La legge elettorale vigente è la terza legge elettorale incostituzionale da quando si è abbandonata la proporzionale in seguito all’indiscutibile successo dei referendum promossi dall’ on. Mariotto Segni e dal suo Movimento per la Riforma Elettorale nel 1991 (Sì 95,57%, No 4,43%, con un’affluenza del 62,50%) e soprattutto del 1993 ( Sì 82,74%, No 17,26%, con un’affluenza del 77,01%). Il primo aveva come oggetto la riduzione delle preferenze alla Camera da tre ad una, con l’effetto di privilegiare la raccolta competitiva delle preferenze tra i candidati della stessa lista, rispetto ai voti per la propria lista rispetto alle liste concorrenti.
Il secondo trasformava il Senato in una Camera eletta integralmente con un sistema maggioritario a turno unico di collegi uninominali, quando prima riguardava un numero limitati di collegi attribuito a candidati con almeno il 65% dei voti, con i restanti attribuiti in ambito regionale in proporzione ai voti presi dai gruppi di candidati con lo stessi simbolo. La volontà di cambiamento degli elettori si tradusse con le leggi n. 276 (Senato) e n. 277 (Camera) del 1993, il cosiddetto Mattarellum, in un sistema misto maggioritario per 3/4 dei seggi ed una correzione proporzionale per il restante quarto.
Alla Camera la correzione proporzionale si esprimeva con una scheda distinta di liste bloccate, cioè senza voti di preferenza. Al Senato, invece, l’elettore riceveva una solo scheda con tutti i candidati del suo collegio con l’elezione diretta dei candidati più votati in 236 collegi e di 79 candidati con il miglior quoziente individuale di collegio. I cittadini elettori eleggevano direttamente, liberamente e personalmente con il loro voto disgiunto i 3/4 dei deputati e tutti i senatori.
Le prime elezioni col nuovo sistema si svolsero nel 1994 e per la prima vota la maggioranza dei seggi alla Camera 366/630 fu conquistata da una formazione politica, che non corrispondeva alla maggioranza del corpo elettorale, ma al 42,84% con un’affluenza 86,07% e mancandola di poco al Senato sugli elettivi (156/315) con il 42,60%, ma insufficiente per una Camera Alta, che grazie a Senatori a vita e di diritto raggiungeva i 326 membri, inaugurando la pratica di acquisire la maggioranza con ogni mezzo compresa la compravendita di parlamentari.
Nelle elezioni del 1992 le ultime con la proporzionale e con una partecipazione del 87,07% (+23,16% rispetto al 2022) i partiti del “pentapartito”, che appoggiavano il governo Andreotti VI, l’ultimo della XI legislatura ebbero il consenso della maggioranza assoluta del corpo elettorale sia alla Camera che al Senato e i 4 partiti, che formarono i governi Amato e Ciampi, una chiara maggioranza dei seggi elettivi, sia alla Camera (331/630), che al Senato (163/315).
Le due elezioni del 1992 e del 1994 pur così diverse come sistema elettorale e panorama politico furono quelle di più breve durata della storia parlamentare repubblicana, perché Mani Pulite aveva investito il sistema politico italiano nel suo complesso, delegittimandolo agli occhi del popolo italiano senza poter risolvere nessuno dei problemi, che erano alla base della sua crisi, a cominciare da quello preso a pretesto della scelta maggioritaria della instabilità dei governi.
Dal 11 maggio 1994 ad oggi abbiamo avuto 18 governi in 29 anni, cioè in media uno ogni anno e 7 mesi, ma con due governi anomali come gli esecutivi Monti e Draghi di larghe intese formati in seguito a decisioni maturate fuori dalla sua sede naturale il Parlamento italiano e neppure soltanto in Italia, ma in un ambito euro-nordatlantico, in sigle BCE/UE/NATO/FMI, e dei poteri politici, economici e finanziari correlati.
