LA CENTRALITÀ DELL’EDUCAZIONE PER IL PROGRESSO DEL PAESE

Se è sempre utile guardare al passato per valutare il presente e guardare con consapevolezza al futuro, propongo una essenziale ricostruzione storica, coniugata con la mia esperienza nel ruolo prima di docente e poi di dirigente scolastico, che metta in luce come sia urgente che la scuola ritorni ad essere il fulcro su cui ricostruire la crescita democratica e lo sviluppo del nostro Paese.

L’istruzione obbligatoria venne introdotta in Italia durante il regno napoleonico, quando la scuola fece i primi passi per modellarsi su uno dei tre ideali della Rivoluzione francese, l’égalité. Nel 1810 Giacchino Murat decretò l’obbligatorietà della scuola primaria, concepita come pubblica, obbligatoria e gratuita. Tutti i cittadini, sia maschi che femmine, dovevano accedervi; invece per i livelli superiori non doveva esserci uguaglianza dell’istruzione perché si dovevano valorizzare i talenti, senza però prevedere pari opportunità. La scuola, bandito qualsiasi insegnamento religioso, doveva essere laica e finalizzata alla formazione civile oltre che alla trasmissione di capacità professionali spendibili nella società. Ma siamo ancora nell’ambito dell’ancien régime,quando la società è divisa da un solco invalicabile che separa aristocrazia e alta borghesia, a cui è riservata cultura, ricchezza, privilegi e la massa popolare (proletariato), analfabeta, affamata, con l’unica ricchezza della propria prole.

Il decreto di Murat sfumò senza nessun risultato, nel giro di pochissimi anni, insieme alla sconfitta di Napoleone e alla restaurazione dei vecchi regimi sanciti dalla Santa Alleanza con il Congresso di Vienna nel 1815. Però in Italia era stato piantato un seme che comincerà a dare i suoi frutti cinquant’anni dopo con la legge Casati, varata nel 1859, quindi alle soglie dell’unità nazionale. Nasceva sul presupposto racchiuso nel famoso motto di Massimo d’Azeglio fatta l’Italia si devono fare gli Italiani. Infatti mirava a contrastare l’analfabetismo diffuso nell’80% della popolazione e a diffondere la lingua italiana come collante di tutte le realtà culturali, linguistiche, storiche locali.

Questa legge garantiva l’obbligatorietà e la gratuità della scuola nazionale che si articolava in diversi livelli di istruzione: elementare, superiore, università. La scuola elementare era suddivisa in due bienni: il primo obbligatorio, il secondo attivato solo nei comuni con più di 4000 abitanti. L’istruzione superiore era divisa anch’essa in due tipologie, quella classica (ginnasio e liceo) che introduceva all’università e quella tecnica (scuola e istituto), che non ne consentiva l’accesso.

La legge Casati fu totalmente disattesa perché non prevedeva sanzioni per i genitori inadempienti, per i quali i figli costituivano l’unica risorsa da impiegare nei campi oppure da affidare a mastri ombrellai, spazzacamini, arrotini, maniscalchi perché imparasserono un mestiere che forse in futuro li avrebbe sottratti alla fame.

Si deve al nobile Cesare Correnti, già fautore degli ideali risorgimentali e protagonista in armi sulle barricate durante le Cinque giornate di Milano nel marzo 1848, la prima ampia e illuminata proposta di un sistema scolastico democratico e non confessionale.

Correnti, nel 1867, sotto il Regno di Umberto I di Savoia, chiamato per la seconda volta a rivestire la carica di ministro della Istruzione Pubblica nel governo di Bettino Ricasoli, migliorò la condizione economica degli insegnanti attraverso l’istituzione di un “monte pensione” per i maestri elementari e migliorò i programmi scolastici universitari. Ma il suo programma, di largo respiro e con intuizioni di una certa attualità, come la flessibilità dei curricola e un’apertura alla scolarizzazione delle donne, era troppo avveniristico per essere approvato.

In tema di obbligo scolastico il Correnti presentò il 17 aprile 1872 un apposito progetto di legge, anch’esso non approvato, che, superando la prima legge Casati del 1859, si rivelò l’antefatto della legge “Coppino” varata dieci anni dopo, il 15 luglio 1877, durante il governo della sinistra storica di Agostino Depretis.

