Se in questo periodo dell’anno ci spostiamo con la nostra auto lungo la strada del Sempione, che costeggia il lago Maggiore a ridosso delle pendici boscose del Mottarone e proseguiamo verso Novara o Biella con quell’immagine possente del massiccio del monte Rosa già innevato che ci accompagna, proprio come pietre miliari, incontriamo caldarrostai che ci “impongono” di effettuare una sosta irrinunciabile. Con il nostro sacchetto di carta che ci scalda le mani nelle prime giornate fredde di ottobre, ci gratifichiamo con il sapore dolce e il profumo delicato della castagna.
Arrostita lentamente su grandi padelle bucherellate che emanano nuvole di fumo e che sanno di tempi passati, questo frutto che predispone all’inverno, ci riporta alla nostra infanzia e persino a quella di tutte le comunità alpine e prealpine in cui per millenni ha rappresentato l’alimento primario per sopravvivere.
Per chi come me è nato fra le montagne, la castagna riporta ai colori, ai profumi, all’emozione dell’avventura di quando si era bambini: come Cappuccetto Rosso, con un cestino in mano ed un bastone per difenderci, non dal lupo ma dalle vipere rintanate fra i rovi, ci si inoltrava nel bosco che aveva l’odore acre e amaro del muschio; i piedi si muovevano cauti su un tappeto di foglie umide e scivolose finché non si incontravano tappeti dalla forma arrotondata ai piedi dei castagni fatti di ricci scricchiolanti e pungenti. Con una pressione degli scarponcini si spaccava l’involucro dall’aspetto respingente da cui schizzava, come per magia, una manciata di castagne una avvinghiata all’altra, coriacee, dal colore marrone rossiccio proprio del legno lucidato da mani esperte; a forma di cuore dal piccolo apice chiaro, filamentoso e morbido.
Con l’emozione di aver riempito il nostro cestino, si cercava uno scorcio di lago illuminato dal sole fra il fitto e intricato fogliame del sottobosco perché ci facesse da bussola sulla via del ritorno alla luce e per un rientro dalla fiaba al mondo della realtà.
Queste esperienze compiute da bambini in momenti di gioco e di spensieratezza sono state le stesse, ma svuotate del gusto della semplice avventura, che hanno accumunato popolazioni fra loro lontane, ma assimilabili per la presenza del castagno nel loro ambiente naturale.
Nel dialetto ossolano, quello in uso nelle sette valli che circondono Domodossola, il castagno è denominato “arbul”, l’albero per eccellenza!
In una economia di sussistenza, che ha caratterizzato le nostre realtà montane e pedemontane, dove l’emigrazione ha rappresentato da sempre fino ai nostri giorni l’unica fuga dalla miseria e dalla fame, la castagna è stata la principale risorsa. Durante tutte le guerre, gli assedi, le carestie, questo frutto ha costituito un alimento che non richiedeva semine e raccolti sempre incerti, ma si trovava a portata di mano nei boschi della propria valle.
Raccolta, fatta essicare perché si conservasse per l’intero anno, veniva portata sulle povere tavole della gente di montagna cotta nel latte munto dalla mucca o asina o pecora quando presenti intorno alla baita o alla cascina, oppure semplicemente nell’acqua. Una anziana signora tanti anni fa raccontava di aver festeggiato con una scodella di castagne cotte nel latte il suo matrimonio avvenuto durante l’ultima guerra con il medico condotto di un paesino sperduto fra le montagne del Comasco.
La castagna veniva anche macinata, ridotta in farina ed utilizzata come il grano e il granoturco per confezionare gnocchi, castagnacci, torte e biscotti…
Oggi, dopo essersi imposta come marron glacé, è tornata ad essere regina nei menù dei ristoranti italiani stellati e diffusi in tutto il mondo sotto forma di “montebianco”, sormontato da una soffice coltre di panna montata o come un inedito “tiramisù” o immersa in una coppa come soffice crema innaffiata di rum e spruzzata di polvere di cacao…
Nella mia terra prealpina, nella val d’Ossola in particolare, ogni ristorante o locanda, durante tutto l’anno propone gnocchi di castagne conditi con il burro di Crodo rosolato insieme a foglie di salvia. Sono fatti come un tempo con le castagne essicate al sole e macinate. In verità, non per tutti sono così buoni e morbidi come quelli fatti con le patate e la farina di grano, ma hanno in più il sapore della storia, quello che sa dare il senso di appartenenza a una comunità e ai suoi valori come le caldarroste che incontriamo lungo le nostre strade.
Nelle sagre della castagna diffuse in autunno in ogni paesino arroccato sulle pendici delle montagne la comunità si chiama a raccolta intorno al fuoco e alle castagne che saltellano crepitanti sulla piastra bucherellata. Si respira aria di festa, si esce dalla solitudine propria delle realtà montane; per qualche ora si scacciano i pensieri, si ritrovano gli amici; con un bicchiere di vino rosso in mano, che azzera ogni inibizione, si parla con tutti anche con chi non si conosce, anche con chi è venuto dalla città o da un paese straniero per ritrovare una dimensione che sembra sospesa fuori dal tempo…
La preparazione degli gnocchi di castagne ricalca quella dei più conosciuti e diffusi gnocchi di patate:
Per 4/6 persone: 1 Kg. di patate che vanno lessate quindi sbucciate e passate con l’apposito attrezzo. Si uniscono: 1 etto di farina di castagne, 1 uovo sbattuto; sale q.b.
Con l’impasto ottenuto, morbito e omogeneo, si formano rotolini che vanno tagliati per ottenere gnocchetti della dimensione desiderata. Prima di cuocere gli gnocchi nell’acqua bollente per un paio di minuti, finché non vengono a galla, si prepara il condimento: 120 g. di burro che deve colorirsi in una padella insieme a sei foglie di salvia. Si scolano gli gnocchi, si insaporiscono e amalgamano con il condimento con l’aggiunta di una tazzina di acqua di cottura; quindi si cospargono con parmigiano o con ricotta salata grattugiata, pepe a piacere.
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