Uno svuotamento della sovranità dello stato nazionale, che non si contrasta con il populismo sovranista, ma con un rafforzamento del processo democratico di integrazione europea, con il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali protagonisti, il luogo del protagonismo tecnico burocratico della Commissione europea e politico decisionale dei governi nazionali Nel Consiglio Europeo.
Il condizionamento esterno è sempre più evidente in questo trentennio che avrà il suo compimento nel 2024, che agli amanti della democrazia costituzionale sarebbe piaciuto ricordare e celebrare solo come il centenario del rapimento e assassinio del compagno socialista, on. Giacomo Matteotti: che non dovrebbe essere ridotto all’icona del martire del fascismo. Matteotti è stato, soprattutto, un campione della democrazia parlamentare e per questo avversario temibile del fascismo non ancora regime, ma a cui una legge elettorale, approvata da un Parlamento, in cui erano appena 35 su 230, ha dato la maggioranza, con i suoi complici, dei due terzi per diventarlo. Le analogie con il presente finiscono qui, malgrado le suggestioni, che sarebbero fuorvianti per disegnare una strategia di contrasto ad una maggioranza, che non è tale per consenso popolare, ma per effetto della distorsione tra voti in entrata e seggi in uscita di una legge elettorale incostituzionale, senza premi di maggioranza apparenti, ma con violazione degli artt. 48.2 e 51.1 Cost., come cercherò di dimostrare.
La nostra è una democrazia rappresentativa con forma di governo parlamentare razionalizzato, nella quale “la sovranità appartiene al popolo” (art. 1.2 Cost.), non semplicemente promana o deriva dallo stesso, “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, quindi principalmente come corpo elettorale, partecipante alle elezioni ed ai referendum, che in materia normativa, si era progettato di ampliare, rispetto a quello abrogativo, il solo previsto dall’art. 75 Cost., accanto a quello , previsto dall’art. 138 Cost., costituzionale eventuale.
La centralità del Parlamento è stata usata come pretesto per contrastare il potere del popolo, anche grazie alle sciagurate, perché sterili e improduttive, contrapposizioni tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, che si rafforzano vicendevolmente nella democrazia partecipativa di cittadini informati, sia come elettori e membri di partiti, che siano loro espressione libera e diretta ”per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.” come previsto dall’art. 49 Cost., purtroppo mai attuato con un’organica legge sui partiti politici, come in Germania, Francia o Spagna.
La responsabilità della mancata attuazione è anche dei partiti della Prima Repubblica, compresi quelli di massa, che sono, comunque da rimpiangere, se paragonati a quelli attuali di proprietà di un padrone fondatore o comandati da leader, che li controllano grazie al potere di nomina dei parlamentari o da oligarchie o cupole partitocratiche nel migliore dei casi, come se la frammentazione correntizia fosse un segnale di pluralismo democratico.
Forma di governo, legge elettorale e sistema dei partiti sono tra loro intrecciati e i loro squilibri si riflettono sul funzionamento delle istituzioni democratiche, compresi gli organi costituzionali e i loro reciproci rapporti, che presuppongono una leale cooperazione, come anche tra Stato centrale e Regioni, specie dopo la riforma, non seriamente meditata, del titolo V della Parte Seconda della Costituzione con la legge cost. n. 3/2001.
Con la scusa di salvare il Parlamento dal popolo il Governo ha impedito il controllo di costituzionalità, costituendosi con l’Avvocatura dello Stato in opposizione alle azioni giudiziarie, sulle leggi elettorali facendo dell’art. 66 Cost., con la complicità della magistratura il fondamento della carenza assoluta di giurisdizione anche prima della proclamazione dei parlamentari, malgrado il chiaro letterale tenore del detto articolo:
“Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissionedei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. Senza la proclamazione non si è componenti di una Camera, sia pure in attesa di convalida, e le cause sopraggiunte sono pacificamente successive alla proclamazione e alla convalida.