La legge 3961, detta “Coppino” dal nome del proponente, elevò da due a tre anni l’obbligo scolastico per fanciulli e fanciulle rispetto alla legge Casati, imponendo un anno di corso serale o festivo alla fine del biennio; l’obbligo dell’istruzione negli stabilimenti industriali e negli opifici con più di quattro bambini, nelle carceri, nelle case di pena e di custodia; l’esclusione del cittadino analfabeta da qualsiasi rapporto di lavoro con lo Stato e gli enti locali; un’ammenda per le famiglie inadempienti.

Anche questa legge però fu di fatto disattesa poiché in molti comuni italiani, spesso in deficit, mancavano edifici scolastici. I genitori inoltre, nonostante le sanzioni previste, rifiutavano di mandare i loro figli a scuola, perché, come abbiamo già evidenziato, per il prole-tariato la prole era ricchezza. Questa problematica, nonostante l’obbligo scolastico si sia dilatato nel tempo fino ai sedici anni dei nostri giorni, è tuttora aperta a centocinquanta anni di distanza, poiché l’abbandono scolastico continua ad essere una grave piaga sociale che compromette alle radici il sano sviluppo della società, soprattutto al Sud.

La precedente legge Casati del 1859 rimase sostanzialmente in vigore fino al 1923, quando fu varata la riforma Gentile di cui si è appena celebrato il centenario.

La riforma Gentile, inserita in una serie di atti normativi del Regno d’Italia, fu una riforma scolastica organica. Prese il nome dall’ispiratore, il filosofo neoidealista Giovanni Gentile, ministro della Pubblica Istruzione che la elaborò insieme a Giuseppe Lombardo Radice nel 1923 durante il governo Mussolini.

La riforma Gentile ha interessato tutti i livelli dell’istruzione, dalla scuola dell’infanzia all’università, introducendo cambiamenti significativi nella struttura e nei contenuti didattici. Ha lasciato un segno indelebile nel sistema educativo italiano, sia per il suo tentativo di completare la politica iniziata da Casati con l’ampliamento dell’obbligo scolastico e delle sue articolazioni; sia per aver posto la filosofia quale mezzo per elevare lo spirito critico e la religione come fondamento di una formazione etica; sia per il suo carattere elitario e quindi discriminatorio rispetto alle classi sociali più deboli; sia per il suo contributo alla diffusione dell’ideologia fascista.

La riforma ha introdotto 3 anni di scuola dell’infanzia; 5 anni di scuola elementare obbligatoria con esame finale. A fondamento e coronamento dell’istruzione elementare era previsto l’insegnamento della religione cattolica, materia obbligatoria a partire dalla prima classe, tramite docenti dichiarati idonei dall’autorità ecclesiastica, salvo il caso in cui i genitori dichiarassero di volervi provvedere personalmente. (L’ora di religione diventerà facoltativa grazie a un testo di revisione dei Patti Lateranensi tra il regno d’Italia e la Santa sede dell’11 febbraio 1929, firmato a Villa Madama a Roma il 18 febbraio 1984 dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato della Santa Sede).

Per l’istruzione di secondo grado la riforma gentiliana ha creato istituti con vari indirizzi di studio per favorire la predisposizioni dei singoli studenti. Di fatto la scelta avveniva in base al censo delle famiglie. Questa segmentazione, che richiedeva una scelta già a dieci anni di età, mirava da un lato a creare un sistema educativo che potesse formare le menti elitarie della futura classe dirigente; dall’altro a preparare al mondo del lavoro i ragazzi svantaggiati economicamente e culturalmente, secondo una logica di fatale e discriminatoria preclusione ai ruoli più elevati nella società.

La riforma Gentile, che va contestualizzata nel ventennio buio, illiberale, oppressivo di tutti i valori democratici propri alla dittatura fascista, nonostante sia stata oggetto di un certo ostracismo, ottenne il voto favorevole di Giovanni Giolitti, Benedetto Croce e del partito popolare di Luigi Sturzo, perché riconobbero al governo retto da Mussolini il merito di regolamentare la scuola e l’università, seppur a vantaggio di pochi “eletti”, e soprattutto di riconoscere la centralità dell’educazione per il progresso del paese.

