situazioni, eventi, congiunture e accadimenti che caratterizzano la nostra (mancanza di) epoca. Si potrebbe citare a proposito la formula musiliana che recita “Anni senza sintesi”: le cose – questa l’intuizione del grande romanziere austriaco – sembrano parlarsi e collegarsi tra loro adoperando una lingua estranea all’uomo, per cui a noi non viene nemmeno richiesto di interagire o di comprendere il loro dialogo, semplicemente di assistere agli effetti della loro connessione.
Anche in questo senso, l’insistenza kantiana sull’esigenza della sintesi appare per certi versi quasi profetica. Nelle sue lezioni berlinesi su Kant, Simmel aveva reso questa situazione in maniera emblematica: «viene reciso ogni filo mediante cui i metafisici credevano di legare insieme in un’armonia arcana il pensare e l’essere» (G. Simmel, Che cos’è per noi Kant?, Roma 2016, p. 52). Un’armonia arcana che aveva retto, diciamo così, dall’identità parmenidea sino all’armonia prestabilita leibniziana: tutta la storia della filosofia assume ora l’aspetto di un cimitero in cui si conserva memoria dei vari eroi che hanno tentato di mostrare, disperatamente, come il pensiero avesse a che fare, in qualche modo, con l’essere. Ma ora questo potente legame è stato reciso: troppo complesso l’essere per poter “essere-compreso” dall’intelletto. E di nuovo torna in mente Nietzsche in Su verità e menzogna in senso extramorale, quando descrive il “momento più tracotante della storia del mondo”, quando una scimmia su un pianeta sperduto, per il solo fatto di essere intelligente, pensò di poter essere in grado anche di conoscere le cose, come se i cardini dell’universo ruotassero attorno alla sua mente, al suo specifico modo di comprendere le cose. Quale tracotanza! Quale ingenuità! – potremmo dire noi oggi.
3. Si parlava di “rimedi”, e a questo punto non possiamo scordarci del ruolo giocato dal Sollen, dal dovere, all’interno del pensiero kantiano. Non si tratta forse, anche in questo caso, di un supremo tentativo di ricapitolazione? Siamo di fronte a una sorta di sforzo disperato per cercare di “mettere ordine” nella congerie dell’esperienza, nel senso di individuare una qualche forma di “gerarchizzazione” dell’empirico. Si potrebbe scorgere nell’idea di un imperativo categorico assoluto una vera e propria risposta elaborata da Kant dinnanzi alla crescente relativizzazione del “valore delle cose” legata all’affermarsi del mercato o, meglio ancora, della forma mentis economica, in età moderna.
La presenza del libero mercato implica come idea regolativa una costante e perpetua contrattazione, anzi una vera e propria contrattabilità, una specie di commisurabilità universale di tutto con tutto. In sintesi, “ogni cosa ha il suo prezzo”, e dunque può essere vista in relazione a ogni altra cosa: tutto si trasforma in merce. In questo quadro ciò che va sparendo è esattamente l’esistenza di un assoluto – non soltanto di un punto di vista assoluto, come abbiamo già visto, bensì anche di un valore assoluto, di principi assoluti. In questa ottica, il dovere costituisce esattamente la reazione kantiana alla relatività.
Di nuovo, il confronto con Nietzsche è opportuno: circa un secolo prima che il filosofo della volontà di potenza scoprisse la svalutazione di tutti i valori come emblema del nichilismo, Kant aveva per lo meno intravisto il problema e cercato un assoluto, qualcosa su cui non sarebbe stato possibile contrattare e negoziare. Si tratta chiaramente di un ritrovato puramente ideale, anzi quasi di una “costruzione matematica” – come se stessimo costruendo, o immaginando un poligono di mille lati, esattamente allo scopo di non riuscire più a distinguerlo da un cerchio: stiamo parlando di una struttura concettuale che pur essendo umana, troppo umana, tutta kantiana, viene appunto escogitata in maniera tale da non mescolarsi mai con l’empirico. La cosa è confermata da una delle formulazioni più icastiche del dovere, che troviamo sempre nella prima Critica: «esso dichiara necessarie perfino azioni che non sono avvenute, e forse non avverranno» (I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 585). Il dovere non è l’imposizione di qualcosa, già Schiller ironizzava sul fatto che l’imperativo in Kant assume una formulazione priva di contenuto e del tutto formale: ma si deve dire che inevitabilmente si tratta di pura forma, poiché ogni contenuto avrebbe finito per condizionare la purezza del dovere stesso, riducendolo a una cosa precisa, ben determinata, e dunque oggetto di contrattazione.