Non solo, malgrado il solenne giuramento ex art. 93 Cost., che i membri del Governo devono prestare nelle mani del Presidente della Repubblica prima di assumere le funzioni, non devono nemmeno motivare perché si oppongono all’accertamento di una possibile violazione della Costituzione. Ma un Governo, il Berlusconi IV (2008-2011) non si è limitato a questo, ma scientemente non ha dato attuazione a una precisa delega del Parlamento, nel quale godeva di un’amplissima maggioranza sia alla Camera (344/630) che al Senato (174/315), di introdurre “la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica” (art. 44 c. 2, lett. d) l. n. 69/2009).
I nostri costituenti, pur avendo deciso di non costituzionalizzare il sistema elettorale o i suoi principi, hanno dato un preciso segnale che la legge elettorale non è una legge ordinaria qualunque, associandola significativamente ai disegni di legge in materia costituzionale nell’endiadi del quarto comma dell’art. 72 Cost. per il quale “La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale”, si esclude quindi che in tali materie si possa fare ricorso all’esame e approvazione deferiti alle commissioni parlamentari, alla delega al Governo ex art.76 Cost., per non parlare della decretazione d’urgenza ex art. 77 Cost., fatto pacifico finora per le revisioni costituzionali, ma non più così certo dopo che la Presidente della Camera, la terza donna chiamata a presiederla, ha creato il precedente di ammettere il voto di fiducia per ben tre volte sulla legge elettorale, la n. 52/2015, funzionale alla deforma costituzionale promossa dal Governo Renzi, sconfessando il motivato lodo del 1980 della ben più autorevole e sensibile ai valori costituzionali prima Presidente donna, compagna on. Nilde Iotti.
Con la richiesta della fiducia da parte del Governo, prevista dalla Parte terza del Regolamento Camera, aveva argomentato la Iotti, si era fuori dalla Parte seconda che disciplinava la procedura normale di esame e approvazione dei disegni di legge. Presto avremo la prova della sensibilità di questo Governo in carica quando il disegno di legge sull’Autonomia Differenziata dovesse affrontare difficoltà procedimentali parlamentari di approvazione, richiamando l’attenzione sulle parole usate dai costituenti non disegni di legge costituzionali ed elettorali, bensì in materia costituzionale ed elettorale, come lo è l’attuazione con legge ordinaria dell’art. 116.3 Cost. in deroga alla Costituzione vigente e nella quale si parla di intesa tra Stato e Regione, non tra Governo, in persona di un Ministro, e Presidente della Regione interessata.
Per un Parlamento, Gruppi parlamentari e forze politiche, che li esprimono, fedeli alla Costituzione (un tempo dopo i fatti di Genova e Reggio Emilia del luglio ’60, la reazione popolare ad un Governo con appoggio esterno determinante del MSI, nacque l’espressione “arco costituzionale”, come limite implicito alle alleanze)è assolutamente semplice approvare una legge elettorale costituzionale, basta attenersi ai principi enunciati dall’art. 48.2 Cost. per l’elettorato attivo e 51.1 Cost. per quello passivo. A parte l’ovvietà della segretezza, il voto degli elettori deve essere personale, eguale e libero e tutti possono accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, con un’osservanza della Costituzione effettiva, non superficiale o puramente formale, non c’è bisogno d’altro. Invece, alla luce dei risultati delle elezioni con voto di preferenza, si è dovuto aggiungere con un emendamento costituzionale un secondo periodo al primo comma dell’art. 51 Cost.: “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” (legge cost. n. 1/2003).
Eppure, già era chiaro che la norma si riferiva a donne e uomini con l’espressione “dell’uno o dell’altro sesso” e il nostro art. 3, che al primo comma, vieta ogni discriminazione in base al sesso, al secondo affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che limitino di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Per voto eguale e libero non basta che i voti abbiano potenzialmente lo stesso effetto o che l’elettore possa votare per liste e candidati inclusi nelle schede di voto, “senza che sia avvicinato da alcuno” (artt. 58 dpr n. 361/1957 e 14 dlgs n. 533/1993), come se il condizionamento sia solo quello fatto nel seggio o nelle sue vicinanze e liste e candidati siano stati illegittimamente esclusi o addirittura non potessero neppure presentarsi. Se la procedura di selezione dei candidati, tanto più in caso di liste bloccate o per candidati uninominali, non è trasparente, regolamentata, tempestivamente ed efficacemente impugnabile per violazione degli Statuti dei partiti o con regole cambiate nell’imminenza delle elezioni1.