Poiché gli effetti di una riforma hanno una ricaduta tangibile solo dopo anni, ricordiamo che la Costituzione italiana fu elaborata da quelle “menti” illuminate formatesi nella scuola riformata da Gentile, ma ispirata ai valori democratici conquistati con la Resistenza.

Si deve infatti all’art. 34 della Costituzione, “laica” e “democratica”, promulgata il 12 dicembre 1947 e in vigore dall’ 1 gennaio 1948, l’inizio di un nuovo corso dell’istruzione in Italia:

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

Il diritto di accedere al sistema scolastico, a prescindere dalla situazione economica, trova riscontro anche a livello comunitario nell’art. 14 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Il primo intervento di legge in applicazione del dettato costituzionale, dopo il vuoto legislativo degli anni Cinquanta, avvenne nel dicembre 1962, durante il ministero del democristiano Luigi Gui, per effetto della legge 1859, che istituì classi speciali e differenziali per gli alunni disadattati scolastici, precedentemente esclusi dalla scuola. Essi seguiranno appositi programmi in orari di insegnamento secondo un calendario speciale.

Il secondo passo verso la democratizzazione della società avvenne, durante lo stesso ministero, con l’istituzione della Scuola Media Unica, obbligatoria, che metteva fine alla scelta a soli dieci anni tra la scuola media, a cui si accedeva attraverso un esame di ammissione presso una istituto superiore di primo grado, e la scuola professionale o, in gran misura, l’abbandono definitivo di un percorso formativo.

In pieno boom economico, quando la speranza di un futuro migliore rispetto a quello della generazione precedente, sprigionava energie positive; quando il benessere cominciava a coinvolgere anche le masse popolari che potevano permettersi la Fiat Seicento e il frigorifero a rate, iniziava una rivoluzione culturale e democratica anche e soprattutto in ambito scolastico: dal 1963 tutti i ragazzi e le ragazze, di ogni ceto sociale, dal figlio dell’industriale o dell’intellettuale al figlio del portinaio o dell’operaio o dell’immigrato dal Sud alle città industriali del Nord, sedevano uno accanto all’altro nella stessa aula scolastica. Oggi il pensiero va inevitabilmente ai giovani figli di immigrati da paesi stranieri che nascono in Italia, condividono la scuola con gli studenti italiani, sono integrati nella vita sociale, ma non godono degli stessi diritti se non dopo un lungo e discriminante percorso non solo burocratico.

La riforma della Scuola Media Unica comportò uno sconvolgimento di grande portata non solo per il corpo studentesco e le loro famiglie, ma anche per quello docente che, abituato a classi omogenee e selezionate, si trovava di fronte a scolaresche eterogenee per estrazione sociale, prerequisiti culturali, linguistici e comportamentali, a volte con gravi deficit di apprendimento. Le giovani generazioni di insegnanti invece, che si stavano aprendo al dibattito culturale e alla crescente contestazione studentesca degli anni Sessanta, mentre le piazze chiedevano lo svecchiamento del sistema scolastico, fecero propria con diffuso entusiasmo la nuova sfida della scuola media unica e con pari spirito accolsero i successivi interventi normativi mirati a una sempre maggiore democratizzazione della scuola. La riforma comportò per alcuni anni un investimento finanziario immane per l’edificazione di nuove strutture scolastiche o il recupero di vecchi stabili, spesso caserme e ospedali, per accogliere una popolazione scolastica enormemente dilatata. Fu necessaria l’assunzione in massa di docenti, reperiti in gran misura anche fra gli studenti universitari per integrare il corpo docente assolutamente insufficiente e così pure personale ausiliario, tecnico e amministrativo.