Kant intendeva invece costruire a priori – in tal senso vale l’analogia con la matematica – un oggetto che non fosse intaccato dall’empirico, un “elemento” che salvaguardasse per definizione una sorta di inattingibilità, nel quale venisse coltivata l’istanza profonda di sottrarsi a ogni commercio col mondo. Anche lungo questo filo, dunque, non è possibile riannodare gli orli dell’essere e del pensare. Al contrario, qui noi vediamo in maniera chiara come il filo sia stato reciso in maniera netta: addirittura il regno della libertà si configura come un altro ordine di idee, rispetto al regno della natura. Dinnanzi al dovere noi percepiamo una specie di “ordine delle cose” del tutto autonomo, per così dire “un ordine altro”, capace di presentare come necessarie e inderogabili alcune azioni, indipendentemente dal fatto che queste possano effettivamente verificarsi nell’empirico.
Al di là delle critiche, giunte a vario livello, da Schiller a Hegel, da Schopenhauer allo stesso Nietzsche, nei confronti del Sollen, del dovere kantiano inteso come figura ormai classica della tradizione occidentale, appare chiaro almeno oggi quale sia la debolezza intrinseca di una simile idea: esattamente la sua non universalizzabilità. Il dovere, in definitiva, è un sentimento, anzi un sentimento che Kant lega a un “piacere negativo”, appunto una sorta di soddisfazione sottile che si prova nello scoprirsi irriducibili alla mera quantificazione e relativizzazione che regna oggigiorno per i mercati. A tal proposito, si potrebbe addirittura affermare che tramite questo ideale del dovere Kant abbia offerto una delle ultime eco di quell’appartenenza a un “regno che non è di questo mondo”. Ammesso che un sentimento del genere possa essere ancora percepibile e avvertibile nel nostro “tempo vuoto”, certamente non possiamo supporre che sia un sentimento avvertito da tutti – come invece pensava Kant.
4. Vi sarebbe un altro “rimedio”, quello costituito dalla bellezza, ma qui la formula stessa in cui si articola l’esperienza del giudizio dinnanzi al bello preclude ogni possibilità di gettare un ponte tra le rive opposte dell’essere e del pensare. Di fronte al bello s’avverte quella condizione peculiare dell’anima in cui tutte le facoltà sono disposte nella maniera più proficua in vista della conoscenza in generale. Nella bellezza accade come se la natura avesse tenuto conto del mio modo di conoscere. “Als ob” scrive Kant, ossia “come se”, dando per scontato che in effetti non vi sia alcun “aggancio” reale e per così dire oggettivo, ma soltanto soggettivo. «In una tale valutazione non conta che cosa la natura è, e neppure che cosa sia per noi in quanto fine, ma come noi la cogliamo» (I. Kant, Critica del giudizio, Milano 2004, p. 399).
Dunque nessun autentico rimedio rispetto alla complessità che ci circonda. Essere e pensare sono e permangono irrimediabilmente scissi; nessuna conoscibilità del mondo nella sua interezza, nessuna totalizzabilità del mercato. Nella nuova “dimensione”, in cui la riflessione kantiana ci ha traghettato, un abisso si spalanca tra essere e pensiero. Forse però non si tratta di trovare dei veri e propri “rimedi”, non si tratta di escogitare autentiche soluzioni, capaci di trarci fuori dall’impasse, come se in qualche modo si potesse ancora confidare nella possibilità di una restitutio ad integrum. L’intero sforzo kantiano nel costruire le figure che abbiamo attraversato – e molte altre ancora sono presenti nei suoi scritti – mirava a farci assumere una peculiare consapevolezza relativamente alla situazione spirituale presente: l’importanza della sintesi, il sentimento del dovere, l’esperienza del bello sono maniere in cui affinare la nostra sensibilità nell’epoca della fine di ogni metafisica, di ogni ontologia, di ogni pretesa di gerarchizzare rigidamente l’essere attraverso i dettami e i principi imposti dal pensiero.
In questa epoca ogni giorno che passa ci costringe a confrontarci con un aumento vertiginoso della complessità: rimane la testimonianza del vecchio di Königsberg, che ci indica un cammino intessuto più di saggezza che non di conoscenza, come del resto seppe cogliere perfettamente uno dei suoi più grandi eredi, Fichte.
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