Gli articoli 48 e 51 Cost. sono stati interpretati dalla Corte costituzionale e proprio con le sentenze n. 1/2014 e 35/2017 sull’elettorato attivo e in tempi più recenti dalle sentenze n.48/2021 e 60/2023 sull’elettorato passivo.
Il diritto di voto — lo ricorda l’espressa statuizione della Corte costituzionale nella sentenza numero 1/2014 — “costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare secondo l’articolo 1 della Costituzione” (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”).
Costituisce un vero e proprio diritto soggettivo, che spetta ad ogni cittadino, ai sensi degli artt. 51 e 2 della nostra Carta Costituzionale, manifestazione del principio di sovranità popolare di cui all’art. 1.
Quella sentenza ha chiarito nel Considerato in diritto sia l’eguaglianza del voto nel paragrafo 3.1.- La questione è fondata siache cosa si debba intendere per voto libero e personale nelparagrafo 5.1.- La questione è fondata nei termini di seguito precisati.
L’ eguaglianza “esige che l’esercizio dell’elettorato attivo avvenga in condizione di parità, in quanto «ciascun voto contribuisce potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi» (sentenza n. 43 del 1961), ma «non si estende […] al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore […] che dipende […] esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari» (sentenzan. 43 del 1961).”(penult. cpv. del par. 3.1., sent. cit.) e conclude con «In ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano, nei quali pure è contemplato detto principio e non è costituzionalizzata la formula elettorale, il giudice costituzionale ha espressamente riconosciuto, da tempo, che, qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale2, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita”, ai fini dell’attribuzione dei seggi, che non sia necessaria ad evitare un pregiudizio per la funzionalità dell’organo parlamentare (BVerfGE, sentenza 3/11 del 25 luglio 2012; ma v. già la sentenza n. 197 del 22 maggio 1979 e la sentenza n. 1 del 5 aprile 1952).» (ult. cpv. del par. 3.1., sent. cit.).
Sulla libertà e personalità del voto «In questo quadro, le disposizioni censurate, nello stabilire che il voto espresso dall’elettore, destinato a determinare per intero la composizione della Camera e del Senato, è un voto per la scelta della lista, escludono ogni facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei candidati nella stessa, ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti.”
La scelta dell’elettore, in altri termini, si traduce in un voto di preferenza esclusivamente per la lista, che – in quanto presentata in circoscrizioni elettorali molto ampie, come si è rilevato – contiene un numero assai elevato di candidati, che può corrispondere all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall’elettore stesso.
Una simile disciplina priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti. A tal proposito, questa Corte ha chiarito che «le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee – quali la “presentazione di alternative elettorali” e la “selezione dei candidati alle cariche elettive pubbliche”3 – non consentono di desumere l’esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell’ambito del procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 Cost.» (ordinanza n. 79 del 2006). Simili funzioni devono, quindi, essere preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini ed alla realizzazione di linee programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al corpo elettorale, al fine di consentire una scelta , più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati.».(cpvv. III, IV e v del par. 5.1., sent. cit.).
Con il richiamo all’ordinanza di remissione, integralmente accolta in tutti i punti qualificanti (cfr, mass. n. 43682, sent. cost. n. 35/2021), con l’annullamento del premio di maggioranza, delle liste integralmente bloccate e dell’assenza del voto di preferenza come si desume dall’annullamento della disposizione che prevedeva l’annullamento del voto nel caso di apposizione di ogni altro segno, diverso dal voto per la lista.