Con l’istituzione della Scuola Media Unica, che avrà piena attuazione nei primi anni Settanta, inizia un percorso di democratizzazione e laicizzazione dell’istruzione che va di pari passo con il graduale declino delle scuole parificate o private, perlopiù gestite da enti religiosi, in assoluta continuità con la cultura “gentiliana”. Infatti, per un ben preciso obiettivo conservativo della cultura cattolica, “democristiana”, alle scuole private gestite da suore era demandato il monopolio della formazione, presso Scuole e Istituti Magistrali, delle future insegnanti di scuola materna ed elementare. La formazione della futura classe dirigente era invece affidata ad ordini religiosi maschili che gestivano Licei classici e scientifici che, nel panorama degli istituti scolastici statali, erano carenti o addirittura assenti in numerose realtà del paese. A titolo esemplificativo possiamo ricordare che a Verbania, capoluogo di provincia sulla sponda piemontese del lago Maggiore, il ginnasio statale “Luigi Cadorna”, istituito già alla fine dell’Ottocento, è stato completato con il successivo triennio di Liceo classico solo nel 1967.

Va da sé che l’elevato costo delle scuole private consentiva la loro frequenza esclusivamente ai ceti medio-alti della popolazione, a cui veniva riservato il ruolo dirigenziale nel paese, mentre, fino alla fine degli anni Settanta, ai ceti inferiori veniva diffusamente precluso, nonostante il merito, di risalire la scala sociale, come previsto dell’art. 3 della Costituzione:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.

Nel 1974, durante il ministero del democristiano Franco Maria Malfatti, con Decreto del Presidente della Repubblica 406 del 31 maggio “Sperimentazione e ricerca educativa, aggiornamento culturale e professionale ed istituzione dei relativi istituti”, vengono istituiti gli “Organi collegiali della scuola”, organi di gestione e autogoverno delle istituzioni scolastiche con la rappresentanza delle diverse componenti: docenti, genitori, studenti (questi ultimi solo negli istituti superiori), personale ausiliario-tecnico-amministrativo.

L’art. 3 dello stesso decreto presidenziale autorizza le scuole di ogni ordine e grado ad attuare attività di sperimentazione. Negli istituti superiori di II grado, si aprono percorsi formativi, “indirizzi”, più aderenti al mondo del lavoro, al progresso tecnologico-scientifico inarrestabile e alle istanze del contesto territoriale, nazionale, globale. Nella scuola elementare e media si può ampliare l’orario scolastico con il tempo pieno e il tempo prolungato, in gran misura sacrificato nell’ultimo decennio per i tagli di bilancio all’istruzione e alla sanità, servizi sociali di primaria rilevanza che hanno condiviso una sorte a dir poco devastante.

La legge 517 del 4 agosto 1977, “Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico”, varata durante lo stesso ministero, rappresenta un’altra tappa fondamentale del processo di democratizzazione della scuola italiana: si conclude il tempo dell’emarginazione degli alunni portatori di handicap in classi speciali o differenziali perché gli stessi, inseriti nelle classi normali, seguiranno un piano educativo personalizzato, con il supporto della nuova figura dell’insegnante di sostegno.

Si può affermare che questa legge rappresenti, in Italia, lo spartiacque storico tra una scuola della separazione e una dell’inserimento. La scuola diventa quindi il luogo dove anche gli alunni svantaggiati possono cercare di superare le difficoltà di apprendimento insieme ai propri coetanei, con i quali condivideranno i tempi, le esperienze, le emozioni, presenti e future, al di fuori delle aule scolastiche, nella società.

Alla stessa legge si deve la valorizzazione della libertà di insegnamento dei docenti nell’ambito della progettazione educativo-didattica di istituto, promuovendo l’arricchimento e la diversificazione dell’offerta educativa in relazione alle singole scolaresche:

(art. 7) Al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, ed iniziative di sostegno, anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni. Nell’ambito della programmazione di cui al precedente comma sono previste forme di integrazione e di sostegno a favore degli alunni portatori di handicap da realizzare mediante la utilizzazione dei docenti. Le classi che accolgono alunni portatori di handicap sono costituite con un massimo di 20 alunni.