La libertà e personalità di voto, nel senso precisato dalla sentenza n. 1/2014 è ulteriormente espropriata dal legislatore con le multi-candidature, in quanto neppure il voto motivato dalla personalità del candidato uninominale garantisce l’elezione del candidato più votato personalmente nel collegio ne garantisce l’elezione perché è determinante il voto dato alla lista o liste collegate nello stesso collegio, perché il voto per una delle liste collegate lista vale automaticamente come voto anche per il candidato, anche in assenzo di ogni manifestazione di volontà dell’elettore che non è libero neppure di non votarlo, perché se avesse indicato un candidato non collegato alla lista o coalizione votata la sanzione è la nullità del voto.
Non solo il voto non libero e personale, ma addirittura indiretto, cioè determinato dagli elettori, che hanno votato soltanto la lista bloccata: la violazione degli artt. 56.1 e 58.1 Cost. è di evidenza palmare.
Altra violazione del voto libero, personale e diretto si ha nel caso che l’elettore voglia votare soltanto per il candidato uninominale non volendo votare nessuna delle liste bloccate a lui collegate, anche per giudizio negativo sull’ordine di lista e non potendo votare, a pena di nullità del voto, per una lista di suo completo gradimento. In caso di coalizione il voto non viene ripartito in parti eguali tra le liste collegate, in quanto indifferente, ma il suo voto sarà diviso tra le liste in proporzione ai voti ottenuti dalle liste dagli elettori, che, le hanno votate: anche in questo caso siamo in presenza di voto indiretto, quindi con violazione degli artt. 56.1 e 58.1 Cost.
Il plurieletto in collegi plurinominali non è quello più votato dagli elettori, ma dove ha ottenuto il peggior risultato, la ragione è apparentemente misteriosa, ma si giustifica con la lista bloccata in cui il capolista è imposto dal Partito. Nella legge n. 52/2015, annullata con la sentenza costituzionale n. 35/2017, il capolista aveva il seggio riservato in caso di raggiungimento di un solo quoziente e il plurieletto aveva apparentemente la scelta del collegio, in realtà era il partito in considerazione dei candidati, che sarebbero stati beneficiati dalla scelta. La Corte Cost. annullò questa libertà di scelta e impose l’estrazione a sorte. La nomina nel peggior collegio del plurieletto ha un chiaro significato, la sua elezione non dipende da lui e nemmeno dagli elettori ma dal partito, che l’ha pluricandidato.
Un’altra particolarità delle leggi elettorali, che è lo speciale trattamento delle liste rappresentative delle minoranze linguistiche riconosciute, che nel sistema proporzionale non avevano bisogno di alcuna tutela particolare, se non al Senato nel caso di manipolazione dei collegi. Di fatto ne profittavano solo due minoranze linguistiche, quelle menzionate nei Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947 tra l’Italia e le Potenze Alleate e Associate, la francese della Val d’Aosta e il tedesco del T-A.A./S: 1) la Val d’Aosta perché eleggeva sia alla Camera che al Senato un parlamentare con il maggioritario, di frequente un esponente della minoranza linguistica francese; 2) La minoranza tedesca perché il partito di raccolta, la SVP era il partito di maggioranza relativa alla Camera e al Senato era maggioritaria in almeno 2 collegi.
Con la legge 30 dicembre 1991, n. 422 dei 7 collegi senatoriali (art. 57.3) 6 erano assegnati in collegi uninominali, 3 per ogli Provincia. La legge costituzionale n. 1/2020 ha risparmiato dal taglio medio del 36,50% solamente il Senato della Regione con il trucco di assegnare 3 senatori per ciascuna delle Province Autonome di Trento e Bolzano.
Nel 1999 veniva finalmente con 51 anni di ritardo approvata la legge di attuazione dell’art. 6 Cost. la legge n. 482/1999 e che dava attuazione anche alla Convezione-quadro di protezione delle minoranze nazionali, adottata dal Consiglio d’Europa il1 febbraio 1995, ratificata e resa esecutiva in Italia con Legge 28 agosto 1997, n. 302. Nell’ambito del Consiglio d’Europa, di cui l’Italia è membro fondatore, vi è un altro strumento di tutela delle lingue minoritarie, la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, trattato internazionale concluso a Strasburgo il 5 novembre 1992 nell’ambito del Consiglio d’Europa (STE 148), firmata dall’Italia nel 2000. Tuttavia non è mai stata ratificata, per l’opposizione del Partito, che ora esprime la Presidente del Consiglio dei Ministri: quindi, non lo sarà in questa legislatura, con buona pace della Lega, che una volta era paladina delle parlate regionali piemontese e veneto, il lombardo come è noto non esiste.
A partire dalla legge elettorale n. 270/2005 si dettano norme speciali per le liste rappresentative di minoranze linguistiche, ma tagliate su misura per la SVP poiché riguardava liste “rappresentative di minoranze linguistiche riconosciute, presentate esclusivamente in una delle circoscrizioni comprese in regioni il cui statuto speciale prevede una particolare tutela di tali minoranze linguistiche, che abbiano conseguito almeno il 20 per cento dei voti validi espressi nella circoscrizione”. Nelle cinque regioni a Statuto speciale la Val d’Aosta nessuna lista poteva rivendicare il 20% in quanto si votava con il maggioritario. Nel Friuli Venezia Giulia, che ha tre leggi regionali per friulano, sloveno e parlate germaniche, non c’è nessuna norma statutaria di particolare tutela, ma dal 2002 una norma di attuazione dello Statuto speciale, eppure con 500.00 parlanti è la seconda lingua minoritari dopo il sardo e prima del tedesco alto atesino/sudtirolese. Soltanto la legge elettorale n. 165/2017 equiparando le norme di attuazione dello Statuto alle norme statutarie ha esteso al friulano e al sardo le norme speciali, ma il PSdAz non ne ha profittato. La Sicilia non ha norme statutarie di tutela della ormai piccola minoranza albanofona.
L’insensibilità trasversale, perché riguarda tutte le maggioranze parlamentari dal 1980 ad oggi, per le lingue minoritarie è dimostrata paradossalmente dalla legge elettorale per il Parlamento europeo, la legge n. 18/1979.
Infatti, malgrado l’entrata in vigore il 1° dicembre sia del Trattato di Lisbona che del Trattato di Nizza, che ha approvato la CARTA DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA (CDFUE), la ratifica della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali e soprattutto dell’approvazione della legge n. 482/1999 di attuazione dell’art. 6 Costituzione, le sole minoranze linguistiche riconosciute sono soltanto la francese della Val d’Aosta, la tedesca della Provincia di Bolzano e la slovena del Friuli-Venezia Giulia, contemplate in trattati internazionali (Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 19,47 e Trattato di Osimo del 10 novembre 1975). Sono violati dalle sue disposizioni gli artt. 2, 6, 10 e 14 TUE, 20 e 22 TFUE e 20, 21 e 39 CDFUE, oltre che, conseguentemente, degli artt. 3, 6, 48, 49,51, 67 e 117.1 Cost. e dell’art. 3 del Primo protocollo aggiuntivo alla C.E.D.U. nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo (Ekoglasnost vs. Bulgaria, No. 30386/05, C.E.D.U. Quarta Sezione, 6 novembre 2012 e Cegolea vs. Romania, No. 25560/13, C.E.D.U. Quarta Sezione, 24 Marzo 2020.) Il fatto stupefacente è che si voterà il 9 giugno 2024 per il rinnovo dei Parlamentari europei spettanti all’Italia e non più rappresentati dell’Italia nel Parlamento europeo come recitava il tritolo originario della legge n. 18/1979. Eppure, dovrebbe interessare a tutti la legittimità della soglia del 4%, del diritto all’esenzione delle firme di presentazione e della possibilità di collegamento con liste rappresentative della minoranza linguistica sarda, friulana e albanese, tutte più numerose delle tre riconosciute dalla legge elettorale europea.