Questa legge, che va di pari passo con il potenziamento delle classi a tempo pieno e tempo prolungato e delle mense scolastiche, consente di adottare la flessibilità dell’orario delle lezioni per ritagliare, all’interno del curricolo obbligatorio, “160 ore” di attività di recupero, di sostegno o di arricchimento dell’offerta formativa per piccoli gruppi di allievi. I docenti, anche in collaborazione con l’insegnante di sostegno, possono svolgere lezioni in compresenza in ragione della complessità del sapere e definire itinerari extracurricolari di approfonimento della storia locale, di educazione ambientale, musicale, artistica, motoria… L’insegnamento si trasforma da una mera trasmissione del sapere, come nel modello gentiliano, a un percorso educativo-didattico orientativo costruito sulle caratteristiche delle scolaresche e soprattutto sui bisogni dei singoli alunni, dei loro livelli di partenza, delle loro attitudini personali, secondo una programmazione concordata in ogni Consiglio di classe, nell’ambito del progetto educativo-didattico definito dal Collegio dei docenti sulle linee di indirizzo deliberate dal Consiglio di Istituto.

Il finanziamento della legge 517/77 è contemplato dall’art. 17: All’eventuale onere, derivante dall’attuazione della presente legge, per l’anno finanziario 1977, si provvede con le economie risultanti dalla soppressione delle classi di aggiornamento e differenziali di cui al precedente articolo 7. Il Ministro per il tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

Nel 1994 vengono istituiti nelle aree montane gli Istituti comprensivi di scuola materna, elementare, media. Il successo conseguito dalle “scuole campione”, sotto osservazione degli ispettori scolastici regionali e monitorati in convegni nazionali, nel giro di alcuni anni vede il diffondersi di questo nuovo modello di scuola anche al di fuori delle zone montane. Gli istituti comprensivi, nati per contenere la spesa pubblica riducendo gli organici del personale dirigente e tecnico-amministrativo, hanno, grazie all’entusiasmo degli operatori scolastici, ottimizzato la continuità educativo-didattica-metodologica e il raccordo fra diversi ordini di scuola, ma la tendenza a dilatare gli accorpamenti sul territorio ha via via distolto i dirigenti scolastici dal loro ruolo storico di promotori dell’attività educativa e didattica, relegandoli a funzioni soprattutto amministrative e burocratiche.

Con la legge 144/1999, firmata dal ministro del Partito Democratico Luigi Berlinguer, l’obbligo scolastico viene innalzato da 8 a 10 anni. Per la copertura degli oneri finanziari con decreto del Ministro del tesoro vengono stanziati lire 8 miliardi per l’anno 1999 e lire 10 miliardi rispettivamente per l’anno 2000 e 2001.

Durante lo stesso ministero viene varata la legge 10 marzo 2000, “Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione”. Con questo dispositivo legislativo verranno comprese nel sistema nazionale di istruzione oltre alle scuole statali, le scuole paritarie private e degli enti privati, con l’obiettivo prioritario di espandere l’offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda di istruzione dall’infanzia lungo tutto l’arco della vita. Diversamente dal passato, le scuole paritarie e degli enti privati, oltre ad essere vincolate ai principi di libertà stabiliti dalla Costituzione, devono assicurare le stesse garanzie ad ampio raggio delle istituzioni scolastiche statali, in particolare Le scuole paritarie, svolgendo un servizio pubblico, accolgono chiunque, accettandone il progetto educativo, richieda di iscriversi, compresi gli alunni e gli studenti con handicap. E ancora Non sono comunque obbligatorie per gli alunni le attività extra-curriculari che presuppongono o esigono l’adesione ad una determinata ideologia o confessione religiosa.

La legge regolamenta i titoli di studio rilasciati dalle suddette scuole, il reclutamento dei docenti, i contratti di assunzione, l’idoneità degli edifici scolastici, i piani dell’offerta formativa, la trasparenza dei bilanci; controlla l’istituzione e il funzionamento degli organi collegiali istituiti con decreto 416 del 31 maggio 1974:

Al fine di rendere effettivo il diritto allo studio e all’istruzione a tutti gli alunni delle scuole statali e paritarie nell’adempimento dell’obbligo scolastico e nella successiva frequenza della scuola secondaria e nell’ambito dell’autorizzazione di spesa (…), lo Stato adotta un piano straordinario – pluriennale – di finanziamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano da utilizzare a sostegno della spesa sostenuta e documentata dalle famiglie per l’istruzione mediante l’assegnazione di borse di studio di pari importo eventualmente differenziate per ordine e grado di istruzione (art. 1/9).