Teoricamente ci sono i rimedi giurisdizionali, ma in materia elettorale non sono i giudizi previsti dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dall’art. 47 CDFUE e persino dal nostro art. 111.1 Cost. ,perché grazie al foro speciale della P.A. (art. 25 c.p.c.) le parti non sono in condizione di parità e i tribunali competenti ad esaminare i ricorsi sono appena 26, quelli dei Comuni capoluogo di distretto di Corte d’Appello, invece degli oltre 100 Tribunali Civili ordinari, presenti in tutte le Province.
Senza una legge elettorale costituzionale il popolo non può, come corpo elettorale, esercitare la sovranità che gli appartiene (art. 1.2 Cost.), quindi eleggere con voto diretto, eguale, libero e personale i parlamentari, e, quindi, questi rappresentare la Nazione senza vincolo di mandato (art.67 Cost.), se sono nominati dai partiti non regolamentati da una legge di attuazione dell’art. 49 Cost., rappresenteranno i loro interessi proni agli ordini dei loro capi e non potranno controllare i governi da essi partiti decisi ed espressi.
Le leggi formalmente le approva il dopo la amento e il Presidente che le promulga avendo giurato fedeltà alla Repubblica e di osservarne la Costituzione non ha mai fatto osservazioni, ma dopo la terza legge (n. 270/2005, n. 52/2015 e n. 165/2017) elettorale incostituzionale, malgrado le chiare pronunce della Corte costituzionale non è il caso di far giurare di osservare la Costituzione anche ai parlamentari? Un atto simbolico perché l’art. 68 Cost. (“I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.”)li tutela da ogni sanzione, ma quando gli elettori potranno scegliere da chi farsi rappresentare, potranno giudicare, se, chi non rispetta il giuramento, è un cittadino che ha svolto una pubblica funzione con “disciplina e onore”, come gli richiede l’art. 54.2 della Costituzione.
NOTE
1 Per il Codice di Buona Condotta in Materia Elettorale (Parere n° 190/2002, CDL-AD(2002)023rev Or. fr., fatto a Strasburgo, 23 maggio 2003 dalla Commissione Europea per la Democrazia Attraverso il Diritto), normativa d’interposizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per giudicare la violazione dell’art. 3 del Primo protocollo aggiuntivo alla C. E.D.U. sono sospette le modifiche che intervengano “poco prima dello scrutinio (meno di un anno).” (Proposizione. 65 del Rapporto Esplicativo).
2Come è il caso della legge n. 165/2017, come modificata con la legge n. 51/2019 in cui la parte proporzionale 5/8 dei seggi è prevalente rispetto alla parte maggioritaria
3Porre l’attenzione sulle parole usate dalla Corte: “Selezione dei candidati” non equivale a nomina dei parlamentari, che sarebbe “un’attribuzione costituzionale” di cui non è consentito “desumere l’esistenza”. Le funzioni dei partiti ex art. 49 Cost. (articolo non ancora attuato con una legge organica come in tutti gli stati con “ordinamenti costituzionali omogenei a quello italiano”), in particolare quello tedesco (cfr. ult.cpv. par. 3.1., cit.). La Corte fa propria l’argomentazione dell’ordinanza di remissione della Corte Cass. Civ., sez. I, n.12060/2013: “Nel merito, la Corte di cassazione, in contrasto con quanto ritenuto dai giudici di merito, premette che l’assenza di una espressa base giuridica della materia elettorale nella Costituzione non autorizza a ritenere che la relativa disciplina non debba essere coerente con i conferenti principi sanciti dalla Costituzione ed in specie con il principio di eguaglianza inteso come principio di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., e con il vincolo del voto personale, eguale, libero e diretto (artt. 48, 56 e 58 Cost.), in linea, peraltro, con una consolidata tradizione costituzionale comune a molti Stati.” (Ritenuto in fatto, par. 1.6., sent. cit.).
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