Questa vivacità e propensione all’innovazione espresse nelle singole scuole è stata ulteriormente potenziata nell’anno 2000, secondo un orientamento affermatosi a livello europeo negli ultimi decenni del XX secolo, ai sensi del D.p.r. 275/1999 che riconosce a tutte le istituzioni del sistema scolastico nazionale l’autonomia amministrativa, didattica e organizzativa. Con un finanziamento complessivo previsto di 230.368 miliardi di lire l’autonomia degli istituti scolastici italiani ha rappresentato una pietra miliare sul graduale cammino verso un sensibile miglioramento della qualità dell’istruzione garantendo una nuova sostanziale partecipazione democratica. Ogni istituzione scolastica, attraverso gli organi collegiali d’istituto e il più ampio potere/responsabilità attribuito ai presidi con la nuova qualifica di dirigente scolastico (art. 21 della legge 59/1997), ferme restando le linee guida ministeriali, può definire la propria mission nell’ambito di una specifica realtà, interagendo con le altre agenzie culturali del territorio.

Dall’anno 2000, con la crisi dei debiti sovrani in Europa, inizia il declino economico dell’Italia culminato nel 2011 quando era repentinamente diventata uno dei paesi più a rischio di default.

Caduto in questo frangente il IV Governo Berlusconi, con il “governo tecnico” affidato all’economista Mario Monti e alla politica dell’austerity, dal 2011 si è ulteriormente aggravato il depauperamento dei due servizi pubblici fondamentali per la società italiana, quello dell’istruzione e quello della sanità.

Dopo gli storici mancati adeguamenti stipendiali ai docenti, che vivono una situazione di frustrazione per il disconoscimento della loro funzione, dopo i corsi di formazione “a distanza” del personale scolastico imposti dal Covid e mantenuti in ragione della loro economicità, dopo che i rapporti scuola-famiglia sono stati affidati a un registro digitale; dopo il mancato adeguamento degli edifici scolastici alle norme di sicurezza e inadatti per una didattica che richiede spazi funzionali e flessibili, questi stessi edifici sono ora oggetto di ulteriori soppressioni. I ministri dell’Economia Giacarlo Giorgetti e dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara lo scorso 30 giugno hanno firmato il decreto interministeriale che dà esecuzione alla riduzione delle istituzioni scolastiche autonome previsto dalla legge di bilancio 2023. Verranno tagliati 780 istituti scolastici in tutto il Paese, la maggior parte al Sud, che faranno risparmiare 88 milioni di euro a regime. L’80% del taglio complessivo, 628 istituti, verrà realizzato nell’anno 2024/25. Questa scelta “meloniana” comporterà un taglio dei dirigenti scolastici e dei direttori dei servizi di segreteria, perpetuando la tendenza iniziata con gli Istituti comprensivi sull’algoritmo del “tagliare, accorpare, comprimere”, con grave ricaduta sulla buona gestione della scuola, sul suo funzionamento, sulla promozione della qualità dell’insegnamento e sull’immagine percepita dalla popolazione studentesca a cui, in via precauzionale, viene fin d’ora impedito di manifestare il proprio pensiero anche con l’intervento delle forze dell’ordine. Dopo i manganelli usati come mezzo di dissuasione nei confronti degli studenti perlopiù minorenni di Pisa e Firenze e degli universitari di molti atenei italiani, il ministro Valditara escogita l’arma più sbrigativa, subdola e antipedagogica della bocciatura con il “cinque” in condotta. Del resto lo stesso ministro che siede dietro la scrivania di Benedetto Croce, all’inizio del mandato, con la sua prima campanella suonata da viale Trastevere, proclamava: «È stato un buon inizio, ma dobbiamo ancora migliorare!».

Il ruolo di Cenerentola a cui negli ultimi decenni è stata relegata l’istruzione e l’attuale atteggiamento repressivo e di chiusura su tutti i fronti verso le istanze delle nuove generazioni da parte del governo Meloni, sono sintomatici di come si stia sempre più perdendo la consapevolezza che Cultura, Democrazia, Libertà sono tappe inscindibili di un percorso verso un livello evolutivo più alto dell’Umanità.


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